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Il tempo a Calais

di Linda Bergamo*

Photo credit: Samer Mustafa (tratta dal rapporto di Refugee Rights Data Project - Ottobre 2017)

Calais, gennaio 2018.

A Calais, nelle piccole “giungle” sorte in periferia, in questo periodo ci sono circa seicento persone, secondo le associazioni che distribuiscono il necessario per sopravvivere.

Sono quasi tutti uomini, adolescenti o giovani adulti che cercano di passare la frontiera durante la notte, chi gratuitamente, chi per mezzo di un passeur, un trafficante.
Sono per la maggior parte di origine afghana e di etnia pashtun, ma c’è anche un consistente gruppo di eritrei, etiopi e sudanesi, alcuni curdi, alcuni pakistani, qualche hazara e pochi egiziani. Molti di loro arrivano con i documenti dall’Italia in tasca.

Photo credit: Samer Mustafa (tratta dal rapporto di Refugee Rights Data Project - Ottobre 2017)
Photo credit: Samer Mustafa (tratta dal rapporto di Refugee Rights Data Project – Ottobre 2017)

Ci sono quattro posti principali dove i ragazzi si accampano per la notte, in mezzo a dei boschetti dove posano le loro tende e costruiscono qualche shelter, rifugi che vengono distrutti in media due volte a settimana dalla polizia e ricostruiti al più presto, non appena riescono a recuperare del nuovo materiale.

A Calais fa veramente freddo, piove spesso, anche diverse volte al giorno e c’è un vento che soffia fortissimo e che fa rovesciare i bagni chimici. In pochissimo tempo le zone si allagano, diventano terreni fangosi e scivolosi e questo rende tutto un po’ più complicato: dalle distribuzioni di cibo, vestiti e scarpe, all’accesso all’acqua fornito dallo stato con dei rubinetti mobili che arrivano per alcune ore al giorno, al fatto stesso di mangiare seduti per terra o su qualche masso di cemento lasciato in giro. Anche conservare il cibo non è semplice, servono sacchetti di plastica che lo isolino dalla pioggia, o chilometri di cellophan per conservare le barchette di carta riempite di riso e legumi da mangiare più tardi o da portare a chi non è riuscito ad arrivare in tempo.

Le distribuzioni si fanno tre volte al giorno e sono gestite da associazioni diverse, data la stagione invernale l’ultimo pasto serale viene consegnato tra le 16:30 e le 18:30, quindi la mattina tutti non vedono l’ora che arrivi la colazione. Una serie di associazioni francesi e inglesi gestiscono l’accesso ai servizi sanitari, o passando da una “giungla” all’altra con dei pulmini, oppure portando dei generatori di elettricità per ricaricare il telefono mentre un pulmino fornisce accesso al Wi-Fi. Un paio di spazi sono aperti in centro città dove i ragazzi possono svolgere attività proposte dalle associazioni o rimanere al caldo per qualche ora, avere un computer a disposizione o chiedere consigli di tipo giuridico/legale.

Photo credit: L'Auberge des Migrants
Photo credit: L’Auberge des Migrants

In questo periodo in cui il clima è particolarmente freddo e piovoso è stato istituito un piano di emergenza chiamato Plan Grand Froid che consiste in una struttura predisposta ad accogliere circa 150/200 persone nelle ore notturne, e che viene aperta solo in giornate particolarmente tempestose. I ragazzi si mettono in fila alle 17 in un punto designato dalle autorità e aspettano di essere imbarcati su un pullman che li porterà al dormitorio, sorvegliati da una squadra di CRS (Compagnie Républicaine de Sécurité, corpi di polizia speciali istituiti per il mantenimento dell’ordine pubblico).

Le associazioni si preoccupano di andare a prendere con dei pulmini coloro che dormono troppo lontano dal punto di ritrovo fino a quando i posti del centro sono esauriti. I ragazzi che hanno usufruito della struttura sembrano esserne abbastanza soddisfatti, si può dormire ma non ci sono docce, non è permesso loro di uscire né ricevere visite ed anche ai volontari è proibito entrare. Coloro che invece sono rimasti fuori per mancanza di posti letto lo raccontano delusi, seduti intorno a un fuoco alimentato a legna umida, plastica e tessuto, e chiedono spiegazioni sul perché ci siano così pochi posti per così tante persone; altri constatano che in realtà la struttura viene aperta in giorni non particolarmente freddi o piovosi e rimane chiusa quando ce n’è veramente bisogno.

Tuttavia c’è un ulteriore grave problema legato al Plan Grand Froid: nelle sere in cui le persone usufruiscono di questa possibilità e lasciano le loro tende o i loro rifugi, la polizia spesso interviene per smantellarli e al loro ritorno non trovano più nulla.

Per le donne e i bambini o i minori, considerati categorie particolarmente vulnerabili, sono in atto piani speciali di ospitalità in centri di accoglienza attrezzati per l’inverno. Nel mio periodo di presenza a Calais, ho incontrato una sola ragazza che dorme nella “giungla” con la sua comunità etiope e che continua a provare tutte le sere.

Photo credit: L’Auberge des Migrants
Photo credit: L’Auberge des Migrants

Violenze legittimate che non fanno più notizia

Le violenze della polizia, precisamente delle squadre di CRS, continuano. Più volte a settimana, nei diversi piccoli accampamenti a orari sempre diversi del giorno e della notte, una o più squadre arrivano e cominciano le operazioni di smantellamento dell’area con l’obiettivo di “evitare la creazione di un punto di fissazione”, cioè una nuova “Jungle”. L’operazione si svolge in modo più o meno violento, talvolta è concesso ai migranti di prendere i loro effetti personali, per esempio quando ci sono dei volontari a osservare e testimoniare sui fatti, altre volte per allontanare i ragazzi dalle tende gli agenti fanno ampio uso di gas lacrimogeno e violenza fisica.

Una parte delle strutture più ingombranti vengono caricate su un camion del Comune che le porta in discarica, i sacchi a pelo e gli oggetti come le pentole e gli zaini vengono gettati nelle grandi pozzanghere direttamente dagli agenti di polizia, sotto gli occhi disperati e incazzati dei migranti che, impotenti, vedono rastrellare tutte le loro cose. Non di rado la polizia confisca i telefoni cellulari che trova nelle tende e perfino i documenti vengono presi e usati come ricatto. La maggior parte dei documenti trovati sono rilasciati in Italia e consistono in permessi di soggiorno, (in particolare di protezione sussidiaria), passaporti, carte d’identità o tessere sanitarie. Il migrante li potrà riavere solo all’ufficio di polizia aeroportuale dopo aver mostrato alla prefettura di aver acquistato, a sue spese, un biglietto dell’aereo per un qualsiasi aeroporto italiano.

Photo credit: L’Auberge des Migrants
Photo credit: L’Auberge des Migrants

Il tempo a Calais è, come spesso ci viene raccontato non-vita; è un periodo di transizione in cui devi stringere i denti e sperare di farcela, pregare e sopportare gli abusi ed i soprusi delle circostanze. Nelle ultime quattro settimane ci sono stati tre morti sull’autostrada che passa nella periferia di Calais, tre giovani ragazzi vittime dell’imprudenza ma anche dell’indifferenza e dell’irresponsabilità dei conducenti di quei veicoli che non si sono fermati e sono scappati dopo aver investito una persona. L’ultima vittima della frontiera c’è stata martedì 9 gennaio. Ogni volta che, come dicono gli attivisti calaisiani “la frontiera uccide” le associazioni organizzano degli assembramenti in una piazzetta per ricordare, celebrare e riunire gli amici e per dare loro un messaggio di solidarietà.

Il tempo a Calais, per chi sceglie di non far finta che queste persone esistono e hanno anche loro dei sogni e dei diritti, è scandito dagli orari delle distribuzioni, dalle riunioni di coordinamento, dalle storie delle persone, dai progetti, dalle mille lingue diverse, dalle tensioni, le risse e le feste organizzate insieme. È un tempo pesante, ritmico, senza domeniche o giorni festivi, è un tempo politico di voglia di cambiamento, di tutti quei militanti e volontari che con il loro lavoro buttano giù, metaforicamente, quel lungo muro coperto di filo spinato che ti accoglie quando arrivi. Questa è una istantanea del mio tempo passato a Calais.

Linda Bergamo

Una grande passione per l’Afghanistan mi ha portato a far parte dell'Associazione Cisda ONLUS in sostegno alla Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (RAWA).
In parallelo a un Dottorato di ricerca all’Università di Grenoble, lavoro come operatrice sociale con le vittime di tratta degli esseri umani per sfruttamento sessuale.