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I rifugiati, una risorsa utile per aiutare coloro che sono rimasti nei Paesi d’origine

Alexander Betts, The Guardian - 22 gennaio 2017

Photo credit: Angelo Aprile, campo di Idomeni (aprile 2016), #overthefortress

La crisi dei rifugiati in Siria e nel Mediterraneo ha portato a un ripensamento sul loro ruolo all’interno della società. Come possiamo mettere i numerosi rifugiati accolti in Europa e che continuano ad arrivare attraverso la rotta mediterranea nelle condizioni di fornire un contributo?

Una ricerca svolta dalla Banca Mondiale e da altre agenzie ha mostrato come i rifugiati possano avere un’influenza positiva sull’economia, sebbene finora sia stato difficile considerarli come una vera e propria risorsa politica. Possiamo aiutare coloro che si trovano in Europa a contribuire alla transizione verso una pace duratura e verso la democrazia nei Paesi di provenienza come la Siria, volgendo in primo luogo lo sguardo sulle cause che li hanno spinti a lasciare le proprie case?
Se includiamo i Paesi con elezioni truccate, più della metà della popolazione mondiale vive sotto regimi autoritari. Attraverso la repressione, i governi di Paesi come Iran, Corea del Nord ed Eritrea rendono l’opposizione politica praticamente impossibile all’interno del loro territorio. Tuttavia, questi regimi non riescono a cancellare completamente la vita politica, che semplicemente si “trasferisce”.

È a questo punto che nascono le opportunità. Oltre al milione e più di rifugiati siriani, l’Europa ospita cittadini che provengono praticamente da ogni Paese politicamente instabile al mondo. Spendiamo miliardi in aiuti, cercando, spesso in modo fallimentare, di finanziare il cambiamento in questi Paesi. Tuttavia abbiamo davanti a noi un’enorme opportunità che ancora non viene sfruttata: i cittadini di questi Paesi, che continuano a mantenere contatti, inviare rimesse e che un giorno potrebbero tornare a casa. Molti di noi hanno avuto una qualche conversazione con un tassista somalo che pensava di tornare a servire il suo Paese. Il modo in cui trattiamo questi rifugiati in esilio formerà la loro abilità nel determinare l’andamento politico dei loro Paesi d’origine.

Durante la guerra fredda, i cosiddetti “guerrieri rifugiati”, dai contras nicaraguensi in Honduras ai mujahideen afghani in Pakistan, vennero sfruttati dalla politica estera statunitense. Oggi si riconosce l’importanza del ruolo dei migranti nella diaspora per lo sviluppo: le rimesse inviate ai Paesi in via di sviluppo ammontano a 430 miliardi di dollari l’anno. Non si tratta tuttavia esclusivamente di ribelli e di rimesse, ma della più banale, e altrettanto importante, opposizione politica non-violenta.

Tendiamo a pensare che le diaspore semplicemente si creino da loro stesse. Per alcune ciò è stato vero, come nel caso delle diaspore ebraica e armena; altre portano allo sviluppo di una folla critica, perché ricevono sostegno esterno, compreso quello di Paesi terzi che contribuiscono con denaro e risorse. Questo è il motivo per cui i rifugiati e i migranti di alcuni Paesi, come Zimbabwe e Rwanda, diventano rapidamente attivi dal punti di vista politico, mentre altri no (Uganda, Cina).

Due recenti esempi dall’Africa dimostrano le potenziali opportunità e i limiti dell’impegno della politica estera britannica nella questione dei rifugiati. Prima della crisi siriana, quello dello Zimbabwe rappresentava il più grande esodo del ventunesimo secolo: si stima infatti che più di due milioni di persone siano partite per il Sud Africa solo tra il 2003 e il 2010. In un Paese ospitante che offriva un’assistenza limitata ai rifugiati, i migranti dello Zimbabwe hanno dovuto cavarsela da soli. Rapidamente sono emerse una miriade di organizzazioni: alcune fornivano supporto psico-sociale, altre assistenza alimentare; alcune ricevevano finanziamenti, altre no. Quasi tutte comunque sostenevano in un modo o nell’altro il partito politico di opposizione, il Movimento per il Cambiamento Democratico (MDC).

Due elementi sono emersi. Il primo, che la diaspora della popolazione dello Zimbabwe ha avuto delle conseguenze. I loro trionfi politici includono: il blocco, nel porto di Durban, di un carico di armi cinesi destinate a raggiungere Harare, capitale dello Zimbabwe; la denuncia che ha portato la polizia sudafricana a indagare su episodi di tortura, anche se avvenuti sul suolo dello Zimbabwe e non su quello del sudafricano; e la decisione del governo sudafricano di offrire una moratoria per quanto riguardava la deportazione della popolazione zimbabwese.

Secondo, la diaspora dallo Zimbabwe non è stata creata solo dai suoi cittadini, ma anche da attori terzi. Incapaci di influenzare i politici di Harare, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e una vasta gamma di fondazioni hanno finanziato selettivamente alcune delle organizzazioni impegnante nella diaspora nel tentativo di allentare la presa di potere di Robert Mugabe. I loro finanziamenti selettivi hanno gonfiato alcune organizzazioni e sfavorito altre. Mancando tuttavia di contatti a livello locale, l’Ufficio degli Affari Esteri e del Commonwealth britannico ha fatto affidamento sulle conoscenze delle organizzazioni di difesa sudafricane che avevano interessi particolari. In molti casi, i donatori hanno sostenuto inconsapevolmente organizzazioni fasulle o addirittura corrotte. Con la nascita ad Harare del Governo di Unità Nazionale nel 2008, i finanziatori hanno perso definitivamente la pazienza, ritirando le loro donazioni e concludendo prematuramente che il cambio del regime sarebbe stato possibile solo focalizzandosi sulla politica all’interno dei confini dello Zimbabwe.

Il Rwanda conta ancora il 3% della sua popolazione in esilio in tutto il mondo. Impossibilitato ad operare a Kigali, il gruppo di opposizione principale, il FDU-Inkingi (Forces Democratiques Unifiées, ndt), può fare affidamento sulla mobilitazione transnazionale, operando tra Londra, Parigi, Bruxelles, Kampala e Johannesburg, organizzando incontri politici e piccole proteste. Tuttavia il governo del Rwanda ha contrastato tale mobilitazione, creando una diaspora pro-regime per raccogliere fondi a sostegno dello Stato e per supportare i programmi di scambio ideologico. L’investimento da parte del regime stesso mostra come quest’ultimo possa controllare la lealtà dei cittadini anche all’estero senza dipendere esclusivamente da omicidi e intimidazioni violente. Allo stesso tempo, i partiti come il FDU-Inkingi sono esclusi dalle politiche estere britanniche e statunitensi che sostengono fermamente il governo del Rwanda.

I due casi africani sopra citati mostrano come la diaspora dei rifugiati possa avere un impatto considerevole; le politiche britanniche e di altri Paesi occidentali nei loro confronti sono tuttavia spesso confuse e incoerenti. Spesso facciamo infatti affidamento su fonti di intelligence locali sbagliate. In Europa abbiamo popolazioni in grado di influenzare le politiche dei Paesi d’origine attraverso denaro, reti di conoscenze e la creazione di partiti politici.

Quali sono dunque le popolazioni che avanzano questa richiesta e in che modo? Nel 2015 il Paese con il più alto numero di richiedenti asilo in Gran Bretagna era l’Eritrea, che ha eliminato il dissenso politico, imposto il reclutamento obbligatorio e stabilito controlli alle frontiere. La transizione ad Asmara è una priorità del FCO (Ufficio degli Affari Esteri e del Commonwealth britannico, ndt), ma coloro che compiono la diaspora continuano a rimanere esclusi. Il sostegno, diretto o intermediato da organizzazioni, in Gran Bretagna e in altri Paesi confinanti, potrebbe permettere all’opposizione di emergere. Allo stesso modo, aiutare la popolazione siriana in esilio nel prepararsi a un’era post-Assad dovrebbe iniziare con il supportare la società civile siriana e con il permettere a nuove forme politiche rappresentative di emergere.

Per raggiungere questo traguardo è necessario però un cambiamento di vedute: bisogna smettere di considerare l’asilo solo come una questione politica interna e iniziare a concepirlo come un tema strettamente connesso alla politica estera e a obiettivi di sviluppo che comprendono le ricostruzioni post-belliche e il consolidamento della pace. Non è facile mettere le persone in esilio nella condizione di contribuire al cambiamento del proprio Paese di origine, ma il sostegno a una transizione a lungo termine nelle regioni più instabili al mondo può dipendere anche da ciò.

Da tradurre: Alexander Betts ricopre la cattedra di Migrazioni forzate e affari internazionali all’Università di Oxford. É co-autore con Will Jones di “Mobilitando la diaspora: come i rifugiati possono combattere l’autoritarismo” (Mobilising the Diaspora: How Refugees Challenge Authoritarianism).