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Egitto, le politiche di Al Sisi ed i minori che se ne vanno

I Minori Stranieri Non Accompagnati egiziani sono sempre di più

L’Egitto a livello mondiale riveste un ruolo assai importante.

A livello economico è un rilevante esportatore di oro, petrolio grezzo e petrolio raffinato.

Nel 2015 è stato scoperto il giacimento di gas naturale di Zohr, il più grande al mondo. Trattasi di 850 miliardi di metri cubi di gas.

l beneficiari principali dell’export egiziano sono Arabia Saudita, Italia e Turchia.
Quelli dell’import – invece – Cina, Germania e Usa.

Emerge quindi una situazione dove il dittatore Al Sisi, sta con un piede da una parte del mondo, cioè quello occidentale, dall’altra in quello orientale. Se cade, cade in piedi.

Anche perché, nonostante filtrino voci di tensioni con il presidente turco Erdogan, questo non intacca gli scambi commerciali che intrattiene con le potenze mondiali più importanti:

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A livello di politica internazionale, è uno snodo fondamentale per il fenomeno migratorio.

Infatti, i flussi migratori transitano anche dall’Egitto 1 ed il generale, al pari di Erdogan, può facilmente ricattare l’Europa.

In Libia, Al Sisi riconosce al pari della comunità internazionale il governo di Serraj. Ma appoggia finanziariamente Haftar, nemico giurato degli islamisti ed aiutato dall’Arabia Saudita (alleato fedele del faraone). L’Egitto quindi ammicca a destra e a sinistra, evitando così di cadere per terra e tenendo ben salda l’opportunità di ricattare Bruxelles.

L’Italia, in questo contesto, ha firmato i Migration Compact per tamponare i flussi migratori provenienti dall’Africa sub-Sahariana. E, per bloccare le frontiere, ha stipulato un accordo con la Libia.

E’ proprio in questo scenario che Al Sisi gioca un ruolo chiave al pari di Erdogan. La Turchia ricatta l’Europa e lo testimonia l’accordo del 2016: sei miliardi di euro versati da Bruxelles per tenere le porte chiuse in un trattato definito da Amnesty International “come una vergognosa macchia sulla coscienza collettiva dell’Europa“. L’Egitto fa leva, invece, su:

1. essere tappo tra Africa ed Europa e minacciare, nel caso di interferenze all’interno della politica locale, di stappare la bottiglia.

2. potenziale possibilità di rendere l’immigrazione incontrollata, facendo presa sulla psicosi ingiustificata che si propaga tra cittadini e Stati UE.

3. essendo molto inserito e presente nell’ingarbugliata situazione libica ed avendone un peso specifico non indifferente, utilizza questa situazione come estorsione: se l’Europa, ed in particolare l’Italia, interferiscono troppo, verranno aperte le carceri e messi in moto i gommoni.

A livello di politica interna, dopo la rivoluzione del 2011, il suo insediamento è avvenuto con un colpo di Stato militare il 3 luglio 2013.

Ha destituito il Presidente islamista Morsi eletto con libere elezioni ed ha iniziato una pseudo legittimazione dei propri poteri, avvenuta in tre step. Questo processo post golpe è stato finanziato dagli Emirati Arabi Uniti e dall’Arabia Saudita senza che né l’UE né le potenze occidentali denunciassero la situazione.

Primo passo: 14-15 Gennaio 2014, approvazione della Costituzione.

Secondo passo: Giugno 2014, elezioni per il nuovo Presidente della Repubblica.

L’affluenza è bassissima (47%) ma i numeri dei cittadini che si sono recati alle urne non sono precisi perché c’è l’ombra di dati affluenza gonfiati: i Fratelli musulmani vengono isolati, l’allora Presidente USA annuncia che le relazioni “sono ancorate agli interessi sulla sicurezza, dal trattato di pace con Israele, agli sforzi comuni contro l’estremismo violento” e di fatto spiana la strada ad un governo illegittimo.

Risultato: Al Sisi vince col 96,91%, lo sfidante Sabahi si ferma al 3,09%.

Terzo passo: elezioni parlamentari, caldeggiate dalla politica internazionale ma, di fatto, non controllate nel periodo pre-elettorale.

Succede quindi che: il partito politico dei Fratelli musulmani è bandito, dichiarato gruppo terroristico e molti dei suoi membri vengono imprigionati. L’Occidente tace con un silenzio-assenso. I socialisti e liberali, unici possibili avversari, si ritirano sotto pressioni fisiche e psicologiche.

Risultato? Neanche a dirlo, Al Sisi non ha avversari e conquista il Parlamento.

Arriviamo ai giorni nostri con il successivo passo, quello delle Presidenziali 2018.

Si va al voto in uno scenario di repressione durissima, dove i possibili avversari politici vengono spazzati via. Sami Hanan, a gennaio, viene rinchiuso in prigione. Ahmed Anwar Sadat viene minacciato e si ritira dalla corsa dopo le minacce accorse alla sua famiglia. Ad Ahmed Konsova viene appioppata la fandonia di tradimento militare e così spedito in cella. Ahmed Shafiq annuncia dall’estero la sua candidatura: sarà rimpatriato e chiuso in un hotel del Cairo. Presumibilmente torturato decide di ritirarsi dalle elezioni. Infine Khaled Ali, la figura più interessante e limpida delle elezioni egiziane, noto attivista dei diritti umani: più volte arrestato e fermato dalla polizia, a seguito di gravi minacce abbandona.

Il contesto che riguarda la gente comune è parimenti repressivo e violento: chi non va a votare viene multato 500 sterline egiziane e rischia il carcere. Per i pensionati che boicottano la tornata elettorale, invece, blocco totale delle pensioni a tempo indeterminato. In tutto il Paese, ma specialmente nelle periferie delle grandi città, oltre le minacce, si aggiungono fantomatici impegni.
Un voto viene comprato in cambio di pochi sussidi alimentari e la promessa di un viaggio alla Mecca. Nelle parti più periferiche delle metropoli, invece, il voto viene comprato per 3$ (3$ equivalgono a 0,14€ e rende appieno l’immagine di quanto l’Egitto sia in una situazione socio-economica non solo precaria, ma tremendamente critica). Le persone che si vendono per 14 centesimi di euro fanno capire quanto la povertà e la fame, al netto delle parole del suo dittatore, si stiano spargendo senza soluzione di continuità. Colpa di politiche scellerate di un governo che si concentra in modo paranoico sull’apparato militare, incapace di produrre politiche di welfare, assistenza ed aiuto ai bisognosi.

L’unico avversario è un fantoccio, Moussa Mustafa Moussa, peraltro grande sostenitore dell’attuale Presidente.
Una situazione talmente ridicola che però non fa ridere per niente. La corsa elettorale architettata è degna dei più famosi dittatori psicopatici: si gioca tra Abdel Fattah al Sisi ed al Sisi Abdel Fattah.

Risultato: vince Al Sisi col 97,11 % dei voti. Le briciole al suo fedele sostenitore Moussa (2,89%).

Ma non è tutto oro ciò che luccica: il plebiscito annunciato del faraone ha delle ombre. Nonostante le pressioni tremende, le violenze e le compere, i voti per il Presidente calano sensibilmente.
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Nonostante un contesto duro e fortemente repressivo, una parte consistente del popolo egiziano ha scelto l’astensionismo per delegittimare l’operato e le ambizioni di onnipotenza di Al Sisi.

Alle elezioni dello scorso marzo chi ha deciso di non votare è la maggioranza del paese: il 58,5% contro un’affluenza del 41,5%.
Un messaggio che ha il sapore della sfiducia.

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La parte più considerevole di astenuti è rappresentata dai giovani egiziani, ormai non più ancorati all’ideale di Piazza Tahrir, ma disillusi e stanchi di vivere nel limbo della povertà e della disoccupazione. E’ un desiderio di respirare una nuova aria, oltre la cappa della dittatura.

Emerge, perciò, che Al Sisi sta perdendo consensi. Già a giugno 2017, con la cessione delle isole di Tiran e Sanafir, aveva generato sgomento e rabbia, ferendo nell’orgoglio la pancia del popolo.
Con le elezioni alcuni dati sono apparsi emblematici della situazione. Il voto, ad esempio, per il calciatore del Liverpool, Mohammed Salah, che ne ha presi un milione, non va letto come una forma di stupidaggine bensì un piccolo atto di protesta non troppo velato.

Nonostante questi segnali il dittatore è saldo al potere. Ma se non barcolla, quantomeno scricchiola. E in un contesto di grave crisi dei diritti umani, con gli apparati militari che fanno della tortura una prassi normale, e dove avvengono centinaia di sparizioni forzate e innumerevoli processi farsa con conseguenti condanne a morte, non è poco.

Perfino le ONG sono perseguitate e messe al bando: ne è prova la legge firmata il 30 maggio 2017 dal Presidente, che ha di fatto portato all’annientamento delle Organizzazioni Non Governative. La legge prevede il congelamento dei beni e la restrizione della mobilità per molti suoi esponenti.

Le forze di sicurezza hanno continuato ad arrestare centinaia di persone sulla base della loro appartenenza, reale o presunta, ai Fratelli musulmani, rastrellandoli e prelevandoli dalle loro abitazioni o dal luogo di lavoro o, in un caso, anche dalla località di vacanza. Le autorità hanno fatto ricorso a lunghi periodi di detenzione cautelare, spesso anche per più di due anni, come metodo per punire i dissidenti. A ottobre, un giudice ha rinnovato il provvedimento di detenzione cautelare nei confronti del difensore dei diritti umani Hisham Gaafar, nonostante questi fosse già rimasto detenuto oltre il limite massimo di due anni previsto dalla legislazione egiziana. Il fotoreporter Mahmoud Abu Zeid, conosciuto come Shawkan, all’apertura del processo a suo carico, ad agosto 2015, aveva già trascorso due anni in custodia cautelare. È rimasto in detenzione per tutto il 2017, così come i suoi 738 coimputati, mentre proseguivano le udienze del loro processo. Al loro rilascio, spesso gli attivisti politici erano tenuti a rimanere fino a 12 ore al giorno in libertà vigilata presso il commissariato di polizia locale, una misura equiparabile alla privazione della libertà, si legge nel rapporto annuale di Amnesty International del 2017-2018.

Questo è il contesto dell’Egitto e di chi vive, male, nel suo Paese.

Al Sisi e l’Italia

I rapporti dell’Italia con l’Egitto sono stati, sono e probabilmente rimarranno buoni.

Nonostante crisi diplomatiche più fittizie che reali, i due Paesi sono collegati da un filo non troppo invisibile di rapporti commerciali fiorenti e remunerativi.

Ma non solo da questo: il tema dell’immigrazione, infatti, è centrale tra le due nazioni. E lo è soprattutto dopo l’ “Accordo di cooperazione fra il Governo della Repubblica Italiana e il Governo della Repubblica Araba di Egitto in Materia di Riammissione“, vero spartiacque della migrazione egiziana in Europa ed in Italia.

L’accordo, stipulato nel 2007 e firmato dall’Italia il 9 gennaio, prevedeva che:

Ciascuna Parte Contraente riammette, su richiesta scritta dell’altra Parte Contraente, i propri cittadini che non soddisfino i requisiti stabiliti dalla legislazione sull’immigrazione in vigore in ciascuna Parte Contraente, a condizione che sia dimostrato o si possa ragionevolmente presumere, conformemente con l’articolo 4 del presente Accordo, che sono cittadini della Parte Richiesta” (art.2.1.).

In sostanza, gli egiziani venivano rispediti nel loro paese di origine dopo aver risposto, entro 7 giorni, alla “domanda di riammissione“. L’iter quindi prevedeva per la Parte Richiesta (egiziani presenti in Italia): 7 giorni per rispondere alla convocazione per la riammissione più 21 giorni lavorativi per ritornare. 28 giorni, un mese circa conteggiando i festivi, per fare i bagagli e sparire dal territorio italiano.

– “La parte richiesta rilascerà senza indugio i documenti di viaggio necessari per il ritorno delle persone la cui riammissione è stata accettata conformemente all’Articolo 2.1. di questo Accordo” (art. 2.2.).

Il “senza indugio” evidenzia un non troppo velato tono minaccioso verso tutti gli egiziani che si vogliono far rientrare.

– Il ritorno della Parte Richiesta avverrà tramite “linee aeree civili” (art.5)

L’accordo ha avuto effetto immediato: “nel 2008 sono stati effettuati 38 voli charter che hanno consentito di rimpatriare 1.199 stranieri2

Ma la portata dell’accordo, oltre ad avere una prassi che sembra poco regolare, oltre ad aver forzato per il rimpatrio di egiziani con un iter affrettato, ha avuto un peso specifico soprattutto negli anni successivi fino ai giorni nostri.

Infatti, rimpatriare i maggiorenni appena sbarcati in Italia ha fatto sì che aumentasse il numero delle partenze di minori poichè il rischio di rimpatrio diminuisce considerato il supremo e sacrosanto interesse del fanciullo.
L’accordo ha progressivamente portato a ridurre ulteriormente l’età dei minori che abbandono il paese: non partono solamente i ragazzini che sono a ridosso della maggiore età e che potrebbero essere identificati sommariamente come maggiorenni, quindi con il rischio di essere rimandati indietro.
Bensì ha fatto muovere quella fascia di popolazione cui è chiaramente visibile il proprio “status” di minorenne: partono i bambini.

L’accordo del 2007 ha, di fatto, chiuso le porte agli uomini ed alle donne ed ha invece spalancato i portoni ai bambini, futuri Minori Stranieri Non Accompagnati.

E’ per questo che l’intesa del 2007 tra Italia ed Egitto è un punto chiave, uno snodo fondamentale. Perché la composizione anagrafica dei flussi migratori non deriva soltanto da guerre e calamità naturali. Ma deriva anche da accordi bilaterali cui le conseguenze si protraggono e manifestano negli anni a venire.

Il bambino egiziano che attraversa il Mediterraneo e arriva in Italia ha dietro di sé l’aspettativa pressante di un intero nucleo familiare ridotto alla fame e senza possibilità di sbocchi lavorativi. Cosicché è costretto a partire il minore della fascia medio-bassa della popolazione.

Con il peso di queste molteplici aspettative sulle spalle, la prima e massima aspirazione del ragazzino egiziano che giunge in Italia è quella di lavorare: non gli interessa il sistema di protezione nazionale, non gli interessano attività ricreative e laboratori, non gli interessa l’apprendimento della lingua italiana tramite la scuola.

Gli importa di trovare lavoro. Ha un obiettivo fisso: lavorare per mandare i soldi a casa, far respirare la famiglia. Rendere la sanità e l’istruzione accessibili. A casa c’è qualcuno che sicuramente camperà di quei soldi.

Joint Italian Arab Chamber of Commerce evidenziava che, “in Egitto, da novembre 2016 a maggio 2017 le rimesse sono state di 11 miliardi di dollari, in crescita dai 9,9 miliardi di dollari nel corrispondente periodo di un anno prima“.

Accade così che il Minore Straniero Non Accompagnato egiziano scappa immediatamente dal sistema di protezione e si mette a fare il manovale, il muratore, sfruttando gli agganci dei connazionali che lavorano nel Nord Italia.
Entra nel circuito malato dello sfruttamento minorile.

Nel caso, invece, in cui non abbia appigli, il rischio è quello di farsi sedurre dal guadagno “facile” e d’inserirsi nella miro-criminalità o nel mondo dello spaccio della droga.

La comunità egiziana presente in Italia è in forte crescita.

Nel 2016 erano presenti 143.232 egiziani nel nostro territorio, di cui il 69,3% uomini ed il 30,7% invece donne. I MSNA, ed è qui il dato allarmante, erano 2.807.

Il settore di attività economica dove si riversano gli egiziani sono maggiormente la ristorazione e l’alberghiero, i servizi alle imprese, i trasporti e quello edile.

Le maggiori aree di insediamento sono Lombardia (67%), Lazio (14,4%) e Piemonte (6,1%).

I dati maggiormente da evidenziare sono:

– alta percentuale dei MSNA;

– distribuzione territoriale disomogenea: otto su dieci risiedono al Nord;

– la grande maggioranza è di sesso maschile;

– età media inferiore (28 anni) rispetto alle altre comunità non comunitarie;

Al 2017, invece, erano 137.668 i presenti (- 5.564 rispetto al 2016).

Per quanto riguarda i residenti egiziani in Italia è da notare come, una volta insediatosi Al Sisi, c’è un sostanziale aumento.

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I residenti in Italia, per Regioni:

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Aumenta ancora la componente dei Minori Stranieri Non Accompagnati, rappresentante il 32,6% del totale.

Nei centri di accoglienza, nonostante in molti si diano alla macchia, il minore egiziano rappresenta il 10,4% del totale (prima rappresentanza).

Nel 2016, dei 6.561 MSNA divenuti irreperibili, il 23% è egiziano. Precisamente sono 1.468 i ragazzini dell’Egitto spariti nel nulla, e rappresentano proprio la prima nazionalità nella graduatoria dei paesi di origine dei MSNA.

Nel 2017, invece, dei 5.226 di cui si è persa traccia, gli egiziani erano 1.045 (20% e prima comunità).

Emerge quindi un dato evidente: gli egiziani sono la comunità MSNA più presente in Italia.

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Al 1 Gennaio 2017, i minori di origine egiziana presenti in Italia erano 44.880 e, all’interno del sistema scolastico 2016/2017, i frequentanti risultavano 19.925.

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24.955 minorenni egiziani nel 2016/2017 non erano seduti sui banchi di scuola.

Probabilmente, molti erano tra Roma e Milano, dove risulta la più alta incidenza di imprese egiziane (62%): vengono assoldati nelle aree dove i connazionali sono più dediti. Quindi ristoranti e cantieri.

A quindici, sedici anni, diventano manovali e muratori, camerieri e lavapiatti. Oppure facchini e braccianti agricoli. Sottopagati e spremuti come limoni. Siano i datori connazionali o siano italiani, il risultato è lo stesso e si chiama sfruttamento.

Oppure molti s’infilano, per poi rimanerne impelagati, nel mondo dello spaccio di stupefacenti: nella capitale in alcuni quartieri la manovalanza è interamente nelle mani di gambiani, senegalesi ed, appunto, egiziani. Costano poco e richiedono minori percentuali sul guadagnano totale. Costano meno degli italiani, in sostanza.

Il minore straniero non accompagnato egiziano difficilmente può giocare col Super Santos.
Anzi, al minore straniero non accompagnato non è concesso di giocare col Super Santos. Non può calciare un pallone.

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E’ rinchiuso in una prigione nemmeno velatamente e lontanamente dorata.
C’è davvero poco di positivo in quel che vivono.
Disertano la scuola, lavorano come schiavi, spacciano.
E’ facile, per loro, finire male.
Il diritto al gioco è sacrosanto: per loro non esiste.

Diventano perni della famiglia che rimane in Egitto, si sostituiscono troppo presto al ruolo del padre. Sono compressi dentro un frullatore che, prima o poi, andrà in cortocircuito e scoppierà.

Sono i figli di uno Stato che non c’è e che non vuole prendersi cura né del loro presente né del loro futuro.

L’Egitto è rinchiuso nella paranoica e ristretta visione del suo dittatore. Una classe media che scivola rapidamente verso la povertà e i poveri che entrano nel limbo maledetto della miseria.
Il rafforzamento delle politiche militari e di controllo all’interno del territorio ha portato all’indebolimento del welfare ed a una disoccupazione aumentata vertiginosamente dopo il 2010.
I macroscopici errori ed orrori del regime a livello economico e politico hanno colpito più di ogni altro i giovani, feriti più di tutti dalla piaga della disoccupazione.

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Chi paga sono i giovani (15-24 anni) che da disoccupati sono costretti quindi ad emigrare. Talvolta anche contro la proprio volontà, catapultati in Italia dalle pressioni del nucleo familiare.

Proprio l’accordo del 2007 ha fatto sì che le famiglie spingessero i minorenni a tentare la fortuna in Europa, viste le difficoltà incontrate dal “maschio adulto“.
I nodi che vengono al pettine, metaforicamente parlando. Se non possono partire i padri, partono i figli. Perché talvolta la situazione è davvero insostenibile e mancano i beni di prima necessità.

L’Egitto lontano dagli antichi splendori è costretto a vendere le mutande (vedi isole di Tiran e Sanafir) per perseguire le proprie folli politiche interne con un debito pubblico che aumenta in maniera vertiginosa durante il governo AlSisi.

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Questo è l’Egitto del dittatore Al Sisi.

Repressione, torture, carcere, processi farsa, assenza di welfare e opportunità.
Un sistema completamente farlocco, dove tra tante vittime spiccano quelle dei minorenni egiziani, pronti a diventare futuri MSNA in Italia.

Un quadro sociale ed economico degno della Guernica di Picasso.

Mi fermo, metto i gomiti sul tavolo e strofino gli occhi.
Sono le tre di notte e mi torna in mente la chiacchierata con A., alcune settimane fa, in un bar della città. La sua reticenza nel parlare, spaventato dagli occhi invisibili della dittatura perfino qui, in Italia. Come fosse un’ombra che lo segue ovunque vada.
Posatezza nel parlare, silenzi assensi, giustificati da una paura che ti segue ovunque.
Mi raccontava della sua partenza nel cuore del 2013, quando la sua famiglia aveva fiutato come un cane da tartufi l’evolversi degli eventi di lì a breve. Aveva intuito di come tutto sarebbe cambiato per non cambiare niente. Oppure di come tutto sarebbe cambiato, ma in peggio.
Mi raccontava di come mancava dal suo Paese da cinque anni, di come il pensiero di tornare era sì un progetto, ma un progetto chiamato sogno.
Ma lui era un fortunato, mi ripeteva di continuo.
Lavorava come cameriere in un ristorante, aveva una stanza dove dormire, soldi (pochi) da mandare alla famiglia.
Era un fortunato perchè i suoi amici, spostatisi nel Nord, facevano lavori molto più sfiancanti con turnazioni molto più dure da sostenere.
Mi raccontava di come con alcuni connazionali aveva perso i contatti, presumibilmente risucchiati nel vortice dello spaccio settentrionale.
“Io sono fortunato” mi ripeteva alla fine di ogni frase. Un rafforzativo ben preciso che indicava la situazione che invece vivono lì in Egitto.
L’eco della repressione ha un suono lontano, si propaga come onde elettromagnetiche, scavalcando muri e confini. Salpando le onde del mare e arrampicandosi lungo le montagne più alte.
Poi mi viene in mente mio fratello, le sue notti turche.
Le nostre video-chiamate frettolose ma cariche di una grande tensione emotiva.
La mia preoccupazione costante e quotidiana che culminava con il sospiro di sollievo nel sentirlo alla sera.
Ogni giorno lo stesso ticchettio di orologio, lo scandire del tempo diviso non da mattina e sera, ma da ansia e sollievo.
All’epoca non capivo tante cose, probabilmente.
Scambiavo la sua voce squillante con spregiudicatezza. Adesso so che non era quello. So che l’aver visto tanti drammi, tanti ragazzini accartocciati e cestinati dai vari accordi internazionali, l’avevano reso come impermeabile dal rischio che correva.
Quando vedi tanto dolore, capisci che il tuo è nullo e vale la pena lottare per i bambini.
Adesso capisco meglio quando mi ripeteva, di continuo, quasi ossessivamente, “assomigliano a te, mi ricordano te da piccolo, uguali, credimi!!!”
Capisco che non parlava solo di aspetto fisico. I ragazzini mediorientali sono molto simili ai meridionali italiani: scuri di carnagione, occhi grandi, zigomi alti, capelli neri come la pece.
Ma era un di più, non solo questo.
Vedeva in loro la somiglianza a me da piccolo perché siamo tutti uguali, ma diversi nella fortuna. Proiettare il mio viso in quei volti era un modo per esplicitare un desiderio. Il desiderio di veder esplodere come fuochi d’artificio i diritti dei bambini.
Io fisicamente ero uguale ai ragazzini siriani rinchiusi nelle industrie tessili.
Una somiglianza davvero molto forte. Ma solo ed esclusivamente fisica.
Perchè io sono stato fortunato, ho potuto giocare. Dormire in un letto con le coperte calde. Giocare a pallone e sfrecciare lungo le piste d’atletica. Ho potuto permettermi il lusso di studiare. Di avere come normalità il nucleo familiare riunito per il pranzo e per la cena.
Loro no. I minori siriani, come molti minorenni egiziani, come chissà quanti altri ragazzini sparsi in Italia e nel mondo, non hanno questo sacrosanto diritto.
Non hanno il diritto allo studio ed al gioco.
Hanno il dovere al lavoro.
Ed è un mondo al rovescio, abbandonato a se stesso, un mondo che permette tutto questo
.”


Fonti utilizzate: Comuni Italiani, Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Index Mundi, Melting Pot

  1. http://esodi.mediciperidirittiumani.org/
  2. Melting Pot Europa, http://www.meltingpot.org/Italia-Egitto-Accordi-di-riammissione-e-divieti-di.html
    http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/egitto-sisi-presidenziali-elezioni-astensionismo-01d11b82-22c3-4922-997e-677d5b0a19eb.html

Pietro Giovanni Panico

Consulente legale specializzato in protezione internazionale ed expert prevenzione sfruttamento lavorativo. Freelance con inchieste sui MSNA, rotte migratorie, accordi illegittimi tra Paesi europei ed extra UE e traffici di armi.
Nel 2022 ho vinto il "Premio giornalistico nazionale Marco Toresini" con l'inchiesta "La guerra dei portuali genovesi contro le armi saudite".