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Intervista a Wolf Bukowski: “Caporalato e sfruttamento lavorativo tra i non luoghi del nuovo cibo globalizzato”

Photo credit: Valentina Nessenzia - Sherwood Foto (Roma, 16 dicembre 2017 - Fight/Rght - Diritti senza confini)

Dopo il brillante “La danza delle mozzarelle“, un altro libro di Wolf Bukowski, La “Santa crociata del porco” (sempre edito da Alegre nella collana Quinto Tipo diretta da Wu Ming 1), ci offre una riflessione a tutto tondo sulla centralità della produzione alimentare nello sviluppo capitalistico e su quello che quotidianamente mettiamo in tavola (insieme a molti altri significati culturali che assume il Sus scrofa domesticus).
Abbiamo proposto alcune domande a Wolf a partire dal dialogo del mese scorso con Yvan Sagnet, presidente dell’associazione NO Cap. Se entrambi ci restituiscono molto chiaramente quali sono i meccanismi dell’ipersfruttamento schiavistico delle campagne agricole, le risposte di Bukowski allargano l’orizzonte della necessità di sovvertire i rapporti di forza consolidati, andando oltre le buone pratiche del bravo consumatore.

Wolf, il cibo è oggi diventato una moda, uno status symbol di una società capitalista sempre più “all’ingrasso”. Ma quali sono le condizioni lavorative, dal nord al sud del Paese, dei lavoratori, nella quasi totalità migranti, che quel cibo lo producono e lo raccolgono?

Le condizioni sono quelle che da anni descrivete, in modo approfondito e meritorio, proprio su Melting Pot. Ma oggi la “condizione del bracciante” non è più un mistero, la stampa e il discorso mainstream l’hanno integrata nella propria narrazione, non c’è più bisogno di addentrarsi in Capitanata, nella piana di Gioia Tauro o tra vigneti piemontesi per scoprirla.
Il problema è piuttosto ciò che si vede quando la si guarda. Su questo la destra liberista e “compassionevole” (cioè il Pd) e i suoi giornali alimentano una vera e propria dissonanza cognitiva. Ti mostrano un lavoro schiavistico e ti dicono: “facciamolo cessare!”. Intanto alimentano legislativamente e con sgravi fiscali la meccanizzazione agricola integrale, anche dicendo esplicitamente che è la soluzione al caporalato (come dice Coop da anni, di recente anche Mutti). Così finisce che del “lavoro schiavistico” viene fatto cessare il lavoro, non lo schiavismo. Perché lo schiavismo è dato dal bisogno di reddito, e quello rimane; e anzi è acuito dalla riduzione delle occasioni di lavoro conseguenti alla meccanizzazione.

La GDO muove un mercato alimentare di miliardi di euro l’anno vendendo prodotti “sfruttati” senza prendere le necessarie misure per bloccare un circolo vizioso di sfruttamento, precarietà, lavoro sommerso e schiavitù. Spetterebbe al consumatore cambiare strategia per imporre alla GDO una politica diversa. Come? E l’unico attore di questo cambiamento resta solo ed esclusivamente il consumatore?

La GDO sta prendendo i suoi provvedimenti, proprio nel modo illustrato sopra, ovvero meccanizzando. Dobbiamo elevare il focus della nostra critica, portarla a livello sociale complessivo, guardando alla sottoproletarizzazione di massa alimentata dalla meccanizzazione. Ovvio che dobbiamo anche continuare a presidiare i campi: lì permarranno sacche di supersfruttamento, che vanno riconosciute come l’altra faccia della meccanizzazione (ancora meno posti di lavoro, ancora più concorrenza tra poveri eccetera). In tutto questo il “consumatore” non può praticamente nulla.
Stiamo parlando, quando parliamo di “consumatore”, di un consumatore benestante e acculturato e sensibile di un paese ricco. Una roba che a livello sistemico conta ben poco, e che solo la nostra prossimità esistenziale e di classe a quel consumatore ci spinge di sopravvalutare, come abbiamo fatto negli ultimi anni.
La “certificazione etica” dei prodotti poi per me è quasi offensiva: getta addosso al consumatore (che dovrebbe spendere di più, scegliendo il prodotto col “bollino etico”) quello che lo stato non fa, ovvero il controllare le condizioni di lavoro nei campi agricoli del proprio territorio. Lo stesso stato che è invece capacissimo di individuare e tormentare e punire, con precisione chirurgica, anche un ragazzo che fa una scritta su un muro, o un automobilista che piscia per strada.

Oscar Farinetti con la sua “macchina perfetta”, Eataly, ha creato il brand del cibo italiano che fa “fico“, tanto per riprendere il nome del nuovo parco agroalimentare bolognese che ha aperto i battenti in questi giorni. Che cosa nasconde Eataly dietro ai suoi sfavillanti stand?

La verità è che non nasconde nulla: è tutto visibile. I rapporti politici, i processi di gentrificazione, gli immobili concessi dalle amministrazioni con entusiasmo e partecipazione, i costi per il pubblico e per la società (e qui penso al Fico, generatore di traffico e di cemento…).
Il problema non è la particolarità di Farinetti, quanto piuttosto la normalità del fatto che si identifichino le concessioni alle imprese con il vantaggio pubblico. Nonostante decenni di esperienze dimostrino il contrario.

La politica del “bello” di Farinetti è sempre più messa in pratica anche a livello politico – istituzionale dall’alto, con la Minniti – Orlando, e dal basso con la “pulizia” delle città da migranti, transitanti, poveri, homeless e via dicendo. L’importante è mettere sotto il tappeto la povertà e presentare una città per ricchi e borghesi. Se da una parte esiste già una minima forma di organizzazione e di lotta nelle campagne, in particolare quella dei braccianti agricoli africani, come possono muoversi i migranti “cittadini” oggi e quali spazi di manovra hanno per portare avanti una lotta per i loro diritti e la loro dignità?

Con la perdita di posti di lavoro (per via della meccanizzazione agricola) le persone che prima trovavano reddito in campagna tornano in città. Dalle città quelle persone verranno poi nuovamente respinte, “daspate”, perseguitate; oppure tollerate solo nella misura in cui resteranno invisibili e disposte a tutto.
La soggettivazione politica, il farsi “classe per sé” della “classe in sé” degli espropriati, classe straordinariamente meticcia, è la grande questione di oggi. Sta avvenendo – magari nel sindacalismo di base, nella lotta per la casa? – o almeno ci sono le possibilità che avvenga nel prossimo futuro? Saremo capaci di intrecciarvi positivamente le istanze del nostro radicalismo politico? Saremo, insieme, in grado di fronteggiare il capitale e lo stato a esso asservito?
Se le risposte a queste domande saranno positive, abbiamo qualche possibilità di salvezza collettiva, che vuol poi dire che la parte migliore degli umani, quella più incolpevole, gli “ultimi del mondo”, avrà qualche chance contro il governo omicida del capitale. Altrimenti, in caso di vittoria incontrastata del capitale, ci saranno solo fascismo più o meno esplicito e guerre tra poveri.

Redazione

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Matteo De Checchi

Insegnante, attivo nella città di Bolzano con Bozen solidale e lo Spazio Autogestito 77. Autore di reportage sui ghetti del sud Italia.
Membro della redazione di Melting Pot Europa.