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Come non risolvere la crisi dei rifugiati

di Ben Taub, The New Yorker - 24 luglio 2017

“Questi governi europei… Tutta quella tecnologia, e poi nessuno sa niente”, così racconta un trafficante eritreo

Il 3 ottobre 2013 un procuratore siciliano di nome Calogero Ferrara, seduto nel suo ufficio nel palazzo di giustizia di Palermo, legge un’inquietante storia sui giornali.

Prima dell’alba, un peschereccio con a bordo più di cinquecento migranti dell’Africa orientale partito dalla Libia era andato in avaria a 400 metri da Lampedusa, una piccola isola a metà strada dalla Sicilia. L’uomo alla guida aveva immerso un panno nel carburante che fuoriusciva e gli aveva dato fuoco con l’intento attirare i soccorsi, ma il fuoco si era diffuso velocemente e, quando i passeggeri avevano cercato di scappare, l’imbarcazione si era ribaltata, intrappolando e uccidendo centinaia di persone.

La crisi migratoria del Mediterraneo centrale entrava allora in una nuova fase. Ogni settimana i trafficanti stipavano centinaia di migranti africani su piccole barche in rotta verso l’Europa con nessun riguardo verso le loro probabilità di farcela. Annegamenti di massa cominciavano a diventare frequenti. Ma il naufragio di Lampedusa ha colpito per la dimensione e la vicinanza del disastro: dalla scogliera, per una intera settimana gli italiani hanno osservato la guardia costiera che recuperava i corpi.

Quando i giornalisti sono arrivati sull’isola, le bare erano state disposte in un hangar aeroportuale e ricoperte con rose e peluche. “Sono rimasto scioccato perché, forse, per la prima volta avevano deciso di mostrare le foto delle bare,” mi ha detto Ferrara. L’Italia ha dichiarato un giorno di lutto nazionale e ha iniziato a realizzare operazioni di ricerca e soccorso nelle acque vicino alla Libia.

Poco tempo dopo, sull’isola, un gruppo di sopravvissuti ha attaccato un uomo che avevano riconosciuto come il pilota dell’imbarcazione e lo hanno accusato di avere legami con i trafficanti in Libia. L’incidente ha cambiato il modo in cui Ferrara vedeva la crisi migratoria. “Sono andato dal procuratore capo e gli ho detto, ‘Senti, abbiamo 368 morti su un territorio di nostra giurisdizione,’” racconta Ferrara. “Spendiamo non so quanta energia e risorse su un singolo attentato di mafia, dove vengono uccise una o due persone”. Se le reti dei trafficanti fossero organizzate come i clan mafiosi, realizza Ferrara, arrestare i capi principali significherebbe meno navi e meno morti in mare. Il problema non era solo umanitario. A ogni sbarco, si induriva l’opinione pubblica contro i migranti e cresceva il desiderio politico di rintracciare le responsabilità per i continui arrivi. Nell’ufficio di Ferrara, i trafficanti in Europa e Africa venivano considerati come una rete criminale transnazionale e ogni nave inviata attraverso il Mediterraneo come un crimine contro l’Italia.

Ferrara è sicuro e ambizioso, un uomo sui quarant’anni con capelli castani e ricci, la barba corta, e una voce profonda e roca. Sulle pareti del suo ufficio sono appesi i tributi al suo servizio e al suo successo. Quando lo incontro a maggio, sta seduto con i piedi sulla scrivania, indossa occhiali turchesi e fuma un sigaro Toscano. Le mensole curve sotto il peso di decine di raccoglitori, ognuno con migliaia di pagine di documenti, le trascrizioni delle intercettazioni e le dichiarazioni dei testimoni di casi criminali di alto profilo. All’ingresso, poliziotti in borghese con le pistole infilate sotto le magliette attendono i magistrati per scortarli ovunque vadano.

Ai procuratori siciliani vengono concessi poteri eccezionali che derivano dalla loro reputazione di unica frontiera tra la società civile e Cosa Nostra. A partire dalla fine degli anni settanta, la mafia siciliana intraprese una guerra feroce contro lo stato italiano. I loro affiliati uccisero giornalisti, procuratori, giudici, poliziotti e politici, terrorizzando alcuni dei loro colleghi fino alla sottomissione. Come scrisse Alexander Stille nel suo Excellent cadavers del 1995, l’unico modo per dimostrare di non essere colluso con la mafia era essere ucciso per mano sua.

Nel 1980 Gaetano Costa, procuratore capo di Palermo, venne freddato in strada da Cosa Nostra, dopo la fuga della notizia che aveva firmato 55 mandati di arresto. Tre anni dopo, il suo collega Rocco Chinnici venne ucciso da un’autobomba. Per tutta risposta, un piccolo gruppo di magistrati mise in piedi un pool antimafia e ogni membro accettò di sottoscrivere ciascun atto accusatorio con il proprio nome, così che nessuno in particolare potesse essere preso di mira. Nel 1986 la squadra antimafia era pronta a presentare capi d’accusa contro 475 mafiosi, in quello che diventò noto come il maxiprocesso, il più grande processo per mafia del mondo.

I procedimenti si tennero in un enorme bunker di Palermo costruito appositamente per l’occasione, con pareti resistenti ad attacchi di tipo missilistico. Guidati da Giovanni Falcone, i pubblici ministeri assicurarono alla giustizia 344 imputati. Qualche anno dopo il processo, Falcone iniziò a lavorare a Roma. Ma il 23 maggio 1992, durante il tragitto di ritorno verso Palermo, Cosa Nostra fece deflagrare una tonnellata di esplosivo sotto l’autostrada vicino l’aeroporto, uccidendo Falcone, sua moglie e la loro scorta. Gli esplosivi, rimasti dagli armamenti della seconda guerra mondiale, erano stati raccolti da sommozzatori sul fondo del Mediterraneo. L’esplosione fu così forte che venne registrata dai monitor dei terremoti. Cinquantasette giorni dopo, i mafiosi uccisero uno dei restanti membri del pool antimafia, amico e partner investigativo di Falcone, Paolo Borsellino.

A seguito di questi omicidi, l’esercito italiano spedì in Sicilia 7000 truppe. I pubblici ministeri furono autorizzati a intercettare chiunque fosse sospettato di avere connessioni con il crimine organizzato. Avevano anche l’autorità di condurre direttamente indagini, piuttosto che discutere solamente le conclusioni in aula, e di offrire ai testimoni di mafia incentivi per cooperare. Quell’anno i magistrati di Milano scoprirono un sistema di corruzione su scala nazionale che portò alla dissoluzione di consigli comunali, alla distruzione del maggiore partito italiano e al suicidio di numerosi uomini d’affari e politici che erano stati accusati di prendere tangenti. Più della metà dei membri del parlamento italiano fu indagata. “La gente guardava ai procuratori come l’unica speranza per il paese,” mi racconta un giornalista siciliano.

Poco dopo la tragedia di Lampedusa, Ferrara, con l’aiuto del ministro dell’interno, organizza un team di procuratori e investigatori di alto livello. Quando si indaga sul crimine organizzato, “per il quale siamo famosi a Palermo, si possono richiedere intercettazioni telefoniche e ambientali con un onere della prova molto inferiore rispetto alle indagini normali,” racconta Ferrara. “Questo significa che quando richiedi al giudice istruttore un’intercettazione per un caso di crimine organizzato, nel 99% dei casi la ottieni.” Poiché le navi di soccorso consegnano regolarmente i migranti nei porti siciliani, si è assistito all’arrivo di più di un migliaio di potenziali testimoni. Ferrara e il suo team cominciano a raccogliere informazioni durante gli sbarchi e nei centri di primo soccorso e presto riescono ad ottenere i numeri di chi si occupava del trasporto, dell’organizzazione, della contraffazione e del traffico di denaro.

L’indagine viene chiamata Operazione Glauco, da Glaucus, una divinità greca con poteri profetici che salvava i marinai in pericolo. Secondo Ferrara, la prossimità della Sicilia al Nordafrica ha permesso agli inquirenti di intercettare chiamate in cui entrambi gli interlocutori erano in Africa. Spesso sono le compagnie di telecomunicazione italiane a fungere da centrali di dati per il traffico internet e le telefonate. “Abbiamo chiamate a Khartoum che passano da Palermo,” riferisce Ferrara. Monitorando i traffici telefonici, gli inquirenti ricostruiscono man mano una rete eritrea di contrabbandieri che aveva trasportato illegalmente in Europa decine di migliaia di persone provenienti dall’Africa orientale su navi partite dalla Libia.

Nel 2015 l’operazione Glauco porta a decine di arresti in Italia, Germania, Svezia e Regno Unito. La maggior parte dei sospetti sono figure di basso profilo che potrebbero non essere al corrente del crimine che stavano commettendo, per esempio nell’accettare denaro per guidare i migranti da un campo in Sicilia a una delle cosiddette connection house, cioè una sistemazione temporanea gestita da trafficanti, a Milano.

Ma i capi in Africa sembrano intoccabili. “In Libia sappiamo chi sono e dove sono,” dice Ferrara. “Ma il problema è che non possiamo avere alcun tipo di cooperazione” dalle autorità locali. La ricerca porta all’individuazione di un eritreo con base a Tripoli che sarebbe al centro della rete. Nato nel 1981, il suo nome è Medhanie Yehdego Mered.

Il 23 maggio 2014, il team investigativo di Ferrara comincia a intercettare il numero libico di Mered. La rete di Mered a Tripoli aveva connessioni con reclutatori e addetti alla logistica praticamente in ogni centro maggiormente popolato dell’Africa orientale. Con ogni nave salpata, il guadagno era di decine di migliaia di dollari. A luglio, stando a una conversazione telefonica intercettata tra Mered e un suo socio, aveva contrabbandato verso l’Europa tra le 7 e le 8 mila persone. A ottobre si trasferisce a Khartoum, capitale del Sudan, per due mesi. Le autorità italiane trovano la sua pagina Facebook e mettono agli atti la fotografia di un uomo cupo con una camicia blu e una catena argentata con un grande crocifisso al collo. “Questo è Medhanie,” così riferisce ai procuratori di Roma un migrante che aveva lavorato per lui per un breve periodo. “È un re in Libia. È molto rispettato, è uno dei pochi, forse l’unico, che può andare in giro con una croce al collo.”

Nel 2015 sono stati 150.000 i migranti e rifugiati che hanno attraversato il mare dalla Libia all’Europa e circa 3000 sono morti annegati. Ogni giovedì pomeriggio, gli eritrei si sintonizzano su Radio Erena, una stazione in lingua tigrina, per ascoltare un programma condotto dalla giornalista e attivista eritreo-svedese Meron Estefonos. Dalla sua cucina a Stoccolma, Estefanos è in contatto con centinaia di migranti, attivisti e trafficanti. Quando in radio critica un trafficante, non è raro che proprio la stessa persona telefoni in diretta per lamentarsene.

A febbraio del 2015 la Estefanos segnalò che alcuni degli uomini di Mered stavano stuprando donne migranti. Mered chiamò in radio per negare le accuse di stupro, ma ammise altre cattive prassi provando anche a giustificarle. “Ho chiesto, ‘perché fate imbarcare le persone senza giubbotti di salvataggio?’” mi racconta Estefanos. “E lui ha risposto, ‘Non posso comprare i giubbotti di salvataggio perché se compro 500 giubbotti, qualcuno sospetterà che sono un trafficante.’” Disse anche alla Estefanos che era vero che le persone soffrissero la fame nella sua connection house, ma che la colpa non era sua. “I miei uomini in Sudan… Io gli dico di mandarmi 500 persone e loro me ne mandano 2000,” spiegava. “Ho le provviste per 500 persone e adesso in qualche modo devo far funzionare tutto!

Mered si stava arricchendo, ma non era lui il capo come molti credevano. Nella primavera del 2013, dopo essere arrivato in Libia come rifugiato, aveva negoziato un passaggio verso Tripoli aiutando i trafficanti con umili compiti. A giugno cominciò a lavorare con un libico di nome Ali, la cui famiglia possedeva un edificio dismesso vicino al mare, perfetto per diventare una connection house. Secondo alcuni suoi clienti, Mered istruiva i soci in altre parti dell’Africa orientale a fingersi con i migranti uomini di Abdulrazzak, conosciuto tra gli eritrei come uno dei trafficanti più potenti.

Quelli che venivano ingannati con questa storia a pagare la squadra di Mered, si infuriavano una volta arrivati nella connection house, dove scoprivano che Mered e Ali non erano affatto collegati ad Abdulrazzak, e che non erano riusciti a stringere un accordo con gli uomini che gli avrebbero assicurato la partenza. Quando alla fine il duo riuscì a organizzare la prima partenza, tutte e tre le imbarcazioni furono intercettate prima di poter lasciare le acque libiche e i passeggeri furono incarcerati.
Alla fine dell’estate, nella connection house c’erano più di 350 migranti in condizioni di sofferenza. Alla fine, a settembre, un convoglio di taxi li trasportò in piccoli gruppi fino alla spiaggia per imbarcarsi. Dopo cinque giorni, la guardia costiera italiana soccorse i passeggeri di Mered e, quindi, diede uno slancio alla sua reputazione di trafficante.

A dicembre, Mered aveva portato centinaia di migranti verso la spiaggia, tra cui un eritreo che qui chiamerò Yonas. “Era stanco di Tripoli”, mi dice Yonas. “Era pronto a venire con noi, a fare il viaggio in mare.” Ma le coste erano controllate dai libici e per loro le capacità di Mered di organizzare i pagamenti e di parlare in tigrino con gli africani dell’est erano una parte preziosissima del business. Ali cominciò ad urlargli contro e a schiaffeggiarlo. “È lì che ho capito che Mered non era poi così importante,” ricorda Yonas. “Le nostre vite dipendevano dai libici, non da Medhanie. Per loro lui non era migliore di noi, era soltanto un altro rifugiato eritreo.”

Nell’aprile del 2015, l’ufficio del tribunale di Palermo emette un mandato di arresto per Mered. Le autorità rilasciano anche la sua foto con il crocefisso, con la speranza che qualcuno possa consegnarlo. Pochi giorni dopo, la faccia di Mered appariva su molti giornali europei.

La notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati di Mered si diffuse velocemente in Libia. Una notte Mered chiamò la Estefanos in preda al panico. “È come se fosse una fatwa contro di me,” le disse. “Hanno messo la mia vita in pericolo.” Sosteneva che nei giorni dopo che il suo nome uscì sui giornali, fosse stato rapito tre volte. Un generale libico aveva poi negoziato il suo rilascio. Mered chiese alla Estefanos che cosa gli sarebbe successo se avesse tentato di arrivare in Europa per ricongiungersi con la moglie, Lidya Tesfu, che l’anno precedente aveva attraversato il Mediterraneo e dato alla luce il loro figlio in Svezia. Mered non pensava soltanto che l’Italia aveva sopravvalutato il suo ruolo, ma “si vedeva come una sorta di attivista che aiutava persone disperate”, mi racconta Estefanos.

Il 6 giugno 2015, poco prima di mezzanotte, Mered chiamò la Estefanos, e dalla voce sembrava ubriaco o fatto. “Non voleva che gli facessi domande. Mi ha detto, ‘Ascolta e basta.’” Nelle 3 ore successive Mered raccontò in dettaglio i suoi sforzi per soccorrere molti eritrei in ostaggio dello Stato Islamico, che aveva stabilito una base a Sirte, in Libia. Era in viaggio verso il confine egiziano, con quattro delle donne salvate nel retro del furgone che guidava. Come ricorda Estefanos, “Mered mi ha detto, ‘Ho con me un revolver e un kalashnikov per difendermi. Se succede qualcosa al confine tra Libia e Egitto, non mi arrenderò. Ne ucciderò più che posso finché non muoio anche io. Augurami buona fortuna!’” Non richiamò più.

Da quel momento in poi Estefanos ebbe notizie occasionali dei soci di Mered, alcuni dei quali volevano tradirlo per impadronirsi del suo business. Mered fu poi fotografato a un matrimonio in Sudan e individuato in un bar in Etiopia. Postò foto su Facebook da un centro commerciale a Dubai. Gli investigatori italiani persero le sue tracce. Ma il 21 gennaio del 2016, Ferrara riceve una dettagliata nota da Roy Godding, un ufficiale della National Crime Agency inglese a guida degli sforzi del paese contro il crimine organizzato e il traffico di esseri umani. Godding scrive che l’agenzia è “in possesso di prove credibili e ammissibili” secondo cui Mered risiedeva a Khartoum e “trascorreva molto del suo tempo in quella città.” La NCA crede che Mered partirò presto, probabilmente entro fine aprile, e quindi “devono muoversi in fretta,” scrive Godding.

Ma Godding è preoccupato. In Sudan i trafficanti di esseri umani possono subire pene di morte, che invece nel Regno Unito sono state abolite più di 50 anni fa. Se i governi italiano e britannico dispongono la cattura, secondo Godding Mered deve essere estradato in Italia e rimanere nelle mani dei sudanesi il minor tempo possibile. Anche se le fonti di Godding sostengono che Mered abbia “legami corrotti” con le autorità del Sudan, lui crede che Palermo e la NCA possano lavorare con “partner fidati” del regime. (Il presidente del Sudan è accusato in contumacia di crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità dalla Corte Penale Internazionale, ma l’Unione Europea paga il suo governo decine di milioni di euro ogni anno per contenere le migrazioni.)

Il team di Ferrara comincia a elaborare una richiesta di estradizione. La magistratura di Palermo ha già messo sotto controllo il telefono sudanese di Mered e quelli di sua moglie Tesfu e di suo fratello Merhawi, emigrati in Olanda due anni prima. Le registrazioni non portano ad alcun risultato, eppure il 19 marzo Merhawi dice durante una telefonata che un uomo di nome Filmon gli aveva detto che Mered era a Dubai e che sarebbe tornato presto a Khartoum.

A metà maggio, la NCA informa Ferrara e il suo team di un nuovo numero sudanese che secondo loro viene usato da Mered. Le intercettazioni cominciano subito. Il 24 maggio, quando le autorità sudanesi danno il benvenuto alle delegazioni europee al summit internazionale sulle migrazioni e i traffici di esseri umani, la polizia rintraccia il telefono e esegue un arresto.

Due settimane dopo il sospetto viene estradato in Italia. La cattura di Medhanie Yehdego Mered viene annunciata dai procuratori la mattina dopo durante una conferenza stampa a Palermo.

La copertura dell’arresto assume tinte che vanno dall’implausibile all’assurdo. La BBC riporta erroneamente che Mered aveva presieduto “un impero multimiliardario”. Un tabloid inglese sostiene che aveva donato milioni di dollari allo Stato Islamico. La NCA, che lo aveva cercato per anni, rilascia un comunicato errato sostenendo che “era responsabile per la tragedia di Lampedusa.” Nel frattempo, a Palermo, dall’ufficio del procuratore dicono che Mered si era ispirato a Muammar Qaddafi e che era noto tra i trafficanti come il Generale, anche se l’unico riferimento a quello pseudonimo si trova in una chiamata intercettata del 2014, in cui secondo la trascrizione ufficiale, veniva usato “un tono ironico”. Ferrara si vanta del fatto che Mered è “uno dei quattro più importanti trafficanti di essere umani in Africa.”

Il 10 giugno il sospetto è interrogato da tre procuratori della magistratura di Palermo. Il procuratore capo, Francesco Lo Voi, gli chiede se ha capito le accuse.
Perché mi avete detto che sono Medhanie Yehdego?” risponde l’uomo.
Hai capito le accuse contro di te?” ripete Lo Voi.
Sì, ma perché mi avete detto che sono Medhanie Yehdego?
Sì, a parte il nome…
Lo Voi non si sarà sorpreso dalla domanda del sospetto. Due giorni prima, mentre l’Italia rilasciava il video dell’uomo che scendeva dall’aereo, ammanettato e con un’espressione spaventata, Estefanos riceveva chiamate da Eritrei in almeno quattro continenti. La maggior parte di loro era perplessa. Un rifugiato eritreo che era partito dalla Libia con l’aiuto di Mered disse “Quest’uomo non gli assomiglia nemmeno un po’.” Pensò che l’Italia avesse usato l’immagine di un altro uomo presa dal materiale d’archivio. Ma per una persona di Khartoum, una donna di nome Seghen, il video aveva risolto un mistero: da più di due settimane suo fratello non si trovava più e fu sconvolta quando lo vide in televisione. Disse che suo fratello aveva almeno sei anni meno di Mered e che gli unici tratti in comune tra i due erano che fossero entrambi eritrei e di nome Medhanie.

Estefanos mi racconta “Non sapevo come contattare l’Italia così ho chiamato Patrick Kingsley,” il corrispondente del Guardian sulle migrazioni, il cui editor aveva organizzato per lui una collaborazione con Lorenzo Tondo, giornalista siciliano a Palermo. Quella sera, appena prima del tramonto, Ferrara riceve una serie di messaggi di Tondo su WhatsApp. “Chiamami, ho delle notizie incredibili”, scriveva Tondo, che conosceva Ferrara per dei casi precedenti. “Mi hanno appena contattato dal Guardian. Dicono che secondo fonti eritree l’uomo che avete non è Mered.
Ferrara non si fa buttare giù, ma è irritato dal fatto che i sudanesi non abbiano trasmesso alcuna prova di identificazione o impronte. La notte stessa Tondo e Kingsley scrivono sul Guardian che gli inquirenti inglesi e italiani stanno verificando che il Sudan non abbia consegnato loro l’uomo sbagliato, ma poco dopo uno dei capi di Ferrara informa Tondo che nessuno dall’ufficio avrebbe più discusso dell’arresto e dichiara “abbiamo scelto il silenzio stampa.”

Negli ultimi anni i processi per traffico di esseri umani hanno avuto spesso tinte politiche, piuttosto che rivendicazioni di giustizia e verità. Finché la Libia rimane nel caos, non c’è modo di prevenire che i barconi affollati raggiungano le acque internazionali, dove la maggior parte delle persone che non vengono soccorse annega. Durante gli sbarchi, spesso la polizia usa la minaccia dell’arresto per costringere i migranti a identificare chiunque sia stato incaricato di pilotare l’imbarcazione, per poi incriminarlo come trafficante. L’accusato è solitamente rappresentato da un avvocato d’ufficio che non parla la sua lingua e non ha tempo, né le risorse, né la comprensione del business della tratta per costruire una difesa credibile. Coloro che pilotano le barche in cui qualcuno muore, vengono spesso accusati di omicidio colposo. Centinaia di migranti sono stati condannati in questo modo, dando una patina di successo a una altrimenti fallimentare strategia per rallentare i flussi.

Quando all’uomo individuato come Mered viene assegnato un avvocato d’ufficio, Tondo interviene. “Sapevo che quest’uomo non sarebbe stato adeguatamente difeso,” mi dice. “Se c’era una possibilità che fosse innocente, era mio dovere, non come giornalista ma come essere umano, aiutarlo. Così ho messo in contatto la prefettura con il mio amico Michele Calantropo,” un avvocato difensore che aveva già lavorato su questioni migratorie. Per Tondo, inoltre, la mossa era strategica. “L’effetto collaterale era che avrei avuto una fonte importante all’interno del caso”, racconta.

Il 10 giugno, nella stanza dell’interrogatorio, viene ordinato al sospettato di fornire i suoi dati personali. Prende in mano una matita e scrive lentamente su un foglio in tigrino. Per almeno due minuti l’unico rumore nella stanza è il canto di un uccello fuori dalla finestra aperta. Dopo, un interprete legge la sua testimonianza per il verbale: “Mi chiamo Medhanie Tesfamariam Berhe, sono nato ad Asmara il 12 maggio 1987.

Nel pomeriggio Berhe, Calantropo e tre magistrati incontrano una giudice. “Se dai falsa testimonianza sulla tua identità, in Italia è un crimine,” lo avvisa.
Berhe dichiara di vivere ad Asmara, la capitale dell’Eritrea. Come molti altri rifugiati, era fuggito dal paese durante il servizio di leva obbligatorio.
Allora, che tipo di lavori ha fatto nella sua vita?” chiede la giudice.
Facevo il falegname. E vendevo latte.
Cosa?
Vendevo latte.
È sposato?
No,” risponde Berhe.
Con chi viveva ad Asmara?
Con mia madre.
Ok, signor Medhanie,” continua la giudice. “Adesso le leggo i, ehm, i crimini… le cose per cui è accusato.
Ok.
La giudice impiega molti minuti per descrivere in dettaglio una complessa impresa criminale che abbraccia 11 paesi e 3 continenti coinvolgendo numerosi complici, migliaia di migranti e milioni di euro di profitti illeciti. Elenca un numero consistente di imbarchi di persone che sono passate attraverso la connection house di Mered e arrivate in Italia nel 2014. Berhe sta seduto in silenzio, mentre l’interprete sussurra velocemente all’orecchio. Dopo che l’elenco è terminato, la giudice chiede a Berhe “allora, che cosa ha da dire a riguardo?
Non sono stato io, nel 2014 ero ad Asmara, per cui quelle date non hanno nemmeno senso.
E dove è andato dopo Asmara?
Sono andato in Etiopia e sono rimasto lì per 3 mesi. Dopo sono andato in Sudan.” In Sudan Berhe non riuscì a trovare lavoro e finì a vivere con molti altri rifugiati. Berhe e sua sorella ricevettero l’aiuto di sporadiche donazioni da 300 euro da parte di un fratello che viveva negli Stati uniti. Berhe ha trascorso le ultime due settimane e mezzo in isolamento, ma questi racconti trovano riscontro in quelli di amici e parenti che hanno parlato con la Estefanos e altri membri della stampa.
Ascolti, devo chiederle una cosa,” dice il giudice. “Almeno lo conosce Medhanie Yehdego Mered?
No.
Io non ho altre domande. Qualcun altro?
Vostro onore, qualsiasi siano i fatti che ha presentato, in realtà lui è l’uomo giusto,” così parla Claudio Camilleri, uno dei magistrati presenti. “Ci è stato consegnato come Mered, lo può leggere molto chiaramente: Mered,” insiste, indicando i documenti dell’estradizione.
Insieme a Berhe il governo sudanese aveva consegnato un cellulare, un piccolo calendario e alcuni fogli che, a detta loro, erano gli unici oggetti in possesso di Berhe al momento dell’arresto. Ma quando la giudice chiede a Berhe se ha un passaporto, lui risponde di sì. “È in Sudan, me lo hanno preso. Era nella mia tasca, ma me lo hanno preso.
Mi scusi, al momento dell’arresto lei aveva con sé i suoi documenti?
Sì, ce li avevo. Ma mi hanno preso la carta d’identità.
Berhe racconta al suo avvocato che la polizia sudanese lo aveva picchiato e gli aveva chiesto soldi. Ma essendo un rifugiato senza lavoro, non aveva niente da dare, così notificarono all’Interpol di aver catturato Mered.

I procuratori si concentrano anche sul suo telefono, che era stato intercettato per breve tempo prima che fosse arrestato. Camilleri dice che “i contenuti di queste conversazioni hanno toccato attività illecite rilevanti per questo caso.” All’epoca il cugino di Berhe stava attraversando la Libia, in rotta verso l’Europa, e aveva chiamato Berhe per aiutarlo a organizzare un pagamento nei confronti dell’uomo di contatto. “Quindi, lei conosce persone che fanno parte delle organizzazioni che fanno partire i migranti,” chiarisce la giudice. “Perché chiamano lei se è soltanto un lattaio?

L’interrogatorio continua così: le autorità guardano con sospetto a qualsiasi dettaglio non riescono a capire in merito alle vite dei rifugiati che viaggiano attraverso le stesse pericolose rotte che stanno cercando di smantellare. A un certo punto Berhe si ritrova a spiegare le basi del sistema dell’hawala, cioè una rete irrintracciabile di money-transfer costruita sulla fiducia tra broker distanti tra loro, a un magistrato che aveva trascorso anni a indagare su trafficanti, il cui business dipende dal sistema stesso. Quando Berhe dice che uno dei suoi amici a Khartoum aveva lavorato in un bar, la giudice confonde la parola con barche. “Vende barche?” chiede. “No no, vende succhi di frutta.

I magistrati chiedono a Berhe anche di identificare alcuni dei sospetti nell’operazione Glauco. Ma in molti casi conoscono soltanto gli pseudonimi o i nomi, molti dei quali sono comuni in Eritrea. Riconoscendo alcuni dei nomi come quelli di amici e parenti, Berhe comincia a sentirsi coinvolto.
Mera Merhawi?” chiede uno dei procuratori. Il nome del fratello di Mered è Merhawi.
Beh, Mera è l’abbreviazione di Merhawi.
Ok, ha avuto una conversazione con…
Sì, Merhawi è in Libia. È partito con mio cugino Gherry.
Berhe crede che la via più sicura per essere rilasciato sia cooperare, per cui decide di fornire la sua password per gli account e-mail e Facebook: è “Filmon”, il nome di uno dei suoi amici a Khartoum. I procuratori ne approfittano subito, ricordando che Filmon era il nome della persona identificata in una intercettazione del fratello di Mered, Merhawi. L’accusa però trascura il fatto che Berhe avesse 12 Filmon tra gli amici di Facebook, mentre Mered cinque.

Dopo l’interrogatorio, la procura di Palermo ordina un’analisi forense sul telefono di Berhe e i suoi account social per filtrare i dati dalle incongruenze. Quando gli addetti passano tutto nel database delle indagini Glauco, scoprono che uno dei fogli consegnati dalle autorità sudanesi conteneva il numero di un uomo di nome Solomon, che nel 2014 aveva parlato con Mered di pagamenti hawala almeno 78 volte. Scoprono anche che nonostante Berhe abbia dichiarato di non conoscere la moglie di Mered, Lidya Tesfu, in realtà ha avuto con lei una conversazione su Facebook. Tesfu mi racconta di non aver mai incontrato Berhe. Lui l’aveva trovata attraente dalle foto e nel 2015 cominciò a flirtare con lei online. Lei gli disse che era sposata, ma lui continuò fino a che lei troncò i contatti dicendogli “Non voglio nessuno se non mio marito.” Quando i magistrati riportano questo scambio tra le prove, omettono tutto tranne l’ultima frase di Tesfu, dando l’impressione opposta e cioè che fosse sposata con Berhe e stesse soffrendo per lui.

Come molte altre persone a Khartoum, Berhe aveva sperato di raggiungere l’Europa. Nella sua cronologia di Facebook c’era anche un video di YouTube sui migranti nel Sahara e una ricerca sulle condizioni del Mediterraneo. I magistrati considerarono questi fatti come prove ulteriori della sua attività di trafficante. Ma c’era di peggio: in un sms a sua sorella, Behre menzionava un certo Ermias. Un trafficante con quel nome aveva messo in mare la nave che poi era affondata vicino le coste di Lampedusa.

Alla fine dell’interrogatorio, se quell’uomo sia Medhanie Tesfamariam Berhe o Medhanie Yehdego Mered, non importa più. Berhe viene riportato nella sua cella. “La cosa importante sono le prove, non l’identità,” mi dice Ferrara. “Conta soltanto poter dimostrare che quella prova ha portato a quella persona.” La NCA rimuove dal suo sito il comunicato dell’arresto di Mered. È questa la prima estradizione di una nuova fragile partnership tra il governo europeo e quelli dell’Africa orientale nella lotta al traffico di esseri umani, nota come Processo Khartoum. Non ci sono più state altre estradizioni.

Estefanos mi racconta che, nella comunità eritrea, “tutti pensavano cose tipo ‘Che uomo fortunato… noi abbiamo attraversato il Sahara e il Mediterraneo, e questo arriva con un aereo privato!’ Tutti credevano che sarebbe stato rilasciato in poco tempo.” Ma al contrario, la giudice acconsentì che il caso di Berhe arrivasse in tribunale. Sembrava che le uniche persone che non volevano accettare la sua innocenza, fossero le stesse che avevano in mano il suo destino. Verso la fine dell’udienza preliminare uno dei pubblici ministeri chiese a Berhe se era mai stato in Libia. Nella registrazione audio si sente rispondere “No.” Ma nella trascrizione ufficiale qualcuno ha scritto “”.

Tondo e Kingsley scrivono sul Guardian che il processo “rischiava di diventare motivo di imbarazzo sia per la polizia italiana che per quella inglese.” Tondo mi dice che la notte dopo l’uscita dell’articolo, “ho ricevuto moltissime chiamate da amici e parenti, erano molto preoccupati delle conseguenze della storia.” Tondo fa affidamento soprattutto sulla sua relazione con gli addetti della procura, molti dei quali gli forniscono frequentemente informazioni confidenziali. “Questa cosa è cominciata negli anni delle guerre mafiose, quando non ci si poteva veramente fidare degli avvocati che difendevano i mafiosi,” mi spiega. Tondo ha 34 anni e vive con sua moglie e il loro bambino di due anni. Lavorando come Freelancer per giornali italiani e internazionali, raramente riesce a guadagnare più di 600 euro al mese.

Sono sopravvissuto grazie ai premi giornalistici,” mi dice. “Quindi che cazzo faccio”, mollo la storia o la seguo fino a dove mi conduce? “Ogni giornalista in Sicilia si pone quella domanda. Sei al punto in cui comprometti la tua carriera per trovare la verità.
In Italia i giornalisti d’inchiesta vengono spesso intercettati, seguiti e intimiditi dalle autorità. “Gli strumenti investigativi che usano i magistrati per mettere pressione ai giornalisti sono gli stessi che usano per rintracciare i criminali,” mi racconta Piero Messina, un reporter di cronaca nera siciliano. Due anni fa Messina pubblicò un pezzo sull’Espresso sostenendo che un illustre dottore aveva fatto dichiarazioni minacciose nei confronti della figlia di Paolo Borsellino, uno dei giudici uccisi dalla mafia nel 1992. Messina fu accusato di calunnia, un reato che può portare a una sentenza fino a sei anni di detenzione. Secondo l’organizzazione italiana per la stampa libera Ossigeno per l’Informazione, negli ultimi 5 anni in Italia i giornalisti hanno affrontato almeno 432 “querele temerarie per diffamazione” e altre 37 “querele temerarie per diffamazione da parte del magistrato”.

Durante un’udienza, Messina si ritrovò difronte alle trascrizioni delle sue chiamate personali. “Quando un giornalista scopre di essere sotto controllo in questo modo, non può più lavorare” senza compromettere le sue fonti, mi ha confessa. A volte le unità di sorveglianza della polizia parcheggiano davanti casa sua e monitorano i suoi movimenti. “Mi hanno fottuto la carriera”.

Il processo di Messina è ancora in corso e lui sta cercando di rimanere a galla. Qualche mese fa, La Repubblica lo ha pagato 7 euro per un articolo di 1200 parole sulle spie nordcoreane a Roma. “Ti pagano così poco che è un suicidio fare giornalismo d’inchiesta,” mi rivela. “Ecco come stanno uccidendo l’informazione in Italia. Perdi la motivazione a fare il tuo lavoro. Conosco molti di giornalisti che sono diventati cuochi.”

I magistrati hanno ampio spazio di manovra nell’indagare su possibili reati, anche se non è stato segnalato niente alla polizia. E sono obbligati a registrare formalmente un’indagine solo quando sono pronti a presentare le denunce. In un saggio recente, Michele Caianiello, professore di diritto penale all’Università di Bologna, ha scritto che la facoltà di indagare le persone prima che un qualsiasi reato venga scoperto “rende estremamente complicato controllare a posteriori se il magistrato abbia omesso di registrare il nome del possibile sospetto per negligenza o malizia”. Quello che vuole dire, in pratica, è che i magistrati possono indagare i loro presunti avversari a oltranza, senza che nessuno sappia niente.

Nel 2013 il governo italiano ha richiesto dati alla Vodafone più di 600 mila volte. Nello stesso anno le corti italiane hanno ordinato almeno mezzo milione di intercettazioni ambientali. Nonostante le intercettazioni debbano essere approvate da un giudice, c’è anche il modo di bypassare le regole. Un metodo è includere il numero della persona in un’ampia lista di numeri, magari un elenco di una quarantina di telefoni che hanno legami sospetti con un boss mafioso. “È un’indagine legittima, ma ci metti dentro il numero di qualcuno che non dovrebbe esserci,” mi racconta un funzionario e dell’intelligence. “Lo fanno di continuo.

Tondo continuò a scrivere sul processo Medhanie, mettendo continuamente i magistrati in imbarazzo con nuove storie che dimostravano la possibilità per cui in carcere ci fosse l’uomo sbagliato. Durante una delle udienze, un uomo in giacca e cappello neri seguì Tondo intorno al tribunale, facendogli foto con il cellulare. Tondo decise di affrontare lo sconosciuto usando il proprio cellulare per fare foto a sua volta, ma rimase sorpreso quando l’uomo lo chiamò per nome. Dopo l’incidente, Tondo scrisse un reclamo formale, ma un contatto della polizia militare gli consigliò di non presentarlo: se avesse inoltrato una richiesta per sapere se fosse sotto inchiesta, ai magistrati sarebbe stato notificato l’avviso, ma quasi sicuramente avrebbero potuto non rispondere. “In un caso di criminalità organizzata puoi fare indagini in segreto per anni”, mi racconta Ferrara. “Non devi mai informarli.” Qualche mese dopo l’uomo con il cappello nero saliva sul banco dei testimoni: era della polizia investigativa.

Tondo guadagna una fetta importante di introiti lavorando come assistente per giornali internazionali. Lo incontro a settembre 2016, quattro mesi dopo l’arresto di Berhe, quando lo assumo per aiutarmi con una storia riguardo a ragazze minorenni nigeriane che vengono trafficate in Europa nei giri della prostituzione. Andiamo alla procura di Palermo per raccogliere documentazioni sul crimine nigeriano e entriamo nell’ufficio di Maurizio Scalia, il viceprocuratore capo. “Mi scusi, dottor Scalia,” dice Tondo per presentare me, ma Scalia è rimasto concentrato su di lui. “Hai un bel coraggio a venire qui,” risponde.

La scorsa primavera una reporter del Times contattò Ferrara per una potenziale storia sulla migrazione. Ferrara, che sapeva della collaborazione tra lei e Tondo per un altro lavoro, minacciò il giornale dicendole: “Se dà una firma a Lorenzo Tondo, il New York Times ha chiuso con la procura di Palermo.” (Ferrara nega di averlo detto).
Un pomeriggio a Palermo pranzo con Francesco Viviano, giornalista d’inchiesta siciliano di 68 anni. Mi dice di essere stato intercettato, indagato o interrogato dalle autorità “80 o 90 volte”. Dopo decenni di attività giornalistica sui modi in cui la mafia influenza la vita dei siciliani, Viviano non ha molta pazienza nei confronti dei crociati antimafia che sfruttano la storica reputazione di Cosa Nostra per tenere a galla se stessi. “La mafia non è completamente finita, ma è stata distrutta,” mi spiega. “Esiste attualmente con il 10 o il 20 per cento del suo potere originale. Ma se chiedi ai magistrati loro ti rispondono ‘No, è al 200 per cento,’” per dare una percezione eroica al proprio lavoro. Mi fa un elenco di diverse figure pubbliche, le cui posizioni antimafia celano comportamenti privati esenti da ogni scrupolo. “Si credono Falcone e Borsellino,” mi dice. Negli ultimi anni, la divisione antimafia palermitana ha fatto da canale diretto per poltrone politiche in Italia e Europa.

A dicembre 2014 Sergio Lari, un magistrato di Caltanissetta che aveva lavorato con Falcone e Borsellino e risolto l’omicidio di Borsellino, è stato nominato per la posizione di procuratore capo di Palermo, ma il posto è stato poi ottenuto da Francesco Lo Voi, un candidato con meno esperienza.

L’anno successivo Lari comincia ad indagare su una concessionaria di auto usate a sud della Sicilia, scoprendo che le auto arrivavano da una concessionaria di Palermo che era stata sequestrata dallo stato per avere legami con la mafia. Lari informa l’ufficio di Lo Voi, che comincia a intercettare i sospetti e scopre che lo schema conduce a una giudice di Palermo: Silvana Saguta, capo della Sezione Misure di Prevenzione della procura.

La Saguto era considerata la Falcone della misure di prevenzione,” mi dice Lari. “Era su tutti i giornali, si distingueva come una specie di eroina.” Il team di Lari intercettò la sua linea, ma Saguto venne avvisata e lei e i suoi soci smisero di parlare per telefono. “A quel punto, ho dovuto prendere una decisione dolorosa. Ho dovuto mandare i miei uomini di nascosto, in piena notte, a mettere le cimici negli uffici dei procuratori, nel Palazzo di Giustizia di Palermo. Questa cosa non era mai stata fatta in Italia.” Lari e il suo team smascherarono una vasta rete di corruzione che portò ad almeno 20 incriminazioni. Tra gli imputati ci sono cinque giudici, un procuratore antimafia e un funzionario della DIA. Saguto fu accusata di avere gestito in modo spregiudicato i beni sottratti alla criminalità organizzata, di aver nominato suoi familiari come amministratori dei beni e di aver intascato i guadagni o di averli distribuiti tra colleghi, familiari e amici. Stando alle 1200 pagine dell’atto d’accusa scritto da Lari, Saguto usò alcuni beni mafiosi rubati per pagare il professore di suo figlio affinché gli desse dei buoni voti. (Saguto ha respinto tutte le accuse; i suoi avvocati hanno sostenuto che lei “non ha mai preso un euro.”)

Eccetto Lari, tutti i magistrati che hanno lavorato con Falcone e Borsellino sono morti o in pensione. Il caso Saguto ha portato a Lari “molti nemici” nelle cerchie giuridiche e politiche della Sicilia, racconta. “Prima mi odiavano i mafiosi, adesso quelli dell’antimafia. Un giorno mi troveranno morto per strada e nessuno dirà chi è stato.

Le indagini della procura di Palermo, comunque, non impediscono ai procuratori di interferire con la preparazione di Calantropo della difesa di Berhe. Una settimana dopo l’udienza preliminare, Calantropo richiede un permesso alla prefettura per condurre le interviste all’interno di un centro di accoglienza per migranti a Siculiana, vicino Agrigento, dove spera di trovare ospiti eritrei che testimonino sull’identità sbagliata di Behre. Qualche giorno dopo, Ferrara, Scalia e Camilleri scrivono una lettera alla prefettura chiedendo ai funzionari di dichiarare con chi avesse parlato Calantropo. Quando scopre che gli eritrei sono stati trasferiti in un altro centro, Calantropo decide di non andare.

Non è legale che loro controllino l’avvocato della difesa,” racconta Calantropo. “Ma se osservi i suoi testimoni, allora osservi l’avvocato.” Calantropo è calmo e paziente, ma come molti siciliani è diventato così cinico rispetto alla corruzione istituzionale e sfiduciato nei confronti della giustizia, che può essere incline a vedere cospirazione anche dove potrebbe trattarsi di coincidenza. “Non posso essere certo che stiano indagando su di me,” mi dice alzando un sopracciglio e inclinando la testa in una caricaturale esibizione di scetticismo. “Ma te lo devo dire, non è che mi stiano lasciando libero di fare il mio lavoro da solo.

L’estate passata, Meron Estefanos porta Yonas e un altro rifugiato eritreo di nome Ambes dalla Svezia a Palermo. Entrambi avevano vissuto nella connection house di Mered a Tripoli nel 2013. Dopo aver testimoniato davanti a Calantropo che era stato Mered a trafficarli e che non avevano mai visto l’uomo imputato, Tondo contatta Scalia e Ferrara. “Li ho pregati di incontrare le nostre fonti, ma ci dissero ‘Abbiamo già preso Mered, è in galera.’” (Estefanos, Colantropo, Yonas e Ambes ricordano la chiamata di Tondo; Ferrara dice che non è mai avvenuta.)

Nonostante si ritenga che Mered abbia fatto arrivare in Italia più di 13 mila eritrei, sembra che nessun magistrato abbia fatto alcuno sforzo per incontrare i suoi clienti. L’operazione Glauco e le accuse vengono portate avanti quasi interamente grazie a chiamate intercettate, che permettono ai funzionari di costruire una rete di contatti remoti, ma forniscono ben poco del contesto e ancora meno dettagli sulle vite dei sospetti, soprattutto riguardo alle transizioni vis à vis che costituiscono il fulcro del business dei trafficanti. Uno dei risultati è che Ali, il boss libico di Mered, è a stento menzionato nei documenti dell’operazione Glauco. Quando gli è stato chiesto di lui, Ferrara aveva risposto che non sapeva chi fosse. Ambes mi aveva mostrato la fotografia di Ali che aveva fatto con il suo telefono.

Dopo il ritorno di Yonas e Ambes in Svezia, la procura di Palermo chiede alla polizia di indagare su di loro. Le leggi dell’UE prevedono che la richiesta di asilo venga fatta nel paese di primo arrivo, ma dopo essere sbarcati in Sicilia i due avevano proseguito direttamente verso nord, fino in Svezia, prima di dare le loro impronte e i loro nomi alle autorità. Indagare su di loro ha l’effetto di spaventare altri eritrei che potrebbero venire dopo di loro. Dei magistrati italiani Estefanos mi dice, “Non credo che siano lì per cercare la verità, preferirebbero indagare un innocente piuttosto che ammettere di aver sbagliato.

Calantropo presenta come prove il certificato di nascita di Berhe, che aveva ricevuto dalla famiglia; foto di Berhe da bambino; la sua pagella di scuola superiore; la registrazione a sette esami con relativa foto; e lo scan della sua carta d’identità rilasciata dal governo. Anche i familiari di Berhe forniscono documenti per verificare le proprie identità.

Altri documenti, poi, certificano gli spostamenti di Berhe. Il suo diploma dimostra che nel 2010, mentre Mered trafficava migranti attraverso il Sinai, Berhe stava completando gli studi in una scuola professionale in Eritrea. Un documento ufficiale del Ministero della Salute mostra che agli inizi del 2013, quando si considera che Mered fosse in Libia, Berhe veniva curato per una ferita che lui attribuiva a un “incidente con un macchinario” mentre lavorava come falegname. Il proprietario dell’azienda casearia Thomas Gezae, ad Asmara, scrive una lettera attestando che da maggio 2013 a novembre 2014, cioè quando Mered gestiva la connection house di Tripoli, Berhe faceva il direttore delle vendite e della distribuzione. Gezae scrive “La nostra impresa gli augura buona fortuna per le sue attività future.

Nell’autunno scorso una delle sorelle di Berhe, che vive in Norvegia dove è titolare di asilo, viaggia fino al carcere per fargli visita e presentargli suo nipote, ma le viene negato l’accesso. Solo i parenti possono visitare i detenuti e, anche se portano lo stesso cognome, Berhe, lui è registrato in carcere come Medhanie Yehdego Mered.
A dicembre 2016 il governo eritreo invia una lettera a Calantropo, confermando che l’uomo in custodia è Medhanie Tesfamariam Berhe. “È molto strano che la polizia europea non abbia mai chiesto al governo eritreo la carta d’identità di Medhanie Yehdego Mered,” dice Calantropo. (Ferrara sostiene che l’Italia non ha un accordo di assistenza legale con l’Eritrea.) Quando chiedo a Calantropo perché non lo ha fatto lui stesso, mi risponde, “Io rappresento Berhe, posso fare richieste solo per conto del mio cliente.”

L’accusa non produce alcuna prova per sostenere che Berhe sia Mered. Al contrario, Ferrara tenta di dimostrare che Mered usi degli alias e che uno di questi potrebbe essere Berhe.

Qualche anno fa Ferrara trasformò un trafficante eritreo di basso profilo di nome Nuredine Atta in un testimone chiave. Quando Atta decise di testimoniare, “lo abbiamo messo sotto protezione, proprio come nei casi di mafia,” e la sentenza gli fu ridotta della metà, racconta Ferrara. Molto prima dell’arresto di Berhe, avevano mostrato ad Atta la fotografia di Mered con indosso il crocifisso. Disse che ricordava di aver visto l’uomo su una spiaggia in Sicilia nel 2014 e che qualcuno gli aveva detto che si chiamava Habtega Ashgedom. In aula, però, il suo racconto non fu del tutto coerente. In un’indagine separata sulla tratta di essere umani, i magistrati di Roma ritennero la testimonianza di Atta non affidabile.

Dopo l’estradizione, Atta visiona una foto di Berhe. “Non lo riconosco,” è il suo commento. Più tardi, al banco dei testimoni, testimonia di essere piuttosto sicuro di aver visto una foto di Berhe durante un matrimonio a Khartoum nel 2013, contraddicendo così la dichiarazione di Berhe secondo cui a quel tempo stava vendendo latte ad Asmara. Ciononostante, la famiglia di Berhe produce un certificato di matrimonio e delle fotografie, dimostrando che il matrimonio è avvenuto nel 2015, in linea con la cronologia che Berhe ha delineato. Durante l’udienza Ferrara usa il fatto che Atta non conosca né Mered né Berhe come un motivo per credere che possano essere la stessa persona.

Ferrara cerca anche di collegare la voce di Berhe a quella intercettata di Mered. L’accusa fa leggere a Berhe alcune frasi trascritte dalle telefonate di Mered e chiede a un tecnico forense di nome Marco Zonaro di compararle con la voce delle registrazioni. Zonaro usa un software chiamato Nuance Forensics 9.2, ma poiché non è impostato per il tigrino, conduce l’analisi con l’arabo egiziano, che ha un altro alfabeto e suoni completamenti diversi da quelli tigrini. Zonaro scrive che l’arabo egiziano è “la popolazione di riferimento geografico” più vicina all’Eritrea. I test mostrano risultati ampiamente inconsistenti. Zonaro manca a diverse udienze; quando si fa vedere, all’inizio del mese, Ferrara prega il giudice di riferire il caso a un’altra corte perché Zonaro finisce per non testimoniare, così che il processo dovrà ricominciare da zero a settembre (2017 ndr).

Molte delle intercettazioni presentate come prove sollevano domande riguardo ai limiti della giurisdizione italiana. Secondo Gioacchino Genchi, uno dei principali esperti in intercettazioni e traffico di dati, le opzioni tecnologiche a disposizione dei pubblici ministeri vanno ben oltre quelle legali. Quando gli interlocutori sono entrambi stranieri e non su territorio italiano, e non stanno complottando contro l’Italia, i contenuti delle chiamate non dovrebbero essere usati in aula. “Ma nei casi di trafficanti ci sono verdetti contraddittori,” spiega. “Il più delle volte la difesa non sa come muoversi.” Genchi compara gli abusi dell’accusa nelle intercettazioni internazionali alle tecniche della pesca. “Quando usi una rete da pesca prendi tutto,” anche le specie protette. “Ma se il pesce finisce nella tua rete lo prendi, lo surgeli e lo mangi.

Il 16 maggio, dopo aver trovato il numero e l’indirizzo di Lidya Tesfu, moglie di Mered, nei documenti della corte italiani, la incontro in un caffè in Svezia. Mi dice che non sa dove sia suo marito, ma lui la chiama una volta al mese da un numero privato. “Sta seguendo il caso,” mi racconta. “Continuo a dirgli che dobbiamo fermarlo: ‘Devi metterti in contatto con l’Italia.’” Chiedo a Tesfu di esortare suo marito a parlare con me. Mi chiama all’inizio del mese.

Nel corso di tre ore, con il supporto di un interprete, Mered mi racconta in dettaglio le sue attività, i suoi guai sul lavoro e, con alcune attente omissioni, i suoi spostamenti degli ultimi sette anni. La sua versione degli eventi calza con quello che ho appreso da suoi ex clienti, da sua moglie, e da quello che era presente, e adesso curiosamente non c’è più, nei documenti della corte, pur non citando dettagli che possano ferire il suo orgoglio (come gli schiaffi di Ali) o creargli problemi giudiziari (il fatto che sia mai stato armato).

Mered mi dice che a dicembre 2015 viene incarcerato sotto un altro nome usando un passaporto eritreo contraffatto. Non specifica in quale paese fosse, ma la telefonata intercettata di suo fratello, quella in cui si riferisce al ritorno di Mered da Dubai, suggerisce che probabilmente è stato fermato negli Emirati Arabi. Sei mesi dopo, quando Berhe è arrestato a Khartoum, Mered apprende della sua presunta estradizione in Italia da alcune voci in cella. Ad agosto 2016, uno dei soci di Mered riesce a farlo uscire di prigione presentando alle autorità del paese un nuovo passaporto falso con un’altra nazionalità, probabilmente ugandese, e organizzando il rimpatrio di Mered nel suo presunto paese di origine. I mesi in carcere spiegano perché le intercettazioni italiane sul suo numero sudanese non hanno raccolto niente nei mesi precedenti all’arresto di Behre. Spiegano anche perché c’era un buco nella cronologia di Facebook in quello stesso periodo.

Per gli italiani, Mered non è che un trofeo. In Africa e in Medioriente, la domanda di trafficanti è più elevata che mai, date le decine di milioni di persone che fuggono da guerra, fame e oppressione. Per le persone che vivono nei paesi di transito, gli autisti, i faccendieri, i traduttori, le guardie, i negozianti, i broker dell’hawala, i contabili, i funzionari di polizia, gli assistenti ai posti di blocco, i banditi, il business non è mai stato così redditizio. Con Mered fuori dai giochi, l’anno scorso (2016 ndr) hanno raggiunto l’Italia via mare 180 mila migranti, la maggior parte dei quali è partita dalle coste nei pressi di Tripoli. Quest’anno (2017 ndr) si aspettano oltre 200 mila arrivi.

Durante la nostra telefonata, Mered si mostra molto sorpreso di quanto poco l’Italia abbia compreso lo schema di forze dietro questo business. Non c’è codice d’onore tra i trafficanti, nessuna gerarchia stile mafia da sconvolgere. Solo denaro, movimento, rischio e morte. “Un giorno, se mi prendono, la verità verrà fuori. Questi governi europei… Tutta quella tecnologia, e nessuno sa niente.

Tredici mesi dopo la sua estradizione, Berhe è ancora sotto processo. A maggio, durante un’udienza, Behre siede dietro una gabbia di vetro, stringendo un piccolo crocifisso di plastica, mentre tre giudici, seduti su una panca, mormorano tra di loro dietro una pila di fogli che quasi nasconde le loro facce. A parte Tondo, gli unici giornalisti italiani in aula sono un reporter e un editor di MeridioNews, un piccolo giornale online siciliano indipendente. Le testate principali hanno ignorato il processo in larga misura, oppure hanno riportato ingenuamente le affermazioni dell’accusa.

Un agente giudiziario che redigeva il verbale chiede se l’imputato Medhanie Yehdego Mered sia presente. Calantropo fa notare che, in effetti, non c’è, ma che per tutti è più facile fingere che lo sia. Il testimone dell’accusa, cioè un ufficiale coinvolto nell’estradizione, non si presenta e per un’ora intera non succede niente. Gli avvocati controllano Facebook sul proprio telefono. Alla fine, la sessione viene aggiornata e Berhe, che ha aspettato quell’udienza un intero mese, viene portato via in lacrime.