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I tunisini vogliono giustizia per i “barconi della morte”

Sara Manisera, Al Jazeera - 2 aprile 2017

Photo Credit: Arianna Pagani/Al Jazeera

TUNISI – In un modesto, ma luminoso appartamento su due piani nella città tunisina di Bizerte, un gruppo di donne attende, sedute su un divano.

Nelle loro mani stringono foto dei loro mariti e bambini, che sei anni fa hanno lasciato le loro case alla ricerca di una vita migliore in Europa. Queste madri e mogli non hanno intenzione di smettere di cercarli e sperano di ottenere un po’ di giustizia per i loro amati, scomparsi al largo delle coste tunisine, nel Mediterraneo.

Vogliamo la verità” dice Souad Rouahi, il cui figlio, Ben Ibrahim, risulta scomparso da aprile 2011. “Se i nostri figli sono morti, lo accetteremo: è la volontà di Dio. Ma vogliamo che Tunisia e Italia ci garantiscano un’indagine e un’esumazione dei corpi senza nome sepolti nei cimiteri italiani”, racconta Rouahi ad Al Jazeera.

Mentre parla, le sue amiche Faouzia e Jamila le lanciano sguardi di incoraggiamento. Nello stesso giorno sono spariti anche alcuni membri della loro famiglia.

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Meno di 200 km separano Sfax, una città portuale sulla costa est della Tunisia dall’isola italiana di Lampedusa, ma il percorso è disseminato di pericoli.

Durante i giorni della rivoluzione tunisina del 2011, dalle coste partivano ogni giorno molti barconi, colmi di giovani in fuga dalla povertà. Secondo la ONG italiana “Migration Policy Centre”, in quel periodo di caos e transizione, mentre la polizia reprimeva brutalmente ogni protesta, quasi 30,000 tunisini hanno attraversato il Mediterraneo per entrare in Italia.

Nella primavera del 2011 è stato compiuto il maggior numero di traversate, mentre la polizia tunisina era impegnata su un altro fronte e il controllo costiero era relativamente debole.

Ciononostante, centinaia di uomini tunisini sono scomparsi nel tentativo di attraversare il mare. Non sono disponibili dati ufficiali, ma un gruppo di madri tunisine ha creato un dossier con più di 500 nomi. Alcune di loro credono che i loro figli siano annegati dopo che il barcone su cui viaggiavano si è capovolto.

Da sei anni, queste donne hanno fatto pressione per l’istituzione di una commissione d’inchiesta che si occupi di queste sparizioni, fornendo le proprie testimonianze.

Una piccola commissione gestita dal governo tunisino sta facendo pressione affinché le autorità italiane compiano ulteriori indagini; tuttavia, il gruppo di donne ha dichiarato che queste indagini procedono in modo lento e inefficiente.

Chiedono un’indagine più approfondita, che metta in contatto i funzionari e i familiari delle vittime al fine di far luce sui fatti riguardanti le centinaia di sparizioni.

Per il momento, il governo tunisino non ha risposto alla richiesta di commenti avanzata da Al Jazeera.

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Anche se la maggior parte delle mogli e delle madri di questo gruppo non ha ricevuto alcuna notizia negli ultimi sei anni, alcune di loro sono convinte che i loro cari abbiano raggiunto l’Italia, e sostengono di averli visti in televisione o sui giornali. Molte di loro hanno ricevuto versioni contrastanti dalla guardia costiera italiana.

In un caso, nel novembre del 2012, il marito di Lobna Jlassi, donna di 33 anni e madre di cinque figli, è partito con tre amici da Ezzahra, vicino alla capitale Tunisi, in un barcone rubato alla marina tunisina. Jlassi racconta di aver ricevuto una telefonata dal marito Nabil quando il gruppo si trovava a circa 40 km da Pantelleria, un’isola italiana nel canale di Sicilia. Stava chiedendo aiuto mentre la barca affondava.

Jlassi ha contattato la guardia costiera tunisina mentre sua cognata, che vive in Francia, contattava la guardia costiera italiana per chiedergli di andare a controllare se stessero tutti bene.

La guardia costiera italiana ha detto che stavano bene, e che Nabil era su un barcone con un altro tunisino… Eravamo molto felici”, ha raccontato ad Al Jazeera.
Inizialmente la guardia costiera tunisina non ha risposto, ma qualche giorno dopo ha contattato Jlassi per chiederle informazioni su suo marito: quando ha lasciato la Tunisia, da dove è partito e in quale barcone.

Ho iniziato a preoccuparmi, così insieme a mio fratello ho chiamato di nuovo la guardia costiera italiana: mi è stato detto che Nabil non si trovava lì e non era sotto la custodia della guardia costiera. Gli ho detto quello che mi era stato riferito da mia cognata, ma mi hanno risposto che non era vero”, ha raccontato.

Il fratello di Jlassi è riuscito a parlare con alcuni pescatori italiani che hanno riferito di aver visto quattro tunisini in difficoltà al largo delle coste di Pantelleria quella notte, e di aver chiamato la guardia costiera. Ma qui è dove la traccia si interrompe.

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Per gli ultimi sei anni, le donne tunisine colpite da queste sparizioni hanno raccolto più dati e informazioni possibili sugli uomini scomparsi, organizzando anche una serie di proteste per contrastare le risposte fornite dalle autorità tunisine e italiane.

Lo Stato Tunisino dovrebbe fare tutto il possibile per far sapere ad una famiglia se i propri figli sono vivi o morti”, dichiara Aissa Halima, una madre, durante il sit-in di febbraio davanti all’ambasciata italiana a Tunisi. “Anche l’Europa e i suoi governi devono assumersi le loro responsabilità, perché la chiusura dei confini europei ha costretto i nostri figli ad affidarsi ai barconi della morte”.

Perché a nessuno importa di loro?” Chiede Halima. “Perché i governi italiani e tunisini non ne parlano?

Quest’anno, il comitato tunisino incaricato di indagare sulla sparizione dei propri connazionali nel Mediterraneo si è incontrato a Roma con Vittorio Piscitelli, Commissario straordinario italiano per le persone disperse. Insieme, hanno promosso una nuova iniziativa che prevede il confronto delle informazioni raccolte dalla guardia costiera italiana e tunisina con quelle raccolte dal governo italiano.

Ma le madri e i loro rappresentanti, che sono rimasti esclusi da questa iniziativa, la definiscono ancora insufficiente.

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È assurdo che le famiglie e i loro avvocati siano stati esclusi da questo incontro e dalla Commissione tecnica”, ha raccontato ad Al-Jazeera Federica Sossi, professoressa dell’Università di Bergamo ed esperta in richiedenti asilo. “Se queste madri che hanno perso 500 ragazzi in Tunisia fossero francesi o italiane potrebbero andare lì, di persona, a cercarli, ma per queste madri è impossibile a causa delle politiche sull’immigrazione”.

Verso la fine del 2015, le madri dei tunisini scomparsi, in collaborazione con l’associazione antimafia italiana Libera, hanno lanciato un’iniziativa congiunta chiamata “Mediterranean Memory”, con l’obiettivo di accrescere la consapevolezza riguardo alle vittime delle traversate e all’importanza di dare loro un nome.

Non potevamo ignorare le voci delle vittime… Non sono solo dei numeri. Ognuno di loro ha una storia ed un nome”, ha raccontato ad Al-Jazeera Monica Usai, project manager di Libera.

Nel frattempo, ad el-Aziz, un villaggio rurale situato a parecchi chilometri da Bizerte, due donne siedono circondate da mandorli e oliveti in fiore, stringendo le foto dei loro figli scomparsi. Il figlio di Fthia Jljli, Housemdine, è scomparso nel maggio del 2011 e il marito di lei si è recato in Italia in cerca del giovane, senza successo.

Mio figlio stava bene economicamente, aveva un lavoro e un’auto, ma voleva vedere l’Europa. Era il suo sogno. Perché è così difficile per un tunisino raggiungere l’Europa?” Chiede Jljli, con voce calma. “Continueremo a lottare, non solo per noi ma anche per le altre madri, perché qualsiasi madre può essere vittima di questa sofferenza”.