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Perché la nave di Proactiva è stata dissequestrata Giudice: «In Libia non esistono ancora porti sicuri»

Simone Olivelli, MeridioNews - 16 aprile 2018

Indipendentemente dall’esistenza di una propria zona Sar e dell’impegno dell’Italia a formare il corpo della guardia costiera libica, il paese nordafricano al momento non ha le condizioni minime per ospitare alcun place of safety (Pos). È questo il passaggio più importante del decreto con cui il gip del tribunale di Ragusa, Giovanni Giampiccolo, ha rigettato la richiesta di conferma del sequestro della nave della ong spagnola Proactiva, avanzata dal capo della procura Fabio D’Anna e dal pm Santo Fornasier. Il giudice per le indagini preliminari si è pronunciato dopo che le carte dell’inchiesta sono state trasferite da Catania al capoluogo ibleo, in seguito alla caduta dell’accusa di associazione a delinquere, sostenuta dai magistrati etnei in seguito ai fatti accaduti il 16 marzo nel Mediterraneo. Quando la nave operò il salvataggio di oltre duecento migranti, che si trovavano su un gommone conteso con il personale della Libyan Navy Coast Guard.

«Le operazioni di soccorso non si esauriscono nel mero recupero in mare dei migranti, ma devono completarsi e concludersi con lo sbarco in un luogo sicuro, come previsto dalla convenzione Sar siglata ad Amburgo nel 1979», scrive il gip. Per poi chiarire che, in base a una risoluzione adottata nel 2004 dal Comitato marittimo per la sicurezza, per luogo sicuro si deve intendere un posto dove la vita delle persona non è più minacciata. Ciò non può essere detto dalla Libia. «A fronte delle informazioni attualmente disponibili, che indicano ancora la Libia come luogo in cui avvengono gravi violazioni dei diritti umani, con persone trattenute in strutture di detenzione in condizioni di sovraffollamento, senza accesso a cure mediche e a un’adeguata alimentazione, e sottoposte a maltrattamenti, stupri e lavori forzati – sottolinea Giampiccolo – non si ha prova che si sia pervenuti in Libia o in porzioni del suo territorio a un assetto accettabile di protezione dei migranti soccorsi in mare».

Tali considerazioni acquisiscono un’importanza tale da fare passare in secondo piano il fatto che nell’operato dell’ong ci siano stati passaggi che, secondo il gip, vanno interpretati come «una disobbedienza alle direttive impartite dalle autorità preposte al coordinamento dei soccorsi». Nella propria ricostruzione il giudice evidenzia che, a suo dire, l’ong ha portato a termine le operazioni di soccorso, nonostante gli fosse stato comunicato dalla centrale operativa della guardia costiera italiana che i libici avevano assunto il controllo dell’intervento. La guardia costiera italiana a sua volta era stata avvertita dalla nave Capri della Marina militare italiana, che nell’ambito dell’operazione Nauras gestisce i rapporti con le autorità marittime nordafricane.

Secondo il gip, di elementi per decretare il sequestro della Open Arms non ce ne sarebbero neanche in ciò che è accaduto dopo. Ovvero quando la nave si è avvicinata alle coste maltesi. La piccola isola a sud della Sicilia entra in gioco in questa storia nel momento in cui il personale della ong capisce di avere l’esigenza di sbarcare con urgenza una neonata in gravi condizioni di salute. Le autorità maltesi – solitamente non disposte ad accogliere migranti – accettano di prendersi carico della piccola e della madre, inviando sul posto una proprio motovedetta per il trasbordo. A quel punto, messa in sicurezza la bambina, il comandante della nave Marc Reig Creus – indagato insieme alla capa missione Ana Isabel Montes Mier – decide, senza chiedere ospitalità a Malta, di proseguire verso la Sicilia, ottenendo dalla guardia costiera italiana l’ok all’approdo nel porto di Pozzallo. Per i magistrati etnei guidati da Carmelo Zuccaro, dietro questa decisione ci sarebbe stata la chiara volontà di favorire l’ingresso dei migranti nel nostro Paese, mentre per i legali dell’organizzazione non governativa la scelta deriverebbe soltanto dall’esperienza maturata nel tempo.

Dal canto suo, il gip di Ragusa da un lato afferma che il fatto che Malta non abbia mai avuto un ruolo da protagonista nell’accoglienza, non «non comporta che, in ogni caso concreto, si possa configurare un automatico e implicito rifiuto di aiuto», sottintendendo di fatto che Proactiva avrebbe potuto tentare un approccio. Dall’altro ammette che esistono elementi di incertezza che rendono difficile l’individuazione del dolo. Tra essi Giampiccolo elenca la mancata ratifica degli emendamenti alle convenzioni Sar e Solas, che disciplinano la materia in merito all’individuazione dei place of safety, ma anche la consapevolezza da parte delle stesse autorità italiane – a partire dalla guardia costiera italiana – che La Valletta fino a oggi non è mai stata un reale partner nella gestione dei flussi migratori.