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Riscoprire la semplicità della normalità

di Daniele Colombi, operatore sociale

Tratta da http://viedifuga.org/

Qualsiasi sciocco può fare qualcosa di complesso; ci vuole un genio per fare qualcosa di semplice”. Pete Seeger

L’operatore dell’accoglienza è chiamato, nel suo lavoro quotidiano, a essere come una fune elastica che assolva il compito di tenere uniti i migranti (siano essi richiedenti o già beneficiari) con l’intorno sociale ospitante.
Non potrà quindi essere né un semplice collante, di natura statica e facilmente a rischio di rottura, né un morbido cuscinetto, troppo dinamico e soggetto a scossoni. L’operatore troverà la forza (e il senso) dei propri interventi solo riuscendo a trascinare i beneficiari nella “terra di mezzo” dello smarrimento identitario (già visto in precedenza) del “non essere più ma non essere ancora”; solo compiendo questo gesto molto forte e molto doloroso imparerà esso stesso e di conseguenza insegnerà a sostare (o meglio, so-stare) in una condizione dominata dall’apertura alla domanda.
Per questa condizione è necessario spogliarsi dei propri schemi mentali ma soprattutto riconoscere quelli altrui per metterli in discussione; la parte più difficile del lavoro è non subire le proiezioni del richiedente col quale si opera e della società di appartenenza che carica di aspettative, riuscire a liberarsi dell’acquiescenza per ricostruire una nuova identità ibrida.

Ogni operatore prova questa operazione, faticosa e dolorosa, mettendosi in discussione e utilizzando gli strumenti a propria disposizione, il più forte di tutti quello della dialettica, rischiando però di infrangersi contro un muro di frustrazione quando si incontra una controparte non sempre disponibile a questo percorso, a un dialogo costruttivo.
Chi me lo fa fare”, “se non interessa a te, non interessa me”, “lo dico per il tuo bene, se non lo capisci peggio per te”: queste e altre sono certamente tra le frasi più ricorrenti nei momenti di scoramento, quando l’operatore ha messo in gioco tanta energia, fisica e mentale, ma si trova di fronte un richiedente che, secondo le nostre proiezioni, non “collabora” o, peggio ancora, dopo tanti sforzi “ci delude”.
È proprio quello il momento di domandarsi il senso del nostro operato, ma inteso come direzione.
Quale strada stiamo percorrendo, quanto delle nostre aspettative stiamo proiettando, quanta responsabilità di questa “delusione” possiamo imputare al richiedente e quanta a noi?
Se riusciamo a riconoscere parti di nostri vissuti che agiscono al nostro posto nell’azione educativa, se riusciamo e vedere che alcuni pensieri sono stati dominati dal desiderio di un nostro benessere piuttosto che quello del richiedente, allora possiamo provare a modificare il nostro approccio, possiamo provare una visione alternativa.

L’operatore ha a che fare con delle persone che stanno scoprendo di giorno in giorno di essere stati ingannati, la frustrazione della bugia di un’Europa ricca, dove è facile vivere e dove tutti possono “fare i soldi”. In un momento di difficoltà personale, che cresce quotidianamente, la dimensione del gruppo di afferenza non fa altro che auto-alimentare l’identità di appartenenza, ormai ultimo appiglio per non sprofondare completamente nella delusione del fallimento.

Di fronte a una marcata assenza di fiducia nei confronti di chi rappresenta il sistema (tra cui anche l’operatore) e gradi di accesso a un’analisi interiore diversi a quelli a cui facciamo riferimento, una possibile strada è quella della normalizzazione, intesa come destrutturazione dell’impianto di welfare costruito, un approccio che rimetta al centro la vita quotidiana, la gestione dei rapporti, la trasmissione dei saperi a pari livello, peer-to-peer, la ri-scoperta della semplicità al di fuori degli schemi normativi sui quali è costruito l’impianto dell’accoglienza.

Quando ogni tentativo di dialogo ha portato a un fallimento (che non è un fallimento ma è una risposta indecifrata), quando non sappiamo che parole usare, se avere un atteggiamento morbido o duro, se essere direttivi o comprensivi, allora forse vale anche la pena di uscire da ogni schema e iniziare a parlare nel modo più naturale che ci possa venire in mente.

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