Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Lavori sociali gratuiti in cambio di accoglienza

L’inaccettabile proposta del governo che spinge l’Italia verso lo sdoganamento della schiavitù

Non si può dire che Marco Minniti, nominato da appena due mesi al vertice del Viminale forte dell’esperienza maturata nel corso della sua carriera politica nei ruoli chiave in cui lo Stato esercita la gestione della forza pubblica (Difesa, Interno, servizi segreti), non sia un uomo di parola.

Approfittando del clima sociale che inquina costantemente il dibattito sui temi dell’immigrazione e che invoca l’assunzione di provvedimenti sempre più drastici per far fronte all’arrivo di nuovi profughi, il neoministro, come promesso nel giorno del suo insediamento, ha voluto prendere di petto la questione, cosciente che su questo terreno, in vista delle prossime elezioni, partiti e forze politiche si giocheranno una bella fetta del consenso popolare.

È così che, nel giro di poche settimane, Minniti ha prima siglato a Tripoli uno sciagurato accordo per il contenimento delle partenze dei migranti verso l’Italia con il presidente del consiglio presidenziale libico Al Serraj – particolarmente critico sotto l’aspetto della tutela dei diritti umani e peraltro immediatamente azzoppato dal Parlamento di Tobruk, che ne ha completamente disconosciuto il valore – e successivamente ha presentato alle Commissioni di Camera e Senato i punti qualificanti del suo piano per razionalizzare la presenza dei richiedenti asilo sul territorio nazionale.

E proprio su tale piano, approvato venerdì 10 febbraio dal Consiglio dei Ministri, sembrano concentrarsi le più tetre previsioni circa il futuro delle politiche nazionali di accoglienza. Tra i punti qualificanti proposti da Minniti, infatti, figurano l’impegno a perseguire in maniera più energica la politica dei rimpatri attraverso la sostituzione dei Cie con i nuovi Centri di permanenza per il rimpatrio (uno per regione, per un totale di circa 1.600 posti), e lo svolgimento di lavori socialmente utili non retribuiti da parte dei richiedenti asilo a favore dei Comuni che li ospitano.

L’idea, è bene precisarlo, non è del tutto originale: già nel 2014, lo stesso ministero dell’Interno (che in maniera più che discutibile continua a ingerire sul tema del lavoro) aveva emesso una circolare che muoveva in questa direzione, immediatamente recepita da parecchi enti locali per beneficiare di manodopera gratuita in occasione di lavori di pubblica utilità. Tuttavia, la prospettiva che oggi un simile provvedimento possa diventare legge dello Stato, rappresenta un salto di qualità che rischia di aprire una breccia molto pericolosa verso una vera e propria moderna forma di sfruttamento e schiavitù.

Va detto che, al pari delle circolare del 2014, il nuovo dispositivo salvaguardia il principio dell’adesione volontaria da parte del migrante (fatto che fino alla vigilia dell’ultimo consiglio dei ministri non sembrava così scontato), ma ciò non ne muta la gravità. Infatti, dietro la maschera della buona pratica a sostegno della formazione professionale e dell’inclusione sociale che il governo intende porre sul vero volto del provvedimento, si cela il tentativo di spalancare le porte a un modello che in futuro potrebbe vincolare l’accoglienza all’obbligo da parte del migrante di lavorare gratuitamente per “ripagarsi” l’ospitalità.

Un concetto che pur godendo di un certo consenso sia in Parlamento sia nella società, di fatto costituisce un’oggettiva declassazione del diritto d’asilo e a tutte le altre disposizioni sancite dall’articolo 10 della Costituzione. Per questo non va assolutamente sottovalutata la legittimazione che il piano Minniti potrebbe offrire a questa impostazione, con rilevanti e imprevedibili ricadute sul piano etico, politico e sociale.

Lo stesso principio volontaristico, inoltre, pur consentendo al provvedimento di fermarsi a un passo dal baratro della schiavitù di Stato, produce l’effetto immediato di dividere i richiedenti asilo in buoni (quelli disposti a lavorare gratuitamente) e cattivi (quelli determinati a farsi riconoscere un diritto garantito sia a livello nazionale che internazionale), minando ulteriormente, come se ce fosse ancora bisogno, l’immagine pubblica del migrante.

Ma non solo, qualora in futuro dovessero concretizzarsi le più fosche previsioni e dovesse davvero venir meno gradualmente la tutela volontarietà, si determinerebbe ai danni dei rifugiati un vero e proprio ricatto che costringerebbe ciascuno a scegliere tra lo svolgimento di lavori a titolo gratuito e l’incubo del rimpatrio forzato: un’autentica barbarie giuridica.

Vanno poi considerate le conseguenze che il piano Minniti rischia di avere nell’impatto quotidiano con le comunità ospitanti. Infatti, se il do ut des tra accoglienza e lavori socialmente utili intercetta un significativo consenso tra l’opinione pubblica (e viene da pensare che si tratti in particolare di un’opinione pubblica a largo indirizzo progressista, pronta non solo a lasciarsi convincere dalla correttezza etica del provvedimento, ma anche del suo intrinseco valore inclusivo dal punto di vista sociale), è fin troppo facile immaginare che ci sia un’altra parte di popolazione, non meno numerosa e forse maggioritaria, la stessa che vive con sempre più insofferenza la presenza dei migranti nelle città e i progetti di accoglienza promossi dalle amministrazioni pubbliche, pronta a identificare il provvedimento con il più atavico degli stereotipi razzisti, quello dello straniero che ruba il lavoro agli italiani.

È certamente per questo motivo che il ministro, nella sua presentazione, si è affrettato a fornire rassicurazioni e a garantire che i lavori socialmente utili non creeranno concorrenza con il mercato del lavoro. Ovviamente Minniti non ha specificato come, anche perché sarebbe molto complicato farlo in maniera convincente, visto che oggi le prestazioni etichettabili come socialmente utili – in genere piccoli interventi di pulizia, mantenimento del decoro urbano e altri lavoretti simili – o costituiscono una sorta di ammortizzatore sociale per disoccupati e lavoratori in mobilità, o, se non svolte in house dagli enti locali, vengono appaltate all’esterno generando economia per cooperative e piccole imprese. Purtroppo, non ci vuole molto a capire che è quasi inevitabile che un provvedimento simile finirebbe per favorire un’interpretazione destinata a rinforzare ulteriormente i sentimenti xenofobi già largamente radicati in molte aree del Paese.

È dunque fondamentale non sottovalutare il rischio di questa ennesima involuzione, adottata come sempre dietro il pretesto dell’emergenza. Anche perché, come si usa dire, a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca, e viste l’indole di certi ministri e le leggi varate di conseguenza negli ultimi anni, non stupirebbe che sulla pelle dei migranti si provi a sperimentare nuove politiche per superare in senso più ampio quei diritti che ancora oggi tentano di regolamentare l’accesso al mercato del lavoro.

Simone Massacesi

Vivo ad Ancona e mi sono laureato in Storia contemporanea all’Università di Bologna. Dal 2010 sono giornalista pubblicista.