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Si muore nei confini, si muore in mare, si muore nei campi e si muore anche nei Cas

Il bollettino di una guerra silenziosa

Il bollettino di questa estate dei migranti morti sembra non avere più fine, 1.443 è il numero delle persone che hanno perso la vita in mare cercando di raggiungere le coste europee dall’inizio del 2018 al 15 luglio scorso, secondo i dati forniti dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim).

A questi si aggiungono i decessi nei campi del mezzogiorno dove secondo stime del rapporto Agromafie del’Osservatorio Placido Rizzotto lavorano circa 500.000 migranti, anche se il numero potrebbe essere notevolmente più alto, considerato che circa la metà dei braccianti non sono registrati e lavorano nelle fila del caporalato in condizioni drammatiche di sfruttamento.

Le campagne sono ormai un grande cimitero, ci sono racconti di ragazzi che si impiccano nelle fabbriche diroccate e di braccianti investiti mentre tornano dal lavoro in bicicletta su strade non illuminate, gli incidenti causati dai veicoli meccanici sono di gran lunga la prima causa di morte nel settore agricolo ma poi si parla anche di centinaia di desaparecidos, braccianti morti asfissiati o carbonizzati, a bastonate e coltellate, persino annegati nelle vasche per la raccolta del’acqua.
Negli ultimi 6 anni sono almeno 1.500 i lavoratori deceduti nei campi.

Si muore anche nei confini, a Ventimiglia come a Como e lungo la rotta del Brennero. Investiti, soffocati, precipitati, fulminati, i migranti muoiono di ipotermia tentando di attraversare le Alpi oppure si perdono e si feriscono in luoghi pericolosi. Sono 194 le morti attestate nel corso del 2017.

Ma si muore anche all’interno dei Centri di Accoglienza Straordinaria, basta ricordare la drammatica vicenda di Sandrine Bakayoko, ragazza della Costa D’Avorio morta per una trombosi polmonare nel lager di Conetta per non aver ricevuto cure e soccorso medico adeguato, o Salif Traore migrante sempre della Costa D’Avorio travolto a Codevigo mentre cercava di raggiungere i circa 150 compagni che nel novembre del 2017 abbandonarono spontaneamente il campo di Conetta con borse e bagagli in protesta per le condizioni di vita e di sovraffollamento nell’ex base militare (la maggior parte di loro era accampata in tende, al freddo, priva di indumenti caldi e coperte adeguate).

La protesta viene ricordata come la marcia della dignità e che si concluse positivamente grazie alla mediazione del Patriarca di Venezia e la ricollocazione dei partecipanti alla protesta in altre strutture d’accoglienza dell’area metropolitana. C’è in corso un’inchiesta giudiziaria a carico della società di gestione del CAS.

Di ieri è la notizia della morte di un giovane afgano di 34 anni ospite da un mese alla ex Caserma Cavarzerani di Udine. Centro di Accoglienza Straordinaria gestito dalla Croce Rossa Italiana e più volte attenzionato per le cattive condizioni di vita degli ospiti all’interno di una struttura che secondo accordi doveva ospitare al massimo 350 persone e che invece ne è arrivata ad ospitare più di 1.000 nel corso del 2016.

Nel 2017 la struttura è stata oggetto di due visite, concesse dopo oltre un anno di richieste da parte della Campagna LasciateCIEntrare a cui parteciparono l’Onorevole Luigi Manconi, l’Avvocato Alessandra Ballerini, Genni Fabrizio e Dalia Vesnic di Tenda per la pace, Lisa Cadamuro per Ospiti in Arrivo, Fabio Di Lenardo, direttore della tendopoli, Sergio Meinero, Presidente del Comitato locale di CRI, il prefetto Vittorio Zappalorto, la vice-prefetto Gloria Allegretto.

Nel corso delle visite furono accertate irregolarità sia dal punto di vista amministrativo, l’affidamento a CRI è stato reso possibile alla luce della dichiarazione dello stato d’emergenza del luglio 2015, dichiarazione che per più di un anno non venne ritirata.

Croce Rossa Italiana ha ricevuto 570.000 euro dalla Regione per sistemare alcune aree della caserma e riceve 25 euro pro capite al giorno, fino al gennaio del 2017 non prevedeva il pocket money di 2 euro al giorno per i suoi ospiti contravvenendo peraltro alla legge che lo rende obbligatorio.

Per lunghi periodi circa la metà degli ospiti era accolto nella tendopoli, allestita sotto l’ex autorimessa e in parte dentro un capannone in gruppi di circa 10 persone per tenda. Voci da confermare segnalano che ad oggi la convenzione è scaduta.

Il servizio sanitario vedeva la presenza di un ambulatorio interno garantito dall’Azienda Sanitaria dov’erano presenti due medici del distretto e uno al bisogno, in tutta la struttura una sola psicologa per circa 600 persone presenti nel 2017 era disponibile.

La seconda visita che si svolse nel giugno del 2017 vide un miglioramento delle condizioni di vita del Centro, dettato più che altro da una diminuzione considerevole del numero degli ospiti non più alloggiati nella tendopoli ma all’interno degli edifici dell’ex caserma e in moduli prefabbricati di alluminio, l’assistenza legale pressoché assente.

Questo nuovo morto non ha ancora un nome, sappiamo che è vittima degli accordi di Dublino e che circa un mese fa è stato deportato dall’Austria dove risiedeva, a Vienna era seguito da un centro di salute mentale del servizio pubblico nazionale, informazione che non è stata trasmessa o che si è voluto ignorare, fatto sta che il ragazzo era afflitto da una forte depressione.

Ieri si è impiccato all’interno di un fabbricato in disuso dell’enorme area delle caserma, il suo corpo è stato rivenuto da un operatore a tarda sera perché non era rientrato in camerata, perché nessuno si era accorto che non c’era.
Una tragedia annunciata che mette ancora una volta a nudo il dramma degli hot-spot, dell’industria dell’accoglienza, delle gare d’appalto, dell’esternalizzazione a ribasso dei servizi alla persona, di luoghi di emarginazione e di segregazione sociale, all’interno di ex complessi militari circondati da alte mura, eredità della guerra fredda e così diffusi quì nel nordest.
Luoghi dove sono negati i diritti fondamentali, dove si muore di noia e anche di solitudine.

Questo modello di accoglienza deve finire, perché i danni causati da queste società per azioni ricade nella collettività, perché dopo due anni dentro a questi luoghi non si formano cittadini ma schiavi, perché non vogliamo più morti.

Fabrizio Urettini

Sono attivista e art director. Nel 2016 ho fondato Talking Hands, studio artistico permanente che permette alle persone delle comunità di rifugiati di disegnare, creare e vendere prodotti di moda e design.
Talking Hands valorizza la diversità, la comunità, la formazione, il design sostenibile e le pratiche commerciali etiche.