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Permesso di soggiorno per motivi umanitari: il caso di un cittadino ucraino

Tribunale di Milano, ordinanza del 24 luglio 2017

© AP Photo/ Inna Varenytsia

La vicenda riguarda un uomo di origine ucraina, dipendente dei servizi segreti russi durante la seconda metà degli anni ’80, gli anni della disgregazione dell’Urss. Fuggito perché perseguitato per essere filorusso e per il lavoro svolto, in Italia è titolare di permesso di soggiorno per motivi di lavoro fino al 2011, quando non gli viene più rinnovato per essere disoccupato. Sconta successivamente un periodo di detenzione dal quale viene rilasciato per buona condotta.
Sia all’atto della domanda di protezione internazionale sia al momento dell’audizione egli specifica di essere russofono, tuttavia il provvedimento di diniego non viene tradotto in lingua comprensibile al richiedente con la conseguenza che egli non si rende conto del contenuto del provvedimento e il ricorso viene depositato oltre i termini stabiliti.

Il provvedimento pronunciato dal Tribunale di Milano merita rilievo per diversi principi espressi che vanno dal tema della comprensibilità dei provvedimenti alla valutazione della condizione di vulnerabilità della persona, alla luce di un’analisi assai dettagliata e approfondita delle condizioni del Paese di origine, superando l’”ostacolo” rappresentato dai precedenti penali.
In primo luogo, il Giudice, accogliendo la richiesta di rimessione in termini della difesa, qualifica le norme che prescrivono la traduzione degli atti come norme inderogabili affermando che: “le norme che prevedono la necessità di traduzione dei provvedimenti emessi nei confronti del richiedente nella lingua indicata dallo stesso o, in mancanza in una delle lingue veicolari (inglese, francese, spagnolo o arabo) secondo l’indicazione di preferenza fornita dal medesimo sono norme imperative di garanzia poste a tutela del diritto di difesa dei destinatari dell’atto”.
Successivamente, soffermandosi analiticamente sulla situazione sociale, politica, giuridica e sanitaria dell’Ucraina, il Giudice statuisce nel senso di non riconoscere al richiedente lo status di rifugiato ovvero il beneficio della protezione sussidiario in quanto – nonostante gli attuali scontri tra le forze armate ucraine e i separatisti filorussi – sono ormai trascorsi diversi anni da quando il richiedente lavorava al servizio della Russia potendo escludersi che si tratti di una potenziale vittima di persecuzione.
Inoltre, “sebbene sia innegabile che in Ucraina i diritti fondamentali della persona non siano garantiti e protetti in misura sufficientemente adeguata, nella situazione appena descritta non è ravvisabile una situazione di conflitto armato interno ai sensi dell’art. 14 lett. C) d.lgv. 251/2007. Ritiene questo Giudicante che sussistano, ai sensi dell’art. 32. C. 3 d.lgs. 25/2008, gli estremi per il riconoscimento della protezione umanitaria, con riguardo allo stato di provenienza del ricorrente (Ucraina) dove sussiste un conflitto separatista che ormai sta logorando da anni il Paese (…) vige, pertanto, in tale Paese una situazione di incertezza politica economica e sociale. Il ricorrente, seppur condannato in Italia per i reati il cui cumulo di pena lo ha portato in prigione per un anno ed un mese, vive in questo Paese da 17 anni e dopo il suo periodo buio – per il quale, si fa presente, egli ha già scontato la sua pena – ha iniziato un percorso di reinserimento sociale e lavorativo (…) potendo contare anche sull’ausilio della sua compagna. A sostegno di tale decisione milita anche la circostanza della particolare condizione di fragilità del ricorrente in caso di rientro in Ucraina, fragilità rilevata anche con riferimento alla sua età”.

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Tribunale di Milano, ordinanza del 24 luglio 2017