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Da Lampedusa a Ventimiglia migranti in viaggio in cerca di libertà

di Alessandra Ballerini

Sono 117, a volerli ridurre a numeri, i reclusi dell’hot spot di Lampedusa. Erano una quarantina di più il giorno prima, ma era un lunedì e, come tutti i lunedì – e i giovedì – qualche decina di loro (presi a caso) sono stati condotti sul volo per Palermo per poi essere rimpatriati. Il secondo aeromobile però questa volta non è decollato a causa di un provvidenziale guasto tecnico ed il suo umano carico è rimasto incredulo e felice a terra. Miracolosamente libero.

La ruota della fortuna sull’Isola gira in maniera bizzarra, sarà il vento che cambia e si rinforza. Saranno le preghiere di chi sull’isola tifa per i profughi o di chi non li vuole più tra i piedi. E cosi al momento della visita nell’hot spot di reclusi ce ne sono 40 di meno. Tra loro si mangia le mani un ragazzo tunisino che la fortuna aveva provato, senza successo, a forzarla. Dopo aver appreso sulla pelle di altri sventurati connazionali, nel corso delle precedenti settimane di “detenzione“, che i rimpatri forzati dall’isola avvengono con cadenza bisettimanale (il lunedì e il giovedì, vento permettendo), il mercoledì sera si era dato alla macchia, uscendo dal noto, quanto clandestino, buco della rete di recinzione del centro. Confidava così di scampare il respingimento verso il suo Paese, ignorando che la sorte, avrebbe concesso agli espellendi, al posto del rimpatrio, un’insperata libertà.

Chi sta rinchiuso nell’hot spot agogna uscire ed essere liberato non solo dalle grate del centro ma dalla prigione decisamente ben più capiente e inespugnabile che è l’isola stessa. Lampedusa ti accoglie ma se non hai i documenti necessari per salire su un aereo o su una barca che ti porti, come dicono i profughi “in Italia“, ti imprigiona. E non ci sono buchi dai quali sgattaiolare. Grate e mare, non se ne esce. Se non con un volo di rimpatrio. O con qualche colpo di fortuna. Il giovedì successivo tocca ad altri 21 profughi essere sottoposti al rimpatrio forzato, ma il maestrale non da tregua ed il volo viene rimandato. Restano a terra, ma sull’Isola-prigione. Più degli agenti atmosferici può, però, l’implacabile burocrazia: viene notificato loro un “foglio di via” vale a dire un ordine di lasciare l’isola (e l’Italia) entro sette giorni. Nel frattempo non avranno più diritto né allo scomodo giaciglio né al modesto cibo dell’hot spot. Come se dei profughi senza documenti e senza soldi potessero prendere un aereo o una nave se non scortati dalla polizia! Fosse così facile lo avrebbero già fatto! Qualcuno, nelle alte sfere, dopo pochi giorni, si avvede dell’abnormità dell’ordine e mette e disposizione un altro volo per Palermo. Liberi, anche loro. I più disperati, tra chi resta recluso, tentano di conquistarsela, la libertà, anche a rischio della vita. C’è chi si nasconde tra i rifiuti nei camion al porto, in attesa di essere caricati sulle navi per la Sicilia. Vengono recuperati per miracolo un attimo prima di soffocare o rimanere schiacciati, ma non si salvano dai commenti feroci di qualche passante esasperato che vomita insulti verso i migranti e chi li aiuta. E c’è chi invece ingoia lamette nella speranza che il rischio di un’emorragia interna gli faccia guadagnare il viaggio in Elisoccorso verso l’ospedale di Palermo. E poi si vedrà.

Sono 117 oggi nell’hot spot. Stanno tutti illegittimamente rinchiusi, alcuni da quasi due mesi. Li puoi incontrare anche sull’isola, questi evasi a metà, mentre girano discreti e guardinghi, affollano la chiesa di Don Carmelo, aiutano i pescatori in cambio di un po’ di pesce da arrostire “a la campagna“, e, nelle sere prima di Natale, cantano sotto le case dei lampedusani le canzoni insegnate da Maurizio e Irene per la novena natalizia. La ruota della fortuna girerà ancora ed in modi imprevedibili. Alcuni arriveranno fino a Ventimiglia per tentare di varcare un altro confine e guadagnarsi ancora un po’ di libertà. Forse dovranno provarci sei o sette volte affondando nella neve o rinchiusi nei portabagagli di qualche passeur. Sperando, come i gatti, di avere, in dotazione, almeno sette vite.