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Perugia, l’altro volto dell’accoglienza: il lavoro nero e precario

Perugia. Dopo mesi di lavoro precario, sottopagato e talvolta in nero, gli operatori e le operatrici dell’accoglienza chiedono diritti e tutele.
Per diversi anni, hanno accompagnato i migranti presso gli uffici amministrativi; alle Asl; presso gli ambulatori di medicina generale; dagli avvocati ‘convenzionati’; hanno consegnato i pocket money; ed hanno anche provveduto all’acquisto dei farmaci.
Per diversi anni, hanno lavorato alle dipendenze di una nota cooperativa umbra, aggiudicataria del bando indetto dalla Prefettura e destinataria di somme da capogiro, chi all’ostello predisposto, chi negli appartamenti dislocati nel capoluogo umbro per garantire agli oltre 2.000 migranti i servizi previsti dal bando.
A lungo hanno atteso prima di ricevere lo stipendio concordato con la cooperativa. Uno stipendio particolare, che ricorda lo sfruttamento dei migranti nei campi della Calabria, uno stipendio non parametrato sulle arance raccolte bensì sui migranti ‘gestiti’.

Un ‘cottimo’ di migranti

Capita che nei primi mesi di accoglienza, gli operatori lavorano alle dipendenze della onlus senza aver stipulato alcun contratto.
Non è, però, lavoro nero. I vertici della cooperativa dicono che oggi sei un volontario ma verrai pagato poi alla stipula del contratto, fra qualche mese. Tutto in regola, dunque?
Nel sistema di Perugia, si ricorre all’alibi del volontariato per legittimare i mostri di esternalizzazione dell’accoglienza, un ‘cottimo’ di migranti per cui, sei giovane o precario e vuoi guadagnare di più? Basta chiedere l’assegnazione di più migranti al giorno, 25-30-anche 40; basta saper gestire i ritmi di lavoro e guadagnare poco più di mille euro al mese.

Il sindacalista ignoto e le istituzioni

Dopo un mese senza paga, arriva la comunicazione della cooperativa che convoca in sede operatori ed operatrici per firmare un nuovo contratto di lavoro e per la restituzione dei salari, in presenza di un consulente del lavoro che può essere presente solo in quella data.
Gli operatori ci cascano e si presentano in sede dove, anziché il consulente del lavoro, trovano un sindacalista che non hanno mai incontrato prima e che appartiene a un’organizzazione vicina alla cooperativa.
Tuttavia, mostrano a loro un assegno per il mese arretrato e due altri moduli già prestampati, con nomi e cognomi inseriti: un verbale di conciliazione in sede sindacale e un contrattino di lavoro che parte dal giorno a venire.
Continuano a lavorare per altri mesi, gli operatori e le operatrici tutte, con stipendi che non arrivano puntuali, perché – come dice la cooperativa – è colpa delle istituzioni. Lavorano sino al termine del contratto, quando non c’è più il nuovo bando e arriva il licenziamento, dovuto, – come i capi dicono – alle istituzioni che non hanno disposto la proroga del progetto di accoglienza.

Ci sarà un giudice a Perugia?

Gli hanno fatto un ricorso, quei quattro straccioni di operatori ed operatrici dell’accoglienza. Hanno fatto ricorso alla nota cooperativa perugina (che ovviamente si richiama a valori di solidarietà) che gestisce quell’ordinaria emergenza, diventata un alibi per legittimare persino un precariato senza diritti e tutele.

Perché hanno fatto ricorso?
Perché quei quattro straccioni di operatori ed operatrici hanno presentato una richiesta di accesso agli atti alla Prefettura di Perugia ed hanno scoperto che le istituzioni, nei tempi previsti, avevano disposto le proroghe del progetto, accettate dalla stessa cooperativa e che, inoltre, avevano pagato periodicamente fior di quattrini all’ente gestore, per cui operatori ed operatrici lavoravano precariamente, e nelle cui strutture non era stata mai effettuata la valutazione dei rischi prevista dal T.U. in materia di salute nei luoghi di lavoro.

Non era colpa delle istituzioni, ma della cooperativa, hanno scoperto i lavoratori dell’accoglienza, che hanno portato la vicenda nelle aule di giustizia, chiedendo i loro diritti e il riconoscimento del lavoro subordinato, rivendicando l’illegittimità dei licenziamenti effettuati, del lavoro nero – grigio – precario e sottopagato, e l’illegittimità della conciliazione firmata davanti ad un sindacalista non di loro fiducia.

Vanna D'Ambrosio

Conseguita la laurea in Filosofia presso l’Università di Napoli Federico II, ho continuato gli studi in interculturalità e giornalismo. Ho lavorato come operatrice sociale nei centri di accoglienza per immigrati, come descritto nella rubrica “Il punto di vista dell’operatore”. Da attivista e freelance, ho fotografato le resistenze nei ghetti italiani ed europei. Le mie ricerche si concentrano tuttora sulle teorie del confine.