Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Il razzismo prima del razzismo. Con Soumaila nel cuore

Il foto racconto di Vanna D’Ambrosio della manifestazione di Roma

Foto di Vanna D'Ambrosio

Senza mezza misure, lo esprimevano chiaramente, alla manifestazione nazionale contro le disuguaglianza promossa dall’USB: “non è la razza che ci divide ma la classe sociale. Il nemico non è l’immigrato ma il capitale“.

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Le persone, quasi ventimila secondo gli organizzatori, scese in piazza a Roma, avevano soltanto due cose in comune: il lavoro e le difficoltà legate al lavoro. Né bianchi né neri, #primaglisfruttati, delle nuove forme di schiavitù e di assoggettamento, di lavori servili, svolti per effetto di estorsione o per minaccia di una punizione; del lavoro forzato – “niente contratto; per giunta occorre intimidire; dunque l’oppressione si palesa” – #primaglisfruttati del secolare caporalato, del lavoro sommerso, del lavoro grigio, del lavoro nero e delle loro prassi disumanizzanti.

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Uniti, lavoratori e lavoratrici della penisola, per denunciare, di nuovo, i ripetuti meccanismi di sfruttamento ingaggiati per la competitività sul mercato e dissentire dalle manovre finanziarie che creano sottogruppi di cittadini, ricchi, poveri ed immigrati, a cui sono garantiti impari opportunità e diritti ineguali per una libertà “accettata come somma dei privilegi ereditati insieme al titolo e alla terra“.
Un corteo meticcio, a raccolta contro il razzismo, per rivelare che esso non è scientifico, ma “creato, mantenuto e rafforzato in quanto arma politica e non come teoria” che impoverisce l’inclusione ed accorda de jure l’umanità ad una parte selezionata di abitanti.

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Uniti a Soumaila Sacko, non solo un bracciante della grande distribuzione del cibo, ma un occupato in maniera “para-schiavistica” nel settore agro-alimentare, vittima di un bene comune, l’alimentazione, che è espropriazioni illecita di terreni, usura, racket estorsivo, macellazioni clandestine e danneggiamento delle colture, capitale speculativo.
Denutriti, malati, se ancora resistono la paura, finirà l’opera: si puntano sul contadino fucili; vengono civili che si stabiliscono sulla terra e lo costringono con lo scudiscio a coltivarla per loro“.
A Roma, si manifestava per l’uccisione di un nipote dei nostri nonni che hanno sudato come lui, da nord a sud dell’Italia, come manodopera estremamente flessibile nella raccolta di agrumi, ortaggi, pesche, patate, pomodori, uva ed olive, che garantiscono tavole imbandite per tutto l’anno, a ciclo.

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Si manifestava per Soumaila Sacko, un fratello, in nome dei tanti lavoratori – italiani e non – deceduti mentre versavano i contributi e pagavano le tasse; contro i mancati e i parziali pagamenti di imposte e/o contributi di sicurezza sociale che conducono tutti in uno stato di estremo bisogno economico e precarietà. Si manifestava contro le migrazioni d’emergenza delle aziende italiane all’estero che hanno tolto ogni reddito a giovani e vecchie famiglie.

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Si manifestava per Soumaila Sacko, per tutti gli sfruttati; per i tanti ragazzi la cui vita è occupata da part-time multipli per pagare l’affitto smisurato di una stanza o per costruire una baracca in un ghetto quando le politiche abitative sono di lusso; si commemorava un’intera generazione di cervelli, in fuga e già lontani ormai, che l’Italia ha rifiutato per un sistema professionale e lavorativo datato dal clientelismo e dalla corruzione.

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Si manifestava per tutti gli uomini e le coscienze non alienate, sacre, che richiedono un’esistenza nella regolarità, una individualità la cui ragione d’essere non sia subordinata solo al lavoro, ma legittimata in tutta la sua presenza, oltre l’evidente natura biologica. Si richiedeva uno stato sociale e politiche del lavoro non eugenetiche, oltre l’ “ovvia constatazione che i potenti dominano su coloro che sono privi di potere“.
Non si manifestava per Soumaila Sacko, il migrante, ma per gli sfruttati, gli attivisti, i fratelli, gli uomini, quella parte invisibile di umanità isolata dalle relazioni civiche, esclusa da quelle politiche e rimossa dalle agende politiche, vittima di raggiri finalizzati a perpetuare gli sfruttatori, lo stato di sudditanza e le guerre tra i poveri.

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Si manifestava, simbolicamente, contro “tutte quelle famiglie che conservano l’assurda pretesa di discendere da una razza di conquistatori di cui hanno ereditato i diritti’ per aprire all’umanità, che non è la causa del declino delle civiltà, ma ‘una guida indispensabile del mondo attuale, l’unico legame affidabile in uno spazio senza confini“.

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Verso #umanitàaperta, 23 giugno 2018, Reggio Calabria.

Vanna D'Ambrosio

Conseguita la laurea in Filosofia presso l’Università di Napoli Federico II, ho continuato gli studi in interculturalità e giornalismo. Ho lavorato come operatrice sociale nei centri di accoglienza per immigrati, come descritto nella rubrica “Il punto di vista dell’operatore”. Da attivista e freelance, ho fotografato le resistenze nei ghetti italiani ed europei. Le mie ricerche si concentrano tuttora sulle teorie del confine.