Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
Photo credit: Andrea Panico

Ventimiglia, proprio qui. Un luogo dimenticato del quale non si parla, o si parla poco. Tuttavia ci sono le stesse frontiere che in Grecia. Gli stessi caposaldi: sbirri nelle stazioni, pattuglie militari che fanno la ronda per fermare chi prova a valicare la montagna – un gioco al nascondino né innocente né divertente. Se sento l’urgenza di riscrivere così presto è perché mi rendo conto che ci manca sempre una parte di realtà.

Sono mesi che si parla delle isole, della Turchia, dei Greci, della Macedonia e della tristemente nota rotta dei Balcani. Sono mesi che si parla dei Siriani, di Bashar Al Assad, dell’ISIS, e più recentemente di Mossul e di quelli che in gergo umanitario chiamiamo SIA (Siriani, Iracheni, Afgani). Quello che ci sfugge, è che il mare è fatto di barconi, poco importa dove si trovano le coste limitrofe all’Europa. Quello che dimentichiamo, è che ci sono anche la Libia, l’Algeria e il Marocco. Poi ci sono quelli che non vediamo perché non presuppongono tensioni tra i nostri bei principi di protezione e le politiche che attuiamo. Ci sono quelli che vengono chiamati, malgrado loro stessi, “i migranti economici”. Le loro pelli sono inevitabilmente più scure, vengono da un po’ più lontano, perlopiù da quella che viene comunemente chiamata Africa Subsahariana.

Ci sono molti giovani “che tentano la fortuna”. Giovani che sono la speranza e l’orgoglio delle famiglie, i prescelti che lasceranno le terre e saranno inviati quasi come dei messia verso i continenti ricchi e opulenti. Ci sono ragazzi che vengono da paesi dove regnano da anni la fame, la miseria, la violenza, la dittatura, la persecuzione per l’orientamento sessuale o per l’etnia o per la religione.

Ecco allora che subito ci impressionano meno dei massacri di Bashar. Subito ci interessa meno se si tratta di paesi dove non c’è lo Stato Islamico e quello che sappiamo dei suoi orrori. Subito ci emoziona meno che questi bambini non rischino di morire per l’esplosione di un barile di cloro o impiccati a una corda per poi essere esposti come monito sulla piazza del villaggio. Diciamo che siamo stati più abituati alle immagini di un’Africa che muore di fame, ai bambini con le pelli appiccicate alle fragili ossa, a quei paesi che ci mettono anni a risollevarsi dopo il periodo coloniale, asfissiati da debiti allucinanti e vergognosi imposti dai nostri paesi occidentali 1.

Ci siamo anche fatti l’idea che in ogni caso i governanti africani sono corrotti, che non c’è più niente da fare e tanto vale dar loro del denaro, sperando che una parte di esso vada alla popolazione. Dimentichiamo, inoltre, i minerali del sangue 2, quelli su cui ogni giorno scivolano le nostre dita per consultare Facebook o inviare spassosi Snapchat effimeri. Sono le nostre imprese che sfruttano milioni di persone nel silenzio siamo noi che compriamo questo silenzio per ragioni di comfort. Non staremo ovviamente a enumerare tutte le aberrazioni, non basterebbe tutta la notte.

Dentro i confini della frontiera italiana, questa sera, ci sono bambini che dormono in una stazione o in una chiesa, bambini che aspettano di tentare la fortuna. Che peso si portano sulle spalle? Sento già quelli che si indignano: ah, ma bastava che la loro famiglia non…! Ah, questi africani pigri, non devono far altro che lavorare, da noi non c’è lavoro per loro, sono qui per prendersi questo e quello, non ci sono ragioni perché si stabiliscano qui, questi disgraziati, che si occupino dei loro paesi invece d’invadere i nostri. Sono sicura che in questo genere di commenti la frase termina poi con un “ah, ma io non sono mica razzista eh, solo che non possiamo accogliere tutta la miseria del mondo, abbiamo già i nostri senzatetto e i ‘veri’ rifugiati, quelli che nostro malgrado bisogna tenere”. Grandi discorsi ai quali rispondiamo con altri grandi discorsi “non creiamo divisioni nella miseria, il problema è il sistema, non i poveri o i migranti, ecc. ecc.” Dialoghi tra sordi. Non c’è niente di meglio di uno sguardo per capire. O le braccia di un ragazzino che si avvinghiano alla vita di qualcuno, e non lo lasciano, nel silenzio di visi sconvolgenti.

Oggi, sotto queste parole, ci sono Ahmed e Djiado Bafoudi (e gli sforzi di memoria per ricordarmi il suo nome). Il primo ha 8 anni, il secondo 18, io ne ho 28. Si contano per decine le nostre differenze di età e per migliaia le nostre divergenze di vita. Uno viene dalla Libia, l’altro dalla Guinea. Hanno entrambi uno sguardo dolce, posato sul mondo con discrezione e pudore. Ahmed era nel cortile della chiesa quando l’ho incrociato. Aspettava non so bene cosa, era piantato là, in piedi, presso la porta di ingresso. Gli rivolgo qualche parola in arabo, mi risponde per bene a tutte le domande, senza sorridere ma con un viso che arrossisce quando lo guardo diritto negli occhi. Siamo rimasti insieme per tutta l’ora successiva.

Ho fatto scherzi, gesti strani, ho detto parole ridicole, niente da fare, pochi sorrisi ma sempre quell’aria complice che intenerisce. Ho saputo da uno degli altri occupanti della parrocchia che hanno provato a valicare la montagna da poco, lui, sua madre, e i suoi quattro fratelli e sorelle. Lui è il più grande. Ho incontrato due dei suoi fratelli e la sorellina: la dolcezza è di famiglia. Occhietti maliziosi e teneri scambi tra loro. Omar tiene la sorellina per la vita, mentre lei tossisce e vomita sorridendo. Mi avvicino e domando loro se “tamam”?; in coro mi rispondono di sì. Mi siedo con loro e, come sempre, lascio che mi scompiglino i capelli, che mi mettano le mani sul viso e loro lasciano le mie dita libere di fargli il solletico sulle costole o di prenderli in braccio per appoggiarmeli sul cuore, coccole furtive di cui abbiamo tutti bisogno. Sono stati fermati in treno dalla polizia la settimana scorsa, mentre cercavano di lasciare l’Italia. I poliziotti ben armati hanno fatto uscire la madre da sola e i bambini, per poi rinviarli nel paese di partenza: Ventimiglia. Tutto questo per una frontiera. Una linea tracciata su una carta ma da nessuna parte sulla terra. Ci riproveranno presto e, Insh’Allah, ce la faranno.

Djiado Bafoudi aspettava in fondo al banco della stazione che la Croce Rossa gli desse una coperta per poter andare a stendersi di fianco ai suoi amici di strada che dormono già. Sono andata a sedermi accanto a lui.
– «Do you speak English?»
– [Silenzio]
– «Tu parles le français?»
– [Silenzio]
– «Parli italiano?»
– [Silenzio]

Alla fine Djiadou mi dice qualche parola, in francese. Mi dice che ha freddo ma che i tizi della stazione gli hanno detto che deve aspettare l’arrivo del prossimo treno perché possa ricevere qualcosa con cui coprirsi. Gli domando da dove viene, se è qui da molto. Mi dice “aspetto gli altri che devono arrivare domani” Mi dice anche che parla il malinké e il soussou. Gli faccio ripetere il suo nome almeno sei volte, senza imbarazzo, ci ridiamo su.

Ha 18 anni ma sembra più giovane. Gli chiedo cosa vuole fare una volta arrivato in Francia, mi risponde che non vuole andare in Francia, che resterà in Italia e che vuole trovare un lavoro, uno qualsiasi, accetterà qualunque cosa. Porta aperta a tutti gli sfruttamenti, come in quel famoso campo vicino a Bari dove sfruttano i migranti in transito per la coltivazione dei pomodori (avete presente quei pomodori che paghiamo 1,50 al chilo? “From Italy”), e li fanno dormire nelle bidonvilles, nelle quali sono obbligati a spendere il 90% della loro paga giornaliera 3.

Tutti questi giovani ragazzi hanno un coraggio immenso. Che i primi che osano ancora dire che sono dei fannulloni provino a fare per un solo giorno quello che fanno loro. Che i primi che osano ancora dire che sono qui per approfittarsi del sistema e rubarci il lavoro e non per salvarsi la vita provino un giorno, un giorno solamente, a sopravvivere come fanno loro, in queste miserie, in quest’assenza di avvenire e di prospettive.

Djiadou non è un gran chiacchierone. Il suo silenzio non è né pesante né leggero. È misterioso. Mi chiedo a cosa pensi. Mi chiedo cosa dica a se stesso, in questo momento, ma anche nelle lunghe giornate di attesa. Ho riguardato quei video di ragazzi che tentano a più riprese di passare le frontiere. La cosa assurda è che nel vederli e nel parlare con loro, si ha l’impressione che nulla sia impossibile qui. Hanno nella voce e nello sguardo una determinazione che destabilizza. La morte non gli fa paura, credo che non la prendano nemmeno in considerazione. Penso che conoscano i pericoli ma abbiano in sé qualcosa di immortale, di superiore, di invincibile. Portano un movimento, un soffio, una speranza. Hanno le braccia alzate là dove tutti noi le abbiamo abbassate. Conoscono l’Europa, le sue politiche, le sue procedure d’asilo, il suo razzismo, le sue porte chiuse, le sue stigmatizzazioni, i suoi lavori da fame. Sanno tutto. L’Odissea che potevano forse avere in testa quando erano sull’altro continente è caduta nel dimenticatoio. Da quando ci sono muri, griglie e fili spinati su ogni strada e su ogni lingua, sanno. Sanno eppure vanno, a testa alta, col petto gonfio, fieri, belli e grandi.

Sono ottimista di natura. Eppure quello che dipingo a parole è spesso duro, violento. Allora voglio terminare con una nota positiva. Sulle ragioni per le quali si tiene duro, per le quali si continua pur sapendo che è fatica sprecata, che non si otterrà nulla, né dal governo di oggi, né da quello di domani. Il fatto è che stiamo parlando di incontri. E di evidenze. Si tratta di andare oltre le immagini disumane delle condizioni di vita nelle quali sprofondano queste migliaia di persone, e vedere l’individuo, osservarlo, sorridere alle sue timidezze, essere timidi a nostra volta, ridere insieme, parlare d’altro, distogliere l’attenzione dal tempo che non passa, o che passa senza passare, appeso al filo del passaggio da un paese all’altro.

Vorrei che tutti i futuri elettori di Marine Lepen o di Théo Frackner venissero qui, si rendessero conto, ma soprattutto vorrei che tutti quei fanatici di sicurezza e nazionalismo incontrassero Ahmed e Djiadou. Che parlassero con loro. Che vedessero i loro sguardi.
Sono pieni di vissuto, di grandezza, di maturità e di coraggio, poco importa la loro età.


  1. http://www.cadtm.org/La-dette-du-Tiers-Monde
  2. https://www.vice.com/fr/article/les-mineraux-du-sang-v10n03
  3. http://www.france24.com/fr/20153108-video-italie-migrants-exploitation-agriculture-pauvrete