Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

del mare e della terra. ovvero, come si muore

di Vanna D'Ambrosio, operatrice sociale

Se la noia e la monotonia pervadono le giornate di coloro che inseguono la sicurezza, l’insonnia e gli incubi infestano le notti di chi persegue la libertà. In entrambi i casi, la felicità va perduta.

Quando la soluzione al fenomeno dell’immigrazione è di ordine pubblico, gli interventi diventano di tipo militare, favorendo atteggiamenti negativi o repressivi verso chi è poco o per niente integrato nella società ospitante.

La prima minaccia del migrante è, dunque, l’ingresso in un territorio altro, già socialmente costruito, difeso da un corpo poliziesco e percepito come d’appartenenza. I fronti di trattamento e controllo dell’immigrazione, a maggiore visibilità pubblica, sono quello esterno (il pattugliamento delle frontiere, satelliti, aerei di sorveglianza), quello interno (le operazioni di polizia, sgomberi, perquisizioni nelle aree urbane), a cui si aggiunge, dal 2001, quello internazionale (le indagini sul terrorismo internazionale).

L’approccio alla legislazione sull’immigrazione, in Italia – e non appena essa diventa un paese pluralistico in termini di composizione culturale e sociale -, si fa contraddittorio e carente di riflessione critica riguardo ai cambiamenti societari mentre fissa e naturalizza la differenza tra nativi e stranieri.

Con gli sviluppi della Lega Nord e di un linguaggio razzista ed intollerante, le sue tematiche si coniugano drasticamente alle “disposizioni in materia di sicurezza pubblica”, che, ispirate esclusivamente alle logiche dell’emergenza, della sicurezza e poi del decoro, annullano, o nella migliore delle ipotesi, riducono l’attenzione verso i diritti fondamentali.

Queste stesse disposizioni legittimano comportamenti di rifiuto violento ed atti
negli ultimi mesi in numero crescente e progressivo – di xenofobia che nel complesso appaiono ispirati al consolidarsi di un razzismo tranquillo e popolare. La Bossi-Fini, ad esempio, dedicava solo 38 articoli alla programmazione di attività di integrazione per il migrante.

La relazione verso l’altro è una strategia di guerra: per mare, radar, satelliti, aerei di sorveglianza, elicotteri, velivoli senza piloti, droni, muri, marina militare, carri armati, polizia e cariche, idranti e pallottole di gomma, fucilieri ed incursori, droni e guardie garantiscono la sicurezza lungo le frontiere fluide; per terra ronde cittadine, sistemi di videosorveglianza, pattugliamenti, guardia di finanza, carabinieri, identificazioni, blitz e, perfino gruppi neo nazisti, assicurano il decoro urbano della penisola.

La legge Minniti/Orlando ha legittimato 300 uomini della polizia di stato, i cinofili, i cavalli e un elicottero per un controllo anti degrado alla stazione di Milano; a Sassuolo per “tre uomini che bivaccavano sulla pensilina d’attesa dei treni della stazione” è stato imposto il Daspo e, a Roma, l’ambulante Maguette Niang muore misteriosamente durante un blitz della polizia municipale.

A mare e a terra, è il potere dello stato che riconferma se stesso attraverso un corpo militare e paramilitare che ridefinisce confini materiali, fisici ma anche simbolici.

Il discorso sul degrado e sul decoro associa immigrazione, marginalità e criminalità in un unico universo di rimandi incrociati, dove non si tratta più di spiegare, ma di indicare. La soluzione, per uno stato punitivo, non è recuperare ma rimuovere e, ove possibile, cancellare, demonizzando e naturalizzando gli agenti del degrado, contemporaneamente alla deresponsabilizzazione delle istituzioni.

Il “problema” non è più dotato di una causalità contingente o allargata, dovuto a circostanze puntuali e specifiche, ma assume una naturalità che il senso comune rimanda, attraverso una constatazione e non una spiegazione, al capro espiatorio, verso cui si sviluppa un set di ansietà sulla nazionalità e sulla stabilità geopolitica.

Di quanto avvenuto, la sola prospettiva che ha legato l’osservatore al migrante, è, paradossalmente, anche confinata in apposite aree; il campo, la stazione o la morte.

La lunga durata della rappresentazione allarmistica e la conseguente gestione securitaria e poliziesca dell’immigrazione, ben al di là di ogni dato realistico, hanno congelato la vicenda del migrante, in un tempo senza cambiamenti, immobile.

Il suo prodotto, il discorso pubblico, ha autoconfermato i falsi e i facili unanimismi, in assenza di sguardi critici sulla realtà, facendosi sostanza del populismo ed oggi terreno di caccia privilegiato del consenso politico.

Nel clima di incertezza e paura, nel silenzio istituzionale e civile, “il trattamento dei profughi da parte delle società che aspirano a un certo standard di democrazia oscilla tra repressione e compassione”.

Questo sguardo è sicuro quando vede annegare un uomo nel Canale Grande di Venezia e impiccare un altro a Milano; è compassionevole quando vede bruciare tre ragazzine in un camper a Roma.

Se l’integrazione è intesa come quell’esperienza che ingloba tutte le dimensioni dell’esistenza umana – e non solo l’aspetto giuridico – e si riferisce, nello specifico, alle relazione tra i protagonisti di una struttura sociale (laddove più una società è integrata e più intensamente i gruppi o gli individui si relazionano gli uni agli altri) al fine di evitare la concentrazione dei problemi sociali, il sorgere di conflitti e la segregazione, gli ultimi avvenimenti sono testimoni di una rotta evidentemente opposta dove disintegrata è la pratica del mutuo appoggio, “che risale ai più lontani principi dell’evoluzione […] sorgente positiva e sicura delle nostre concezioni etiche […] grande fattore nel progresso morale dell’uomo”.

Di rimando, invece, politiche sociali e di integrazione somministrano un “rischio privatizzato”, quando la riproduzione delle condizioni della vita sociale è sottratta al dominio delle politiche statali e pubbliche ed affidata alla capacità individuali di ricercare risposte private a quei problemi che sono socialmente prodotti e che meriterebbero, una soluzione collettiva.

in questo mondo nuovo si chiede agli uomini di cercare soluzioni private a problemi di origine sociale, anziché soluzioni di origine sociale a problemi privati”. Gli scontri etnici, vedi Appadurai, possono meglio essere interpretati come implosioni dentro il corpo della persona di complesse strategie di potere e di immaginazione delle identità: una volta appreso con il corpo ad odiare il nemico, una volta cioè che siano diventate forme incarnate le complesse rivalità economiche, politiche, religiose e storiche che ruotano attorno allo stato moderno e alla sua crisi, sarà il corpo stesso a trasformare quell’odio in machete, fucile, esplosivo o pistole, ai nostri giorni.

Vanna D'Ambrosio

Conseguita la laurea in Filosofia presso l’Università di Napoli Federico II, ho continuato gli studi in interculturalità e giornalismo. Ho lavorato come operatrice sociale nei centri di accoglienza per immigrati, come descritto nella rubrica “Il punto di vista dell’operatore”. Da attivista e freelance, ho fotografato le resistenze nei ghetti italiani ed europei. Le mie ricerche si concentrano tuttora sulle teorie del confine.