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Gestione hotspot, diritti umani: che responsabilità per il terzo settore?

Un appello di CILD, ASGI, Indiewatch, ActionAid

Il 12 luglio la Prefettura di Agrigento ha aperto una procedura negoziata che si chiuderà il 31 luglio per l’affidamento della gestione del CPSA/Hotspot di Lampedusa, in attesa della pubblicazione del bando per la gestione del centro per il triennio 2019-2021.

I cd. hotspot (in italiano punti di crisi) rappresentano, da tre anni a questa parte, la modalità attraverso la quale le autorità italiane gestiscono l’arrivo dei cittadini stranieri via mare in Italia. Sono attualmente operativi cinque hotspot: Lampedusa, Trapani, Pozzallo, Messina e Taranto. Nonostante l’ampiezza di questo sistema e l’ormai strutturata presenza, a distanza di tre anni non è ancora stata predisposta una disciplina organica. È particolarmente rilevante, da questo punto di vista, quanto riferito dal Garante nazionale per i diritti delle persone detenute o private della libertà personale nel Rapporto al Parlamento 2018:

“Senza una loro chiara definizione normativa e considerate l’estrema varietà di attività che si svolgono al loro interno e l’eterogeneità di vocazioni e compiti dei vari attori, gli hotspot rischiano di generare zone d’ombra divenendo di volta in volta strutture aperte o chiuse a seconda delle esigenze dell’Autorità di pubblica sicurezza e delle procedure messe in atto. L’ambiguità giuridica di questi luoghi finisce così per incidere sulla libertà personale degli ospiti, che oltretutto non possono godere di una tutela giurisdizionale”.

Proprio il determinarsi di forme illegittime di trattenimento, in violazione delle garanzie poste dall’articolo 13 della Costituzione a tutela dell’inviolabilità della libertà personale, rappresenta uno degli aspetti più inquietanti reso possibile dalla citata assenza di base giuridica organica. In un numero rilevante di casi, inoltre, sono emerse ulteriori violazioni quali l’applicazione di prassi arbitrarie di selezione tra richiedenti asilo e cd. migranti economici, molto spesso orientate in ragione della nazionalità dei migranti, il mancato o insufficiente orientamento ai diritti, l’emissione di provvedimenti di espulsione o di respingimento differito e l’attuazione di rimpatri forzati in assenza di una valutazione caso per caso della presenza di eventuali cause di inespellibilità.

Com’è noto, tutti i cittadini stranieri hanno diritto di presentare richiesta di protezione internazionale a prescindere dall’origine nazionale. Soltanto le Commissioni territoriali e l’autorità giudiziaria hanno la facoltà di valutare nel merito, in ragione del contesto di origine e delle vicende personali del richiedente, la domanda. Nessun tipo di competenza in tal senso è attribuita all’autorità di polizia. Per contro, gli hotspot nei fatti funzionano come strumento di differenziazione informale, sommaria ed extralegale tra cd. migranti forzati e cd. migranti economici.

I centri hotspot sono pensati anche come luoghi di prima accoglienza: la dicitura utilizzata è infatti quella di CPSA, ovvero centro di primo soccorso e accoglienza/hotspot. Il sovrapporsi e mescolarsi di pratiche umanitarie (soccorso, accoglienza e ristoro) e di pratiche di polizia (identificazione, avvio delle procedure per la definizione degli status, respingimenti e rimpatri) crea un’ambiguità di fondo su cui è necessario aprire una riflessione. Tale ambiguità infatti inquina le delicate dinamiche che si sviluppano nella relazione di aiuto, già intrinsecamente caratterizzata da uno squilibrio di potere tra chi dà e chi riceve. Affiancare a questa relazione pratiche di controllo e definizione dello status può generare confusione – negli operatori, nei migranti, negli agenti di polizia, nei mediatori, etc. – rispetto ai ruoli, ai poteri e alle funzioni di ciascuno. In assenza di una organica e chiara base giuridica, si possono sviluppare comportamenti discrezionali e potenzialmente illegittimi da parte degli attori in campo.

Il ruolo delle organizzazioni di assistenza e di tutela dei migranti dovrebbe essere chiaramente distinto da quello della pubblica amministrazione anche nelle situazioni in cui è caratterizzato da un rapporto di cooperazione con quest’ultima. I soggetti che svolgono una funzione di assistenza dei migranti devono poter operare in spazi definiti e distinti dai luoghi in cui vengono esercitate funzioni di controllo e definizione dello status attribuite alla pubblica amministrazione.

Nell’ambito delle attività degli hotspot – che, come abbiamo visto, possono pregiudicare gravemente i diritti dei migranti in assenza di una base giuridica – il coinvolgimento del terzo settore rischia di dare suo malgrado legittimazione di pratiche extralegali.

Il centro di Lampedusa opera come “punto di crisi” dalla fine del 2015. Nel corso di questi anni, seppur in un contesto caratterizzato da cambiamenti anche significativi, sono state riscontrate le violazioni sopra descritte, ampiamente riferite da significativi report di organizzazioni e istituzioni nazionali e internazionali che hanno registrato anche profonde carenze per ciò che concerne le condizioni materiali di accoglienza.

Riteniamo quindi che le organizzazioni che si candidano per la gestione dell’hotspot di Lampedusa devono essere ben consapevoli dei rischi derivanti dall’onere assunto e dall’operare in un sistema strutturalmente illegittimo e caratterizzato da gravi violazioni, particolarmente rilevanti fino allo scorso marzo e significative anche nel periodo successivo, soprattutto per ciò che attiene ai trattenimenti informali. Auspichiamo che, coerentemente con la loro funzione di assistenza e tutela dei diritti, siano pronte a denunciare pubblicamente le eventuali violazioni e ad agire affinché queste non si ripetano e vengano sanzionate.