Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

L’ordine esecutivo di Trump contro l’immigrazione musulmana: se prima vi bombardavamo, ora vi espelliamo

Zaid Jilani, The Intercept_ (Unofficial Resources) - 25 gennaio 2017

Photo credit: Delil Souleiman/AFP/Getty Images

Un ordine esecutivo che il presidente Trump dovrebbe firmare a breve (L’ordine esecutivo firmato da Trump sull’immigrazione è entrato in vigore immediatamente venerdì notte 27 gennaio 2017 n.d.R.) prevede la restrizione per le visite e l’immigrazione verso gli Stati Uniti da sette Paesi a maggioranza musulmana: Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria, Yemen e Iran.

La bozza del documento è stata diffusa dall’Huffington Post e dal Los Angeles Times.

Il testo, dal titolo “Protezione della nazione da attacchi terroristici ad opera di cittadini stranieri”, dovrebbe sospendere per almeno 30 giorni il rilascio dei visti alla maggior parte delle persone provenienti da questi sette Paesi, mentre l’amministrazione revisiona le sue procedure di controllo.

La maggior parte dei cittadini di Paesi stranieri deve ottenere il visto prima che gli venga riconosciuto il permesso di entrare negli Stati Uniti.

Al fine di proteggere gli americani, è necessario assicurarsi che coloro a cui è permesso entrare nei nostri confini non abbiano atteggiamenti ostili nei confronti del nostro Paese o dei nostri principi fondanti” si legge nel testo, giustificando così il divieto generale.

Il documento si fonda sulla sezione O, paragrafo 2, comma 203 del Consolidated Appropriations Act del 2016, che presenta le ragioni di eventuali sospensioni nel rilascio dei visti per motivi di sicurezza. Tale documento ha portato alla stesura della lista dei sette Paesi in questione. Il Dipartimento per la Sicurezza Nazionale ha illustrato come, nella legge del 2016, Iraq e Siria siano esplicitamente presenti nella lista, Iran e Sudan siano inseriti come stati sostenitori del terrorismo e Libia, Somalia e Yemen siano indicati come “aree a rischio”.

Un altro elemento che tutti questi Stati hanno in comune è che il governo degli Stati Uniti sia prepotentemente intervenuto nei loro territori: gli USA stanno attualmente bombardando, o lo hanno fatto fino a poco tempo fa, ben sei dei sette Paesi della lista. L’Iran non è mai stato bombardato, ma gli Stati Uniti hanno comunque una lunga storia di ingerenza in questo Paese, compreso un recente attacco informatico (cyber-attack).

È come una versione ribaltata della regola del “chi rompe paga”: se bombardiamo un Paese o contribuiamo a destabilizzarne la società, successivamente vieteremo ai suoi cittadini di cercare rifugio negli Stati Uniti.

Il senatore democratico del Connecticut Chris Murphy ha affrontato ironicamente l’argomento mercoledì mattina su Twitter:

Qui di seguito potete trovare un riassunto dei rapporti che legano i sette Paesi in questione agli Stati Uniti:

IRAN. L’Iran è stato teatro di un colpo di stato sostenuto dalla CIA nel 1953. Il golpe portò al potere lo Scià Mohammed Reza Pahlavi, dittatore che ha governato il Paese fino alla sua deposizione avvenuta nel 1979 a seguito della Rivoluzione Islamica. In seguito, gli Stati Uniti appoggiarono la guerra contro l’Iran mossa dal leader iracheno Saddam Hussein, nonostante l’utilizzo da parte di quest’ultimo di armi chimiche contro la popolazione iraniana. Inoltre, nel 1988, la marina americana abbatté per errore un aereo di linea carico di civili iraniani, uccidendo tutte le 290 persone a bordo. Più recentemente, l’Iran è stato vittima di uno dei primi attacchi informatici sponsorizzati da un governo, dal momento che il virus Stuxnet è stato impiegato per danneggiare il suo programma nucleare.

IRAQ. Quattro presidenti di fila hanno bombardato l’Iraq. Dopo dieci anni di pesanti sanzioni che hanno principalmente danneggiato la società civile irachena più che il governo al potere, l’invasione americana del 2003 ha portato a centinaia di migliaia di morti. Questa destabilizzazione ha trasformato l’Iraq nella “capitale internazionale del terrorismo”.

LIBIA. Dalle incursioni aeree del 1986, ai recenti attacchi contro i campi dello Stato Islamico in Libia, passando per l’intervento militare del 2011, il Paese è da sempre teatro di azioni militari USA. Alcuni dei rifugiati che hanno lasciato il Paese hanno affermato che preferirebbero morire in mare piuttosto che ritornare in Libia.

SIRIA. Gli Stati Uniti e altri Paesi hanno sostenuto i gruppi ribelli durante la guerra civile siriana per anni. Gli Stati Uniti hanno inoltre diretto una massiccia campagna aerea contro lo Stato Islamico e altri gruppi estremisti. La violenza su ogni fronte ha portato milioni di siriani a fuggire dal Paese, dando vita alla peggior crisi migratoria degli ultimi decenni.

SOMALIA. La Somalia è stato uno dei principali obiettivi della guerra dei droni e il sostegno americano all’invasione del Paese da parte dell’Etiopia non ha aiutato alla sua stabilizzazione. Il Paese vive infatti una perenne crisi umanitaria.

SUDAN. Nel 1998, gli Stati Uniti fecero saltare in aria lo stabilimento farmaceutico di Al-Shifa, che produceva più della metà dei medicinali di tutto il Paese. L’attacco è stato giustificato nel tentativo di fermare una cellula dell’organizzazione terroristica di Osama bin Laden, ma nessun legame effettivo è mai stato riscontrato.

YEMEN. Anche lo Yemen è stato l’epicentro di una guerra condotta mediante droni. Gli Stati Uniti hanno inoltre svolto un ruolo centrale sostenendo l’intervento dell’Arabia Saudita nella guerra civile yemenita, che ha causato finora più di 10,000 morti e lasciato milioni di persone a soffrire la fame. Ciò ha portato inevitabilmente al riemergere di gruppi terroristici anti-americani, quegli stessi gruppi che i bombardamenti con i droni avrebbero dovuto ridimensionare.

A questo punto è importante notare che l’Iran, dove al-Qaeda, ISIS e altre organizzazioni terroristiche anti-americane non hanno alcun appoggio significativo, è presente nella lista, mentre l’Arabia Saudita, da cui provenivano 15 terroristi dell’11 settembre e che è da sempre la culla di numerosi gruppi terroristici, non lo è.