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La permanenza stabile in Libia prima della fuga dal Paese giustifica la protezione umanitaria

Tribunale di Venezia, ordinanza del 23 agosto 2017

Il Giudice chiamato a decidere sulla domanda di protezione internazionale di un cittadino del Ghana gli ha riconosciuto un permesso di soggiorno per motivi umanitari avendo lo straniero trascorso due anni in Libia prima di fuggire dall’Africa per l’Italia.

Ad avviso del Giudice il ricorrente non è semplicemente transitato dalla Libia all’Italia ma si era stabilito nel primo dei due paesi ove aveva trovato impiego e lavorato per due anni; il ricorrente ha invero dichiarato durante l’interrogatorio libero di essere stato costretto a scappare dalla Libia a causa dello scoppio della guerra civile e delle gravi violenze subite.

Il Giudice ha ricordato “l’invito rivolto dall’UNHCR a tutti i paesi di permettere ai civili (cittadini libici, residenti abituali in Libia, cittadini di paesi terzi) di poter fuggire dalla Libia e di avere accesso ai loro territori e di esaminare tutte le richieste di protezione internazionale presentate da cittadini libici e da persone che lì hanno dimora abituale secondo procedure eque ed effettive in conformità con le leggi internazionali e regionali in materia di rifugiati”.

Il Giudice veneziano ha inoltre ribadito un altro importante principio oramai diffuso e prevalente in giurisprudenza secondo il quale l’aver il ricorrente dato prova della sua avvenuta integrazione lavorativa in Italia, avendo reperito una regolare occupazione lavorativa, costituisce “elemento indicativo della sussistenza di impedimenti all’allontanamento derivanti dall’esigenza di non arrecare un danno sproporzionato alla sua vita privata, garantito dall’art. 8 CEDU, obbligo internazionale indirettamente richiamato dall’art. 5 comma 6 del D.Lgs 286/1998 e dall’art. 32 32 del D.Lgs 25/2008” (ipotesi in parte menzionata anche dalla circolare del 31 luglio 2015 della Commissione Nazionale per il diritto di asilo) e dunque elemento utile al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Aggiunge poi il Giudice che il citato art. 8 CEDU “assicura una tutela distinta sia alla vita familiare che alla vita privata, la cui nozione, elaborata dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, è ampia, non soggetta ad una definizione esaustiva, che comprende l’integrità fisica e morale della persona e può, dunque, includere numerosi aspetti dell’identità di un individuo, tra cui quello relativo ad una vita lavorativa legalmente avviata”.

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Tribunale di Venezia, ordinanza del 23 agosto 2017