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Una corona per Pateh: non dimentichiamolo

La Venezia antirazzista e solidale ha salutato e ricordato il giovane che si è suicidato domenica scorsa

Venerdì 27 gennaio, in una data altamente simbolica per la società europea che vuole ricordare l’orribile genocidio di cui è stata testimone durante la Seconda Guerra Mondiale, la Venezia accogliente, solidale ed antirazzista si è raccolta davanti alla stazione dei treni, dove domenica scorsa Pateh Sabally, un ragazzo di 22 anni del Gambia, ha deciso di compiere il gesto estremo del suicidio gettandosi nel Canal Grande.

Centinaia di persone si sono unite silenziosamente perché scosse da una tragedia che ha toccato la sensibilità di tanti, ma che in troppi hanno commentato sui media a sproposito, senza accorgersi che prima di ogni cosa era morto un ragazzo di soli 22 anni. Troppe sono state le speculazioni su questo episodio, e chi simbolicamente è accorso per dare un ultimo saluto al ragazzo, lo ha fatto perché non vuole rimanere indifferente di fronte alle fatiche e ai drammi che molti migranti sono costretti a vivere, come non può accettare il disprezzo dei commenti razzisti di una (piccola) parte di società ormai annichilita e stordita da discorsi sempre più violenti e carichi di odio.
La partecipazione numerosa ha dimostrato che sono ancora tantissimi quelli che non affrontano le problematiche sociali con superficialità e che, invece, si impegnano per costruire una collettività migliore, aperta ed accogliente.

Tuttavia non dimenticare in fretta Pateh deve servire a non perdere mai la memoria, ad insegnarci che cose così orribili non devono e non possono accadere e che ognuno di noi deve adoperarsi affinché non si ripetano. La morte del giovane gambiano deve esserci utile, almeno in questo. Deve farci riflettere, farci capire ed agire.
Pateh ha deciso di morire buttandosi in acqua, rifiutando i soccorsi, ha deciso di rendere evidente la sua personale disperazione, di essere visibile al di là di un permesso di soggiorno, al di là di una commissione territoriale o di una questura che decide se un richiedente asilo può essere “regolare” o “irregolare”.
Nessuno può sapere a cosa avrà pensato e se con la sua morte a Venezia volesse mandare questi messaggi, ma sappiamo che solo nell’ultimo anno sono arrivate in Italia più di 180mila persone e che tra di loro ci potrebbero essere molti Pateh abbandonati nel sistema di accoglienza italiano, senza supporto e le attenzioni necessarie. Ma altrettanti Pateh potrebbero essere coloro che sono stati sbattuti fuori dal sistema, coloro che sono stati considerati “migranti economici”. Magari sono i soggetti più vulnerabili, sono quelli che hanno lasciato tutto per non trovare niente. Sono quelli che hanno lasciato il calore degli affetti trovando aridità e gelo, sono quelli che vediamo ogni giorno stazionare davanti al supermercato sotto casa. Invisibili per assenza di diritti, invisibili agli occhi di una società indurita, molti di loro chiedono semplicemente di essere ascoltati, di mantenere viva la fiammella della speranza e di non perdersi del tutto in balia delle onde.

Riflettere su tutto questo, forse, ci può servire a costruire città e comunità accoglienti che sanno ascoltare le sofferenze, ad andare oltre la commozione e agire per includere e rivendicare diritti, a non abituarci mai allo stato di cose presenti.
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