Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
/

L’Isola di Manus è una prigione dimenticata. Ma noi non possiamo dimenticare

La sera che provammo a salvare una vita, in un mare di uomini affamati

Behrouz Boochani, HuffPost Australia - 8 novembre 2017

Photo credit: Lynne Murphy

Oscurità ovunque.
Ma si può percepire la presenza di centinaia di uomini.

Centinaia di uomini privati dei loro vestiti.
Centinaia di uomini tra i corridoi, negli angoli desolati della prigione.
Centinaia di uomini affamati.
Corpi deteriorati, denutriti, annientati.

Poggio la schiena contro l’unico albero di cocco presente nel mezzo del Fox camp, inalando nei polmoni il fumo del tabacco locale, lo inalo nelle mie viscere vuote.

Un grido assordante si leva da uno dei corridoi. È un grido di aiuto. Mi affretto ad avvicinarmi. Qualcuno mi viene incontro dicendo: “Farhad sta morendo! È collassato a terra!
Il tono trasuda odore di morte.

Gli punto la luce del telefono in faccia. Somiglia alla morte, sembra un uomo morto. Non passa molto tempo prima che una dozzina di persone si raccolgano intorno.
Il fragore delle urla.
Il rumore della commozione.
Lo stesso rumore che riempie i corridoi.

Conosco Farhad. Lotta con i suoi problemi cardiaci già da molto tempo. Qui, nella prigione di Manus. Gli metto rapidamente un cuscino sotto la testa e controllo le pulsazioni. Sono parecchio accelerate. Suda da tutto il corpo. Da quanto ne so sono i segnali di un infarto.

Esco immediatamente. Vado verso la cancellata della prigione.
Alcune persone vengono con me. Non c’è nessuno.
Non c’è polizia. Non c’è la Marina militare. Non c’è nessuno di loro.

Oscurità ovunque.
Silenzio ovunque.

Contatto un ex-Primo Ministro di Manus chiedendogli di mandarci in fretta un’auto. Ammetto di trovarmi in uno stato di panico totale. Allo stato attuale la prigione non può tollerare un’altra morte. Ci dice di contattarlo ad un numero. Per quante volte provi a chiamarlo non risponde nessuno. Torno all’interno del Fox camp. Farhad è ancora lì, sdraiato a terra, immobile. La gente intorno è terrorizzata. Mi chiedono: “Ci sono novità? Cos’è successo?”.

Torno al cancello principale.

Un gran numero di sostenitori in Australia e alcune altre persone sull’isola cercano di fare del loro meglio per contattare l’Immigrazione o l’International Health and Medical Services (IHMS). Comunico con loro tramite WhatsApp. Finalmente ricevo notizie dall’Australia: l’IHMS ci informa di non poter offrire alcun servizio medico mentre Farhad è ancora all’interno del campo. Deve lasciare la prigione e recarsi ad East Lorengau (cittadina dell’isola in cui c’è un altro centro di ‘transito’ per migranti, n.d.t.) prima che possano assisterlo. E inoltre l’ABF (Australian Border Force) deve concedere l’autorizzazione.

Non ci sarà più nulla da fare se aspetteremo l’aiuto dell’IHMS. I nostri tentativi vanno avanti finché, alla fine, non riceviamo una risposta: ci dicono che una pattuglia della polizia sta arrivando da Lorengau. È assurdo. È ridicolo immaginare di trasportare una persona malata nell’auto della polizia. Da Lorengau alla prigione occorrono 35 minuti in macchina. Torno nella prigione per informare tutti che la volante della polizia è per strada.

Torno ancora una volta alla cancellata.

Dopo 30 minuti spuntano dall’oscurità le luci di un veicolo.
Iniziamo ad essere fiduciosi. Ma, ad un tratto, le luci scompaiono. L’auto gira e se ne va.
Sollecitiamo ancora, ancora e ancora. Ci dicono che l’auto della polizia ha appena lasciato Lorengau. La aspettiamo impazienti, ancora una volta.

Riecheggiano i rumori della giungla.
Da lontano la prigione sembra un luogo terrificante.
Una prigione.
Un gruppo di uomini in ansia.
Una foresta tropicale riverbera di suoni strazianti.
Dopo 30 minuti ancora nessuna traccia dell’auto.
Riceviamo notizia che dall’auto sono in contatto con il Capo della Marina. Dicono che il problema verrà sistemato al più presto.

Arriva un’auto. Alcuni di noi le si parano davanti per bloccarle la strada. È un veicolo della Mobile Squad (i Mobile Squad sono agenti di sicurezza che nelle ultime settimane sono stati impiegati ad East Lorengau per il trasferimento dei rifugiati). Chiediamo il loro aiuto. Ci rispondono: “Non c’è nessuna ambulanza qui. C’è una sola possibilità, quella di aspettare fino a domattina, quando potremo ottenere il consenso di Farhad a lasciare la prigione. Solo allora potrà ricevere delle cure da un medico”.
Continuiamo a supplicarli, diciamo loro che quell’uomo sta morendo. Non prestano alcuna attenzione alle nostre parole. Scompaiono velocemente, lontano dalla strada. Tutti gli sforzi chiusi in un vicolo cieco.

Torno all’interno della prigione. Farhad sembra aver già attraversato la morte. La gente attorno a lui si è arresa, hanno perso le speranze.

Mi dirigo di nuovo al cancello.

Lo raggiungo, ma sono completamente stressato e sconvolto dal fare avanti e indietro tra la cancellata e la prigione… penso soltanto ai rifugiati, tutti stretti intorno a Farhad.
Ammetto che per un momento ho sentito che tutto stava venendo giù, che non c’era nient’altro che io potessi fare… che avevo fallito. Torno all’albero di cocco. Stringo le gambe tra le braccia. Mi giro una sigaretta con del tabacco locale. Guardo fuori, sulla strada buia, guardo nell’oscurità.

Una prigione dimenticata.
Centinaia di uomini dimenticati.
Centinaia di uomini affamati.
Centinaia di uomini sull’orlo della pazzia.
Una giungla infestata dai versi di grilli, dal gracchiare delle rane tropicali, dal ritmo della luna.
È questa la scena, nel complesso.

Mezzanotte e mezza. Fuori, nel profondo dell’oscurità, brilla una luce. È l’Immigrazione, è il loro veicolo. Qualche minuto dopo portano Farhad via con loro. Sopravviverà?
Torno alla prigione con questa domanda che mi risuona nella mente…