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La libertà personale è inviolabile? Non per le donne richiedenti asilo accolte a Nuvolera (Bs)

Visita nei CAS bresciani gestiti della coop Olinda: servizi inadeguati e gravi inadempienze. La denuncia di ex operatori e richiedenti asilo

Cas di Nuvolera (Bs) - Fuochi all'aperto per cucinare in assenza di luce e gas

Chiuse a chiave in strutture sovraffollate. Senza nessuno che le informi dei loro diritti e le aiuti a preparare il futuro. Nessun corso di inserimento lavorativo, nessuna lezione di lingua italiana per aiutarle a capire la lingua del Paese che le ospita. Qualche volta senza elettricità, qualche posto senza acqua potabile. Adulti, minori, neonati, vittime di tratta, tutti senza distinzione. Tutti tenuti là, chiusi dentro quattro mura, al solo scopo di “fare reddito” per la cooperativa che gestisce l’accoglienza come un affare. Se ti va bene, qualche operatore si ricorda di fare una spesa. Se ti va male o, peggio ancora, protesti, ti sbattono fuori a calci nel didietro. E senza notificarti, come previsto dalla legge, la revoca.

E’ l’ennesimo caso di mala accoglienza quello che si nasconde dietro le mura della cooperativa sociale Olinda. Meglio conosciuta dai giornali locali come la cooperativa Pigliatutto. “Ad aggiudicarsi l’appalto – si legge nella Gazzetta di Mantova dello scorso 14 novembre a proposito di una gara per l’affidamento di minori – è stata la cooperativa medolese, vera e propria ‘pigliatutto’ nel campo dell’accoglienza dei profughi (nelle sue strutture ne sta gestendo un numero rilevante […] ma nessuno fornisce i dati)“.

Già. Nessuno fornisce dati. Tutto è “top secret” come se l’accoglienza fosse una questione militare. Inutile chiedere informazioni alla cooperativa. Inutile anche bussare alle porte delle tante strutture gestite dalla cooperativa per chiedere se ci sono minori, per vedere le condizioni delle stanze o dei bagni, o per scambiare due parole con gli ospiti. Tutto vietato. Tutto nascosto. Tutto secretato.

Ci abbiamo anche provato, noi di Melting Pot e di LasciateCiEntare a bussare, qualche giorno fa, al portone del Cas di Nuvolera in provincia di Brescia. Ma niente da fare. Un cerbero fatto donna ci ha cacciati in malo modo rifiutandosi categoricamente di darci qualsiasi informazione sulla gestione della struttura.

Per fortuna, ci sono altri modi per gettare uno sguardo al di là delle barricate. I racconti dei profughi e, soprattutto, le dichiarazioni degli operatori che, come è già avvenuto in altri casi di mala accoglienza, ci contattano per raccontarci quando accade all’interno con tanto di foto, filmati e documenti. Sono persone che si sono avvicinate all’accoglienza spinte da motivi umanitari e sono le prime ad essere schifate di fronte a gestioni che misurano i diritti umani col metro del fatturato.

Ma vediamo innanzitutto cosa è la cooperativa Olinda.

La coop Pigliatutto

Inutile cercare nel sito di questa cooperativa con sede a Medole, nel mantovano, qualche dato sul suo bilancio. Ci troverete solo il “bilancio sociale” del 2013 che si ricama addosso successi su successi. Ma di soldi spesi e ricevuti neppure l’ombra. Per diretta esperienza le cooperative che operano con professionalità e qualità nell’accoglienza pubblicano i propri bilanci. Il sito di Olinda nella parte della mission è colma di principi etici ma non vi è traccia dei conti. Sarebbe interessante capire come si è incrementato il fatturato della coop Pigliatutto, visto che attualmente gestisce una 50ina di centri d’accoglienza straordinaria, ubicati in tre province diverse, con accolti all’incirca mille richiedenti asilo, sia adulti che minorenni. Insomma, se la matematica non è un’opinione e Olinda percepisce una quota media di circa 32-34 euro ad ospite (in questo calcolo non consideriamo i minori), le entrate annuali della coop dovrebbero essersi impennate in modo considerevole. Fatti due conti della serva, quasi un migliaio di migranti equivale a quasi 32 mila euro al giorno. O se preferite, quasi un milione di euro al mese. Cifre lorde, per carità, ma certo non si tratta di bruscolini.

Il nome alla nostra cooperativa lo ha dato un incolpevole Italo Calvino quando nelle sue “Città invisibili” evoca una città dove punto di partenza e punto di arrivo coincidono, e ogni spazio contenga tutti gli altri spazi. Il che non c’entra nulla con le finalità della nostra coop, ma tant’è…
Al pari di altre, la Olinda è nata come cooperativa di servizi scolastici, salvo convertirsi alla mission dell’accoglienza profughi un paio di anni fa ed a diventare di punto in bianco la cooperativa Pigliatutto nelle provincie che circondano il lago di Garda: Verona, Mantova e Brescia.
Oggi, la cooperativa dà lavoro ad un numero di dipendenti stimato tra le 150 e le 160 unità – numero approssimativo perché i licenziamenti e gli addii sono all’ordine del giorno per chi non si uniforma all’andazzo e i sindacati non sono ben visti dai dirigenti (pare che ostacolino il lavoro) -, e appunto gestisce circa una 50ina di Cas dove trovano asilo un migliaio di rifugiati.
Angela, Paolo e Francesco sono gli ex-operatori (nomi di fantasia per garantire loro l’anonimato) che ci hanno contattato per raccontarci quanto avviene all’interno della Olinda. Con loro, a testimoniare, ci sono anche dei richiedenti asilo ospiti della cooperativa (anche di costoro non faremo i nomi per i motivi che comprenderete). Nella loro esperienza con la Olinda, hanno girato per alcune delle strutture di accoglienza della cooperativa.

Senza acqua potabile

“Quando ho fatto presente che nella struttura non c’era acqua, nemmeno per i gabinetti, mi hanno risposto che quelli sono africani e sono abituati a farla sotto gli alberi” racconta Angela. Questo accadde lo scorso ottobre, quando quella cascina rabberciata alla meno peggio fu destinata a centro di accoglienza per una trentina di profughi provenienti dai paesi sub sahariani. Attualmente, ci vivono 30 uomini e 4 minori non accompagnati (che avrebbero diritto a un percorso di accoglienza specifico).
Siamo a Desenzano. Ma toglietevi dalla testa la bella cittadina sul lago di Garda, luogo di vacanze amene. Qui siamo fuori Desenzano. La cascina si trova al termine di una lunga strada non illuminata che finisce con lo sterrato, a ridosso dell’autostrada, abbandonata in mezzo ai campi, lontano dagli occhi degli uomini e, vien da pensare, anche da quelli di dio.
“Nessun corso di italiano, nessun percorso di inserimento sociale, nessun supporto psicologico, nessuna attività, nessun legale che li prepari al colloquio con la commissione” ci spiega Paolo. “Sono buttati là e lasciati a se stessi… E se qualche operatore si permette di sollevare il caso davanti ai dirigenti, viene tacciati di avere il cuore troppo tenero e viene subito allontanato. Se non licenziato in tronco come è accaduto a dei colleghi che avevano alzato la voce dicendo che non si poteva tenere degli esseri umani in quelle condizioni.”
I minori in qualità di soggetti vulnerabili avrebbero il diritto a progetti di accoglienza mirati, ad essere iscritti a scuola ma per gli operatori in pochi prestano la dovuta attenzione ai loro diritti, il lavoro educativo ne risente, diventa routinario e si limita alla custodia. “Addirittura ad un ragazzo minorenne hanno richiesto l’esame del polso per ben 3 volte, e tutte le volte è stata confermata la minore età”, ci racconta Francesco.
Sconsolati da tanta leggerezza e noncuranza dei diritti basilari dei minori – l’accertamento dell’età tramite tramite l’esame del polso dovrebbe essere vietato per legge per la sua invasività e per l’inesattezza dei risultati – non osiamo immaginare quello che accade nelle altre strutture per minori, visto che Olinda ha vinto nel mantovano l’appalto per l’affidamento dei minori stranieri non accompagnati. Paolo infine ci dice che la cascina sarebbe accredita per 21 posti, a fronte delle 34 presenze accertate.
Del caso, si interessò addirittura Rete 4 che mandò in onda un servizio dal titolo “la cascina triste”.
Una delle cose peggiori rimane l’acqua. L’acqua che prima non c’era e che, quando è arrivata, è arrivata da un pozzo vicino, sporca e non potabile (vedi foto 1 e 2). Come testimonia l’analisi chimica (vedi foto) che i nostri ex operatori, preoccupati dell’effetto che quella roba fangosa che usciva dal rubinetto, hanno commissionato ad un laboratorio e che la dichiara assolutamente non potabile.
“La cooperativa lo sa ma se ne frega” assicura Francesco.

Chiuse a chiave

“La scusa è quella di tenerle lontane dalla prostituzione – ci racconta Angela – ma è una autentica idiozia. E’ vero che all’interno del Cas di Nuvolera ci sono alcune donne nigeriane a rischio, ma chiudere il Cas a chiave e impedire a tutte le ospiti di uscire non ha nessun senso. Per le donne che si suppongono vittime di tratta ci sono dei percorsi specifici di tutela che la cooperativa si guarda bene dal seguire, e né fornisce un’adeguata formazione alle operatrici. La verità è che al Comune e ai troppi benpensanti cittadini di Nuvolera non piace vedere le profughe camminare per le ‘loro’ strade e la cooperativa, per il quieto vivere, preferisce tenere le migranti, tutte, chiuse a chiave”. Come fossero bambine dell’asilo, possono uscire solo se accompagnate da un operatore. “Ma gli operatori, con tutto il loro daffare, non hanno mai tempo di portarle a passeggiare – spiega Paolo -. E poi, voglio dire, mica stiamo parlando di cani…”
Anche in questo centro d’accoglienza straordinaria situato nel centro della bella cittadina di Nuvolera, nel bresciano, di corsi di lingua non se ne parla. Così come di avvocati, psicologi o percorsi di sostegno. Qui vivono 38 donne provenienti anch’esse dai Paesi sub sahariani. Ci sono anche 2 neonati per i quali non è ancora scattato, né si sa quando e come scatterà per le loro madri, il percorso protetto in una struttura idonea. Otto stanzoni con tre bagni per tutte. Per la cucina si va a turni. Chi perde il suo turno digiuna. E chi protesta viene messo alla porta, anche se è un soggetto vulnerabile, anche se potrebbe essere una vittima di tratta. Un paradosso che gli operatori spiegano in questo modo. “Non esiste nessun modello educativo, la realtà è che le richiedenti asilo devono essere sottomesse ed avere paura.” Aggiungono molto preoccupati che pochi giorni fa (il 1 febbraio.ndr) la cooperativa ha buttato fuori una ragazza che aveva osato protestare. Paolo racconta che avviene senza nessun preavviso. “Era già accaduto qualche settimana fa con un’altra ragazza e anche in quel caso nessuna notifica, nessun documento che attesti i motivi della revoca”. “Addirittura hanno messo in giro la voce che corridoi, stanzoni e spazi comuni siano sorvegliati da telecamere nascoste per controllare tutto quanto dicono” spiega Angela. “Le ragazze non parlano nemmeno tra di loro e vivono nel terrore di essere buttate fuori”.
La “soluzione” di tenere le migranti chiuse a chiave per evitare di disturbare il quieto vivere del paese, è stata applicata sin dall’apertura del Cas. “A novembre qualche ragazza ha chiamato i carabinieri e la struttura è stata aperta ma, dopo qualche giorno, siamo tornati come prima. Con la sola differenza che chi protestava, sia esso richiedente asilo o operatore, è stato allontanato. E nel cambio di guardia, i nuovi operatori, quelli accondiscendenti con la dirigenza, si son dimenticati di fare la spesa e per due settimane le donne han tirato avanti col latte e col riso avanzato”.
“In estate – aggiunge Francesco – c’è stato un episodio emblematico del pressapochismo dei responsabili di Olinda. Per problemi nella voltura delle utenze ci sono state interruzioni nella fornitura dell’elettricità e del gas e così per mangiare sono state costrette ad accendere un fuoco nel cortile.”
Le visite ed i controlli sanitari vengono effettuati? “Sì per fortuna su questi aspetti prioritari la USL è attenta ma non si può dire la stessa cosa di alcuni operatori e della responsabile”. In che senso? “E’ capitato che una delle due madri fosse in ospedale perché la bambina stava male e gli operatori avrebbero dovuto portarle da mangiare, visto che l’ospedale non le passava i pasti. Ma si dimenticavano o glielo portavano alle 6 di pomeriggio e lei digiunava fino a quell’ora, e lei stava allattando!”
Ci domandiamo se quello che avviene a Nuvolera sia un deficit organizzativo o se l’incompetenza e l’approsimazione dell’operato è così palese anche in altre strutture. Gli ex operatori ci rispondono quasi in coro. “No purtroppo.. quello che avviene a Nuvolera non è un caso isolato, una situazione difficile che la cooperativa non riesce a gestire. Lo stesso trattamento avviene nella cascina a Gazzolina vicino al quartier generale di Medole, dove altre 20 donne vivono rinchiuse”.
“La cosa più triste – conclude Paolo – è la totale incapacità della dirigenza dell’Olinda a concepire l’accoglienza come un diritto e ad uscire dalla logica del fatturato per entrare in quella del servizio alla comunità. Un esempio sono le ragazze nigeriane a rischio di prostituzione. Per la dirigenze sono solo delle possibili criminali. Vedono la questione sotto la luce del reato. Ed invece loro sono solo le vittime e hanno diritto a protezioni aggiuntive. Chiavistelli e muri, non servono a niente e non hanno mai servito a niente. Ma pare che questa sia una cosa troppo difficile da concepire”.

Stefano Bleggi

Coordinatore di  Melting Pot Europa dal 2015.
Mi sono occupato per oltre 15 anni soprattutto di minori stranieri non accompagnati, vittime di tratta e richiedenti asilo; sono un attivista, tra i fondatori di Libera La Parola, scuola di italiano e sportello di orientamento legale a Trento presso il Centro sociale Bruno, e sono membro dell'Assemblea antirazzista di Trento.
Per contatti: [email protected]

Campagna LasciateCIEntrare

La campagna LasciateCIEntrare è nata nel 2011 per contrastare una circolare del Ministero dell’Interno che vietava l’accesso agli organi di stampa nei CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) e nei C.A.R.A. (Centri di accoglienza per richiedenti asilo): appellandosi al diritto/dovere di esercitare l’art. 21 della Costituzione, ovvero la libertà di stampa, LasciateCIEntrare ha ottenuto l’abrogazione della circolare e oggi si batte contro la detenzione amministrativa dei migranti continua »

Riccardo Bottazzo

Sono un giornalista professionista.
La mia formazione scientifica mi ha portato a occuparmi di ambiente e, da qui, a questioni sociali che alle devastazioni dei territori sono intrinsecamente legate. Ho pubblicato una decina di libri tra i quali “Le isole dei sogni impossibili”, edito da Il Frangente, sulle micronazioni dei mari, e “Disarmati”, edito da Altreconomia, che racconta le vice de dei Paesi che hanno rinunciato alle forze armate. Attualmente collaboro a varie testate cartacee e online come Il Manifesto, Global Project, FrontiereNews e altro.
Per Melting Pot curo la  rubrica Voci dal Sud.