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Campagna LasciateCIEntrare: il report della visita al Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo di Isola Capo Rizzuto

Il Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo “Sant’Anna” si trova all’interno dell’ex base dell’aeronautica militare, lungo la statale 106 a 5 km dal comune di Isola Capo Rizzuto e a 16 km dalla città di Crotone. Fino a qualche anno fa era considerato il più grande di Europa, primato che negli ultimi anni è stato scalzato dal CARA di Mineo.

Dal 2006 è gestito dalla Misericordia srl, impresa sociale che possiede anche le quote dell’aeroporto di Sant’Anna e della polisportiva di Isola Capo Rizzuto.

La stessa impresa sociale finita sotto inchiesta nell’ambito dell’operazione Jonny, diretta dalla DDA di Catanzaro, che, nel 2017, ha portato all’arresto di 68 persone (tra cui l’ex parroco di Isola Capo Rizzuto, Edoardo Scordio), accusate di associazione mafiosa.

Lungo la strada a scorrimento veloce si incontrano, a tutte le ore del giorno e della notte, gruppi di persone che percorrono la statale a piedi per raggiungere il centro abitato. D’altra parte i collegamenti sono scarsi e, così come ci riferiscono i migranti con i quali abbiamo interloquito, non vengono loro forniti i biglietti per recarsi fino al più vicino centro abitato.

La confraternita dispone di un pulmino ma, ci dicono le persone intervistate, è parcheggiato all’interno da anni poiché è sempre guasto.
Il centro è una sorta di mostro assopito che non è nemmeno più un Cara. Non c’è modo di capire quale sia la forma giuridica del luogo. Apparentemente sembra si tratti di un Hub regionale, un centro di smistamento. I richiedenti asilo, però, rimangono all’interno anche oltre i 6 mesi. E all’interno di due appositi capannoni vengono effettuate le identificazioni, la cui competenza è delegata agli Hotspot.

Trattasi dell’area che qualche anno fa aveva destato grande preoccupazione nelle associazioni che monitoravano il centro, a causa delle “identificazioni violente” operate nei confronti di alcuni siriani trattenuti all’interno. Sono i padiglioni A e B, con un’unica porta e una sola finestrella. Al loro interno, in cui in passato sono state trattenute oltre 150 persone, vi sono solo due bagni. In ordine sono allineate panche di ferro ed in un angolo la nuova fornitura di materassi, rigorosamente senza lenzuola.

Ci presentiamo davanti al centro intorno alle 15.00. Rileviamo un ostacolo alla richiesta di autorizzazione ad entrare da parte dell’onorevole Forenza, rispetto al passato. Gli europarlamentari, ci viene riferito, possono entrare solo accompagnati da una persona e “scortati da cinque poliziotti”. Non esistono riferimenti normativi di questa prassi, evidentemente illegittima e fortemente discrezionale. La conferma ci viene dalle parole dello stesso Dott. Guerra, il referente prefettizio, sopraggiunto solo intorno alle 17.00: “siamo costretti a fare così a causa del processo Jonny, per tenere più cose sotto controllo”. In realtà il processo Jonny non considera la materia degli accessi.

Attendiamo, dunque, per oltre due ore; alla fine l’ingresso viene autorizzato all’europarlamentare accompagnata da un solo attivista. Nel centro sono presenti 602 persone di varie nazionalità. Trattasi di richiedenti asilo sbarcati sulle coste calabresi, accolti precedentemente all’interno di CAS regionali, persone in attesa dell’esito del regolamento Dublino. Il numero, rispetto alle innumerevoli visite effettuate negli anni passati, è fortemente inferiore alla capienza prevista di 1216 persone. Un probabile effetto della diminuzione degli sbarchi conseguente alle politiche repressive e di controllo delle frontiere imposte dall’attuale governo Salvini-Di Maio.

E proprio l’attuale ministro degli interni, nel corso di una sua visita effettuata all’interno del CARA nel 2015 aveva affermato: “L’ente gestore mi sembra alterezza, il livello di vita nel campo è migliore di alcune periferie milanesi che conosco. Qui oggi ci sono 1200 persone per un business di 20 milioni di euro in un triennio, sono soldi che spenderei per i calabresi in difficoltà e non per gli immigrati. Anche perché il 70% della gente che passa da qua dopo nove mesi si scopre che è clandestino. Bisogna fermare i flussi”.

L’ente gestore all’altezza è lo stesso che nel 2017, come ricordato, sarebbe finito nel mirino della DDA di Catanzaro: “c’era mangiare che non bastava mai. Abbiamo filmato anche la qualità del cibo: noi di solito quel cibo lo diamo ai maiali. C’erano delle società create appositamente per rifornire i pasti e con questi soldi hanno comprato cinema, teatri, decine di appartamenti, macchine e barche di lusso, terreni”, affermava il procuratore Gratteri all’indomani degli arresti.

Al netto delle solite esternazioni elettorali prive di fondamento, cosa intendesse il ministro Salvini con l’affermazione relativa al 70% di clandestini presenti nel campo, rimane un arcano. La normativa in materia di diritto di asilo prevede che il richiedente asilo sia colui che ha lasciato il suo paese di origine nel giustificato timore di essere perseguitato per la sua razza, religione, cittadinanza o la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, ed è in attesa di una decisione da parte delle autorità competenti riguardo al riconoscimento del suo status di rifugiato. Dunque, in possesso di regolare permesso di richiesta di asilo.

Chiediamo quali siano i tempi di permanenza ma nessuno ci sa dare una risposta precisa. Chiediamo, altre sì, di conoscere la natura giuridica della struttura e la lista con i nominativi e le date di arrivo di tutte le persone in essa rinchiuse: il sistema NDM del computer non funziona e gli addetti si impegnano a inviare il file richiesto, dietro garanzia del referente prefettizio. Ad oggi non è ancora arrivato nulla.

Ci viene riferito che nel centro ci sono 8 minori, tutti accompagnati, ma non abbiamo modo di verificare questo dato. Nel corso della visita però individuiamo diversi ragazzi (almeno 5) che mostrano meno della maggiore età. All’esterno, questo sospetto ci viene confermato da un gruppo di migranti con i quali ci soffermiamo, gli stessi ci confermano che ci sono numerosi minori non accompagnati nel centro. Considerevole è, inoltre, la presenza delle donne, alcune delle quali in avanzato stato di gravidanza.

Nonostante l’area riservata ai nuclei familiari sia separata da quella esclusivamente maschile, non ci sono porte che si possano chiudere e i bagni sono in comune. Alcune delle persone con le quali ci fermiamo a parlare ci riferiscono che i bagni sono talmente sporchi da temere la trasmissione di infezioni. Nel corso della visita ci accorgiamo di un andirivieni di operatori delle pulizie intenti a detergere bagni e mensa. Abbiamo aspettato due ore all’esterno prima di entrare: un tempo ragionevolmente sufficiente per nascondere eventuali mancanze e sfoggiare il sorriso adeguato.

Riusciamo, a fatica, a parlare con due donne di nazionalità nigeriana, precedentemente accolte in un CAS. Parlano pochissimo l’italiano e sono evidentemente provate. Una di loro riferisce di avvertire freddo in tutto il corpo e di soffrire di insonnia. Tutte le volte che si reca in ambulatorio riceve l’immancabile OKI. Intanto, all’esterno i richiedenti asilo con i quali ci soffermiamo a interloquire ci confermano che l’OKI è la panacea di tutti i mali, il rimedio farmacologico per eccellenza all’interno del centro. Ti fa male lo stomaco?, commenta uno dei ragazzi – ti danno l’OKI. Avverti prurito? – prendi un OKI. Non riesci a dormire? Prendi l’OKI. Sono in Italia da oltre un anno e mezzo ed attendono il risultato della Commissione. Da poco tempo sono state trasferite nel CARA. La loro stanza è un vano vuoto, bianco, un luogo anonimo e triste. R. guarda spesso nel vuoto e si perde lontano, riusciamo solo a farla ridere quando le chiediamo il suo nome tradizionale: niniang, gift in inglese. Sono donne che nel loro viaggio hanno subito innumerevoli violenze e dopo un anno e mezzo in questo paese tutto ciò che viene loro riservato è una stanza fredda e l’OKI.

Altri richiedenti asilo con i quali ci fermiamo a parlare ci riferiscono di essere stati spostati nel Cara da un CAS di Reggio Calabria. Nessuno di loro è stato iscritto all’anagrafe. Nessuna delle persone ospiti del centro, d’altra parte, risulta essere iscritta all’anagrafe. La sottrazione del diritto di residenza all’interno di un “luogo senza nome” rientra perfettamente nella pratica della burocrazia segregativa.

Uno di loro riferisce di essere affetto da cardiopatia, accompagnata da forti dolori alla testa. Racconta di non essere mai stato sottoposto a visita all’interno del centro. Intanto, fuori un gruppo di altri richiedenti asilo riferiscono di un’assistenza sanitaria inadeguata, soprattutto per quanto concerne alcune persone affette da patologie importanti, quali il diabete, le epatiti virali, le cardiopatie. Molti lamentano, inoltre, prurito su tutto il corpo.

A detta degli operatori qui si pone grande attenzione alla questione sanitaria: sono presenti ben 22 persone con disturbi psichici sottoposte terapia, due sordomuti e 7 cardiopatici. Persone vulnerabili, quindi, che non dovrebbero stare all’interno del CARA, ma essere spostati in adeguati SPRAR. Le persone però qui continuano ad essere numeri su fogli di carta con associato un codice riferibile alla tessera pocket money, una sorta di chiavetta di plastica da utilizzare per l’acquisto di alcuni generi di prima necessità, inclusa l’acqua, da un distributore posto all’interno del centro.

Nella seconda metà di agosto sono arrivati 56 richiedenti asilo di nazionalità pakistana che sono stati trattenuti all’interno dei famosi e già citati padiglioni dedicati alle identificazioni, dove, a detta degli operatori, è stato loro praticato il trattamento antiscabbia. Non sappiamo nulla di come siano state portate avanti le identificazioni dei 56 pakistani, perché quando proviamo a parlare con loro è sempre presente un mediatore di lingua urdu, di fronte al quale non proferiscono parola e continuano a dirci: Tutto bene. Qui va tutto bene. Ricordiamo, però, molto bene le urla dei siriani di qualche anno fa ed i loro occhi terrorizzati di fronte ad uno schieramento impressionante di forze dell’ordine mentre all’interno aspettavano l’identificazione. Dopo il viaggio della disperazione cosa c’è di meglio che trovare tanti soldati e poliziotti ad accoglierti?

Mentre usciamo vediamo entrare alcuni ospiti con delle borse, controllate a lungo dai militari all’interno del gabbiotto all’accesso: è vietato introdurre vetri, specchi ed altri oggetti pericolosi. I richiedenti asilo con i quali ci soffermiamo a parlare all’esterno ci riferiscono che tutte le mattine sono costretti, per radersi, a recarsi nel parcheggio di fronte al centro dove, a vicenda, si aiutano per farsi la barba e i capelli. Il divieto di introdurre vetri, specchi e spray ricorda lo stesso che vige all’interno degli ospedali psichiatrici, degli S.P.D.C. Non è un carcere, gli ospiti sono “liberi” di entrare e di uscire dice il referente prefettizio, si tratta di normali controlli di sicurezza.

Chi giunge in questo posto viene privato del suo diritto di essere considerato una persona, un normale essere umano. Si ritrova ad essere sottoposto più volte, quotidianamente, a controlli di sicurezza che gli impediscono di introdurre un rasoio per farsi la barba davanti a uno specchio, di radersi come ogni uomo fa tutte le mattine. Abitudini e gesti naturali vengono rimossi, coartati, considerati pericolosi. Se questo è un uomo, scriveva Primo Levi quasi 70 anni fa. Quasi fosse ieri, quasi fosse oggi!

Campagna LasciateCIEntrare

La campagna LasciateCIEntrare è nata nel 2011 per contrastare una circolare del Ministero dell’Interno che vietava l’accesso agli organi di stampa nei CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) e nei C.A.R.A. (Centri di accoglienza per richiedenti asilo): appellandosi al diritto/dovere di esercitare l’art. 21 della Costituzione, ovvero la libertà di stampa, LasciateCIEntrare ha ottenuto l’abrogazione della circolare e oggi si batte contro la detenzione amministrativa dei migranti continua »