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Da migranti a rifugiati: il nuovo dramma centroamericano

“Quelli che sarebbero morti” si stanno ammassando in Messico

Testo di Óscar Martínez, El Faro & Univision Noticias, 2017

La lettura del testo dura circa 90 minuti. Se preferisci puoi ascoltarlo (Letto dall’autore Óscar Martínez):
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1

Gli ultimi rifugiati

(Rifugio “La 72”, Tenosique, Stato di Tabasco, 24 febbraio 2017)

Lei ricorda che, quando lo rivide, lui era tumefatto. Ora questi due salvadoreñi sono una coppia. Si sono innamorati nella fuga. E sono venuti fino al sud del Messico, nello Stato di Tabasco, frontiera selvaggia con il Guatemala, per ritrovare un altro salvadoreño in fuga, il nipote di lei.
Lei racconta che quando si unì al suo attuale marito, a Città del Guatemala, la faccia di lui era irriconoscibile. Era tumefatta, deforme. Da una parte gli spuntava un bozzo, dall’altra aveva un ematoma violaceo, il sopracciglio era ancora squarciato e sanguinava di continuo.
Un commerciante di frutta assassinato in uno scontro tra guardie private e pandilleros nel centro storico di San Salvador. Lo scontro si chiuse con un bilancio di 6 morti (El Salvador, 15 marzo 2017). FRED RAMOS / EL FARO

Lui non lo minacciarono di morte. Lo credettero già morto. Sembrare un cadavere gli salvò la vita. È un salvadoreño robusto, sui 40 anni, con cicatrici sparse su tutto il volto e sulle braccia. All’inizio, quando la gang Barrio 18 sequestrò le sue due figlie, scappò dal distretto metropolitano di Apopa. Quindi, verso il 2005, dovette vendere la sua rivendita di granaglie e pagare più di 10.000 dollari ai membri della banda, che per la stessa attività si facevano pagare una ‘tassa’ di 100 dollari mensili. Riuscì a riavere le sue figlie e si trasferì ad Acajutla, sulla costa salvadoreña. Ma lì comanda la Mara Salvatrucha, e il negozio di noci di cocco che aprì non riuscì mai a fare profitti. Lui decise di essere onesto con gli M-S (EmEese, membri della gang Mara Salvatrucha, n.d.t.), confessando loro che era scappato da una zona della “18”. Ma ‘quelli delle lettere’ diffidano di tutto ciò che arriva da dove stanno ‘i numeri’. Alla fine, qualche mese dopo, lo minacciarono di morte. Lo volevano via da lì. Scappò di nuovo, sempre entro i confini del suo paese. Si spostò a malapena di qualche chilometro, verso una spiaggia chiamata Monzón, nel Distretto di Sonsonate. Lì viveva sua madre, sempre in zona MS. Ma il fatto di essere di nuovo una famiglia diede a lui e alle sue figlie la forza per restare. Vari anni dopo, nel 2014, tornando a casa dal lavoro trovò, in una camera, una delle sue figlie appartata col suo nuovo ragazzo, un membro della MS. L’uomo non poté digerire la scena. Discusse con quel tipo. Lo cacciò in malo modo. Quello stesso giorno, verso sera, fuori da casa sua quattro tizi della banda lo massacrarono di botte. Lo colpirono al punto da crederlo morto. Dopo, lo gettarono in una discarica, sulle rive di un’altra spiaggia chiamata Costa Azul. Una donna vide quella massa rossa muoversi e ansimare tra i rifiuti. Lo aiutò ad uscire di lì. Così, mezzo morto, il giorno seguente fuggì in Guatemala a bordo di un autobus.

A quel tempo, lei era solo un’amica di lui. Lei è una donna affascinante, di poco più di 40 anni, con dei grandi occhi verdi da gatta. Lui, dal Guatemala, le raccontò la sua sciagura. Proprio in quei mesi, nel 2014, lei stava attraversando un momento particolare. Per anni, costretta, era stata sposa di un marero 1 di Sonsonate. Nel 2014 arrestarono per omicidio l’uomo che la opprimeva. Finì in carcere in attesa di giudizio. Lei approfittò della sua carcerazione per scappare. Lasciò quella “vita da schiava” e raggiunse il suo amico in Guatemala.

Quando lo rivide, lo trovò violaceo e deforme. Insieme continuarono la fuga verso il Messico. Dopo aver passato mesi in questo ostello per migranti nella città sureña di Tenosique, entrambi hanno ottenuto l’asilo e vivono stabilmente in questo paese. Il Messico ha creduto alla loro storia. Il Messico ha ritenuto che, se fossero tornati a El Salvador, sarebbero stati entrambi assassinati. Nel mentre si sono innamorati, ed ora sono una coppia.

Al rifugio

Ma questa è una catena. Dopo uno ce n’è un altro, e un altro, e un altro.

Dopo alcuni mesi di carcere, il marero che la tormentava tornò in libertà. Minacciò di morte il figlio di lei. Rivoleva indietro la donna, che considerava sua. Il figlio seguì i passi di sua madre. Fuggì. Ora anche lui è rifugiato in Messico.

Restava il nipote. Il pandillero 2 trovò anche lui.

Il nipote è il ragazzo arrivato ieri sera da Acajutla, a cui oggi sono venuti a far visita da una città del Messico centrale. Sono seduti in un corridoio, nel mezzo dell’ostello, circondati da varie decine di centroamericani che, come loro, non migrano, scappano.

– “Sono arrivato qui proprio come lui. Disorientato, col pensiero fisso di ciò che sarebbe stato della mia vita. Ma qui si può vivere, vedrai”- dice l’uomo al ragazzo appena arrivato, che oggi avvierà la sua richiesta d’asilo.

Un’altra famiglia di gente in fuga si ricongiunge in Messico.

Sono solo gli ultimi rifugiati che ho incontrato in questo viaggio. L’ultimo è appena arrivato.

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Sono trascorsi sette giorni dall’inizio di quest’inchiesta. In appena una settimana ho parlato con 29 persone in fuga. Famiglie con neonati, gay hondureñi, ex-pandilleros, ragazzine vittima di abusi, uomini sfregiati. Scappano dai pandilleros, dalla polizia, dai narcotrafficanti, dai sequestratori. Ma, soprattutto, scappano da paesi in cui le autorità non possono o non vogliono proteggerli.

Quest’anno, per la prima volta nel secolo, si stima che il Messico arriverà a toccare un numero a cinque cifre nelle richieste d’asilo: 20.000 persone, quasi tutte del nord del Centroamerica, chiederanno accoglienza per sottrarsi alla morte.

È questa la sostanza dell’orrore salvadoreño o guatemalteco. Forse la maniera più rapida per comprendere cosa significhi venire da uno dei paesi più violenti del pianeta è ascoltare i racconti di questi ‘rigettati’ che vagano per la regione.

Quelli che sarebbero morti’, quelli che si sono messi in salvo solo con le proprie forze, si stanno ammassando in Messico.

2

I primi rifugiati

(Rifugio per adolescenti rifugiati, Distretto Federale, 18 febbraio)

– “Vuoi vedere altra gente che scappa?” – mi chiede l’ex-pandillero salvadoreño di 21 anni, esile, sicuro di sè. – “Questo scappa perché è una ‘fighetta’”.

– “Si, scappo, ma non per questo, non fare l’idiota!”- risponde Bryan, hondureño, gay, 20 anni, di carnagione chiara, occhi verdi, esile, alto.

Ridono.

Sono distesi su un vecchio sofà, circondati da altri giovani assorti davanti agli schermi dei propri cellulari. Bryan, dal proprio, mostra all’ex-pandillero la foto di sua sorella. Scherzano sull’eventualità che un giorno possano diventare cognati.

L’ex-pandillero scappa da ragazzi come lui, ragazzi della sua stessa gang, che a El Salvador lo vogliono morto. Bryan fugge da giovani come quello che ora gli è accanto; pandilleros anch’essi, ma hondureñi, che vogliono ucciderlo perché non fece ciò che gli ordinarono. I due sono rifugiati in Messico dal 2016. Lo Stato messicano ha indagato, ha creduto alle loro storie e gli ha accordato lo status di rifugiati. Possono muoversi liberamente per questo grande paese, ma se vogliono conservare questa libertà, non possono tornare nel proprio.

E. (21 anni), Bryan (20) ed Heidin (13) assorti nei loro cellulari all'interno del rifugio per adolescenti del frate Alejandro Solalinde (Città del Messico, 18 febbraio 2017). FRED RAMOS / EL FARO

La domanda fattami dall’ex-pandillero era retorica. Sa che cerco gente rifugiata, ma in questa casa è superfluo chiedere: tutti fuggono da qualcosa. La maggioranza, sono giovani come lui.

Questa casa-rifugio è stata messa in piedi dal sacerdote Alejandro Solalinde e dalla sua squadra. Solalinde è, dal 2007, uno dei più noti difensori dei diritti umani in Messico, ora candidato al Nobel per la Pace. È stato minacciato di morte in diverse occasioni. Ha fondato e dirige un rifugio al sud, a Ixtepec, nello Stato di Oaxaca. Nel 2015, alcuni componenti della sua squadra hanno ritenuto necessario mettere su un luogo diverso, riservato a giovani che non fossero di passaggio, giovani che non cercassero di raggiungere gli Stati Uniti. Questi giovani non viaggiano inseguendo la prosperità economica. Viaggiano per sopravvivere. Il loro obiettivo non è arrivare negli Stati Uniti. Vogliono solo lasciare il posto in cui stavano.

La loro strada non è al nord: è qui, al sud.

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A partire dal 2013, anno dopo anno, il numero delle persone che chiedono asilo in Messico è andato sensibilmente crescendo, ma nel 2015 il dato è finito addirittura sulle prime pagine dei quotidiani. Dagli 841 richiedenti del 2013 si è passati ai 3.423 del 2015. Nel 2016, questa tendenza si è riconfermata in crescendo. L’aumento rispetto al 2015 è stato di circa il 157%: 8.781 persone hanno chiesto salvezza al Messico.

Da un anno all’altro si è passati dalle persone che stanno tranquillamente in una tribuna a quelle che può contenere un piccolo stadio.

L’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) ha calcolato che per fine 2017 si arriverà alle 20.000 richieste. Quelle che stanno in uno stadio rispettabile.

Il 92% delle persone che in Messico affermano di fuggire da morte certa provengono da tre paesi: Honduras, El Salvador e Guatemala, in quest’ordine.

Una bambina su un autobus al passo di frontiera di El Ceibo, che collega il Messico al Guatemala. MAYE PRIMERA / UNIVISION

Quelli che sarebbero morti’ gettano il proprio sguardo sul Messico. La parola ‘asilo’ va man mano facendosi strada nei percorsi del migrante centroamericano. Nel primo decennio di questo secolo non la pronunciava nessuno negli ostelli. La gente in fuga si mischiava al flusso dei 4 milioni di migranti annuali, a bordo del treno-merci col quale la maggior parte di essi attraversa il Messico. Ora, molti cominciano a capire che c’è un nome apposito per i migranti come loro, che scappano. “Tu sei un migrante o un rifugiato?”, si può ascoltare in qualsiasi ostello. Nel mezzo di un cammino che, se si è da soli, è sempre più caro o difficile da percorrere, i rifugiati si stanno moltiplicando. Le ‘sacche’ di centroamericani che chiedono asilo in Messico vanno riempiendosi da tutto il paese: Tapachula, Tenosique, Oaxaca, Ciudad de México, Toluca, Tijuana…

Le iene hanno alzato i prezzi, facendo leva sul terrore suscitato dall’arrivo di Donald Trump alla presidenza statunitense. Trump promette il suo muro ogni volta che può, premendo sul Messico. E il Messico risponde come il sud che strangola un altro sud. Nel 2016, il Messico ha rispedito nei loro paesi 143.226 centroamericani, il doppio di quelli rimpatriati nel 2011. Il Messico emula ciò che il suo vicino settentrionale fa nei suoi confronti. Vigila su chi ha in basso sbarrando sempre più il passaggio.

Se compariamo i dati relativi all’asilo con quelli delle deportazioni, non resta alcun dubbio che il Messico respinga enormemente più di quanto accoglie.

A tavola!” – urla uno dei volontari della casa, e i giovani in fuga si distolgono dagli schermi dei propri cellulari e corrono a sistemarsi attorno al tegame annerito contenente tagliatelle e formaggio grattugiato.

Oggi, nel mio primo giorno alla ricerca di rifugiati centroamericani in Messico, in questa casa ci sono otto giovani che affermano che per loro, restare nel paese in cui sono nati, significherebbe morire. La più piccola ha 13 anni. Il più grande è l’ex-pandillero.

Cortometraggio

In Messico, in cerca di pace: una famiglia divisa dalla violenza delle bande

3

Il pandillero e Bryan

(Rifugio per adolescenti rifugiati, Distretto Federale, 18 febbraio)

E.” (chiameremo così l’ex-pandillero) non rimanda le spiegazioni.

– “Mi vogliono ammazzare a El Salvador. Sono un ex-pandillero della “18, del sud” – dice E., seduto su una sedia nel cortile della casa, lontano dagli altri, con il berretto a mezza fronte e la visiera dritta, tesa, come nel suo paese non potrebbe portarla.

Qualora le parole non siano sufficienti a credere alla sua volontà di allontanarsi dalla banda, può essere d’aiuto guardare il suo petto. Dove c’era un 1, oggi c’è un demone; dove c’era un 8, un angelo. Cancellarsi i tatuaggi, in una gang salvadoreña, è una ragione sufficiente per morire.

La sua unica condizione: non rivelarne il nome. Per tutti gli altri, lui è sul punto di lasciare la casa e perdersi nella città e nello Stato del Messico, una delle aree più popolate del continente. Sparirà tra più di 20 milioni di persone. In questo nascondiglio si sente al sicuro.

E., ex-pandillero della gang Barrio 18, mostra i tatuaggi che ha sul petto: si tratta di un angelo e di un demone, con i quali ha coperto il numero 18 che aveva prima. E. è provvisoriamente ospite del rifugio per adolescenti rifugiati di padre Alejandro Solalinde, a Città del Messico. FRED RAMOS/EL FARO

Sono della cellula Piwainos Locos Sureños, di Izalco“.

Nelle mappature della violenza si usa segnare in rosso le zone di crisi. E. viene da un municipio rossissimo di un paese rossissimo. Nel 2016 il tasso di omicidi a El Salvador è stato di 80,9 per ogni 100.000 abitanti, il più alto della parte di mondo non in guerra. Lo stesso anno, nel suo municipio il tasso è stato di 170,9. La sua piccola fetta di terra, a questo mondo, ha più che duplicato la media del paese più violento. In larga misura, erano lui e i suoi a sporcare Izalco di rosso intenso.

Ha ucciso quando era ancora un bambino. Lo beccarono per un omicidio, ma aveva appena 15 anni. Ha scontato solo due anni, perché i testimoni “non si presentarono più, lasciarono morire il caso”. Non per questo smise di uccidere. Le carceri a El Salvador non vanno molto d’accordo con la parola riabilitazione.

– “A quanti omicidi hai preso parte?” – chiedo.

– “Mmm…” – sorride nervoso mentre si sistema il cappello. “Un sacco. Ma ho anche visto uccidere parecchi amici miei”.

– “Perché sei scappato?

– “Nel 2014, in dicembre, uccisero una tipa. Era la mia ragazza. Furono gli stessi tizi della mia cellula. Io commisi un errore. Mi mandarono a risolvere una faccenda e venne uccisa la persona sbagliata; in quei casi il castigo che ti tocca è che faranno fuori anche te, per esser stato un idiota. Affinchè potessero uccidermi chiesero il benestare nel carcere di Izalco. Poi dissero che scherzavano, che non potevano uccidermi, che ero un soldato leale. Dissero che me l’avrebbero solo fatta pagare, e andò male alla mia tipa. La colpirono cinque pallottole. Lei aveva la mia stessa età, 18 anni. La uccisero a Izalco nel 2014. Non aveva niente a che fare con la banda”.

Ad E. dissero che era stata la Mara Salvatrucha. Lui gli credette. Ma due mesi più tardi, mentre stava bevendo una birra con due dei suoi compari, uno di loro gli confessò che uccidere la sua ragazza fu la punizione che gli toccò per aver ucciso chi non doveva uccidere. Uccidere, uccidere… Il tizio disse ad E. i nomi degli assassini. E. non approfondì oltre: “Quello fu il pomo della discordia che mi portò a superare il limite”.

– “Dove sono gli assassini della tua ragazza?

– “Pensai di beccarli a Izalco, ma feci un buco nell’acqua. Quei due idioti non stanno lì, sono scomparsi. Non c’è traccia di loro. La banda l’ha scoperto e ha aperto la caccia per tutto El Salvador: ovunque mi avessero trovato, avrebbero dovuto uccidermi. Mandarono le mie foto a tutte le cellule”.

Scomparsi’, detto da E., significa sotterrati in un campo di grano o in un canale.

E. fuggì il 24 dicembre del 2014. Anche la sua famiglia – padre, madre, sorelle, fratello – scappò quella stessa notte. Sapevano di dover scappare dalle ripercussioni legate al gesto di E.. Vivono in un altro Distretto, sempre a El Salvador, in attesa di fuggire verso un altro paese. Suo fratello l’ha già fatto. Non è un pandillero. Vive, da rifugiato, nel nord del Messico.

In genere, dietro ogni rifugiato centroamericano ci sono, in potenza, altri rifugiati.

E. mostra dal suo telefono delle foto che altri pandilleros in fuga gli inviano da Tapachula, Oaxaca, Città del Messico. Se per un migrante comune la parola ‘asilo’ è nuova, rara, difficile da comprendere, per un pandillero centroamericano è forse più esotica di un koala: chiedere aiuto ad un governo? Eppure loro, i soldati della morte, sono quei casi per i quali il rischio è più facilmente comprovabile. Chi, in Guatemala, a El Salvador o in Honduras, dubiterebbe del fatto che un pandillero che ha tradito la sua gang ha questa cosa che i legali etichettano come “giustificato timore d’essere perseguitato”? La morte alle calcagna.

E., 21 anni, ex-pandillero salvadoreño, fuma una sigaretta all’esterno del minimarket nel quale lavora (Città del Messico, 18 febbraio 2017). FRED RAMOS / EL FARO

Prima di fargli la domanda che segue, spiego ad E. che non sono un idiota, ma che ho delle domande che è necessario fare affinchè restino annotate, nero su bianco.

– “Perché non denunciasti tutto alla Polizia?

– “Sarebbe una follia. Quello che fanno è incastrarti in qualche faccenda o sbatterti da un’altra parte, dove qualcuno della banda avversaria ti ucciderà. Una volta, alle 9 di sera, ci trascinarono a Nahuizalco (zona MS), a petto nudo. Furono loro a uccidere Slow. Lo caricarono sulla volante. Sembrava fossimo su una giostra. Al mattino seguente apparve nel fiume, nella colonia Tamacha, legato, ricoperto di pugnalate”.

Da fine 2014 la Polizia salvadoreña si comporta sempre più come i corpi repressivi degli anni della guerra. I suoi vertici parlano di almeno tre scontri quotidiani con i pandilleros, ma molti di questi, che si chiudono con due, tre, otto cadaveri di giovani inzuppati di sangue, non sono niente del genere. La Procura per la Difesa dei Diritti Umani ha più di 30 fascicoli aperti per esecuzioni extra-legali. In due casi c’è già stata la sentenza: si trattò di esecuzioni, non di scontri. Gente inerme, non gente che sparava.

I rifugiati ufficiali, comunque, sono solo una stima per difetto dei centroamericani in fuga. Sono il dato che cela un numero reale tuttora sconosciuto.

I pandilleros che chiedono protezione sono una piccola minoranza all’interno di questa popolazione. Sono in molti a scappare, ma solo in pochi chiedono asilo. Nell’intero viaggio, ho conosciuto solo E..

– “Torneresti a far parte della gang, se potessi?” – chiedo.

– “Mai nella mia fottuta vita. Fosse per me, che sgancino una bomba e spariscano tutte, quelle merde”.

– “El Salvador è morto e sepolto, per voi?

– “Non vale più un cazzo” – dice l’ex-pandillero su quello che si è lasciato alle spalle.

Si alza dalla sedia e chiama Bryan. Vuole vedere le foto della sorella di Bryan, anch’essa fuggita dall’Honduras, ma verso Madrid.

Bryan è effeminato senza sforzarsi. Sembra quasi che fluttui, al camminare. Appare leggero e delicato in ogni movimento. “Questo perché non mi hai visto vestito da donna. Non per niente, ma mi ci vedo molto bene”, dice. E. ride di lui. Chiedo a Bryan di uscire in cortile per chiacchierare.

Anche Bryan è rifugiato dal 2016. Non ha alcun problema che si scriva il suo nome. Dice che è già apparso in un programma televisivo. Presto lascerà il rifugio e si perderà tra la folla di questa città, o di una città più a nord.

– “Mi chiamo Bryan, ho 20 anni, sono qui in Messico dal settembre dell’anno scorso. Vengo da San Pedro Sula, una delle città più pericolose dell’Honduras. Me ne dovetti andare. Avevo una vita molto bella lì. Stavo per laurearmi in amministrazione d’impresa e mi occupavo del marketing di un’azienda che si chiama ‘Almacenes El Compadre’… Vengo dalla colonia Lomas del Carmen, e lì c’è la MS. Sono cresciuto con loro. È gente della mia età. Volevano che lavorassi per loro”.

Bryan rappresenta quel tipo di ‘frontiera umana’ difficile da spiegare. Non è mai stato un pandillero. È stato loro amico. Ha riso con loro, e ha pianto con loro supplicando per la sua vita. Viveva in quei quartieri. È cresciuto lì. Quella è la sua generazione. Era parte di quella cosa che in Centroamerica viene chiamata ‘la base sociale delle gang’. Un amico, un conoscente che può far loro un favore: avvisare se arriva la Polizia, riportare un messaggio. Finché al comando della gang sale il più rigido dei pandilleros. ‘El Rata’, così era soprannominato quel pandillero nella colonia di Bryan. El Rata non ha più voluto piccoli favori, voleva denaro, e per ottenerlo intendeva sfruttare Bryan pienamente. El Rata pretese che si travestisse, che si mettesse a un angolo del parco centrale e vendesse il suo corpo, come anche cocaina, crack e marijuana.

Le vessazioni andarono crescendo. El Rata aveva in mente altri piani. Uno di questi fu chiedere a Bryan di fare il sicario. El Rata credeva che se Bryan si fosse presentato vestito da donna avrebbe potuto uccidere più facilmente. Spacciare, uccidere, prostituirsi. Bryan era un prodigio nella mente de El Rata.

– “Un giorno i miei compagni mi fecero scendere dall’auto. Mi portarono dal capo. ‘Che hai deciso?’, mi disse. ‘È la tua ultima opportunità’. Non lavorerò per voi. Estrasse la pistola, me la puntò alla tempia e mi disse: ‘quindi sei arrivato a questo punto’. Io feci una scenata, gli dissi che non aveva cuore, che avevo una famiglia. Una tragedia. Aspetta, gli dissi, dammi due giorni per pensarci. Quello stesso giorno me ne andai da casa, dissi alla mia famiglia che per un certo periodo avrei lasciato la città per motivi di lavoro”.

Bryan che fa l’autostop. Bryan che in Guatemala rischiò di essere violentato dall’uomo che gli diede un passaggio. Bryan che lotta con quell’uomo. Bryan che chiede l’elemosina in un parco. Bryan a Tapachula, Messico. Bryan al rifugio ‘Belén’. Bryan ha avviato la sua procedura di asilo. Bryan, dopo tre mesi, era un rifugiato.

– “Bryan, che succederebbe se tornassi?

– “Mi ucciderebbero, senza dubbio. Ho degli amici che mi scrivono: ‘sono infuriati con te perché sei scappato e li hai tagliati fuori. Sei fortunato che non sanno dove vive la tua famiglia’ – mi dicono – ‘altrimenti avrebbero già ucciso tutti’”.

Dietro ogni rifugiato che scappa dalla gang ne restano diversi altri candidati alla fuga. L’esodo centroamericano procede in sequenza, perché le gang sono organizzazioni di controllo del territorio. L’esilio di una persona da uno di questi quartieri ne condanna all’esilio molte altre. Andare in un altro Distretto dello stesso paese, dove le case costino lo stesso prezzo, significa andare in un altro quartiere di bande e dover spiegare chi sei, da dove vieni, e perché.

4

Un’altra vita

(Emporio h.24, Città del Messico, 19 febbraio)

E. sistema la mercanzia negli scaffali colorati del negozio in cui lavora. Oggi è venuto vestito da pandillero: berretto nero, visiera alzata, catena d’oro al collo, tatuaggi in vista, scarpe Nike, camicia larga. Anche lui è sorpreso del fatto di potersi vestire come un giovane qualunque in un sobborgo popolare della città. “È molto strano girare così liberi”.

E. sistema la merce nel minimarket in cui lavora (Città del Messico, 18 febbraio 2017). FRED RAMOS / EL FARO

E. in questi mesi sta programmando di spostarsi verso la frontiera con il Guatemala per portare qui la sua nuova ragazza. Riuscì a far sì che una giovane salvadoreña di 18 anni potesse fargli visita alla frontiera. Se un rifugiato torna nel proprio paese, perde il suo status. Alla frontiera la mise incinta. Ora è al quinto mese di gravidanza, ed E. vuole che suo figlio nasca in Messico. Ha provato a portarla qui 20 giorni fa, ma l’hanno fermata in uno dei tanti controlli anti-immigrazione che fanno al sud. Continuerà a provare fin quando non vi sarà riuscito.

E. è arrivato per dare il cambio turno al gracile ragazzino che sta dietro al bancone.

– “Anche lui è un rifugiato, guarda” – dice E.. È arrivato sette mesi fa dall’Honduras. Volevano ucciderlo.

Il ragazzo preferisce non parlare e si rintana dietro al computer dell’emporio.

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Non è una terra per bambine

(Rifugio per adolescenti, Città del Messico, 19 febbraio)

È un pomeriggio torrido in questo quartiere popolare della metropoli. La maggioranza dei giovani stanno lavorando, oppure sono nei parchi adiacenti le loro case. All’interno del rifugio, Heidin ascolta il racconto di un altro rifugiato hondureño di 18 anni. Lei è una ragazzina di 13 anni, pallida, con un’enorme chioma di capelli. Sorride con facilità, e a volte si isola in un angolo e resta lì, a fissare il pavimento.

L’hondureño racconta ad Heidin che lui era diretto negli Stati Uniti, fuggiva. Non aveva mai sentito parlare di questa storia dei rifugi per migranti. Per questo, quando dovette fuggire, pensò di raggiungere la sua famiglia a New Orleans. Lo fermarono a bordo di un bus alle porte di Città del Messico, nel dicembre dello scorso anno, e la sua procedura d’asilo è ancora in corso. “Passai il 24 e il 31 a piangere nell’Ufficio Immigrazione”, racconta, e Heidin scoppia in una risata.

In Messico un rifugiato può avere due sorti. A) attendere la fine dell’iter della sua richiesta – che può arrivare a durare sei mesi – in un centro di detenzione per migranti. B) attendere lo stesso periodo in compagnia di persone alle quali viene assegnata la propria custodia, che è il caso dei rifugi, tipicamente. L’opzione A comporta che non si possa lavorare. Si è confinati. L’opzione B permette di cavarsela, di fare qualche lavoretto e guadagnare un po’ di denaro. Di norma le autorità non estendono il permesso di lavoro ai richiedenti, ma quelli che stanno nei rifugi si arrangiano come possono.

I rifugiati hanno lasciato i propri paesi in condizioni disperate. Era il pensiero della morte a tenere occupate le loro menti. Ma, dopo, nell’agenda mentale di ognuno si fanno largo altre questioni, meno pressanti rispetto al riuscire a sopravvivere, ma comunque fondamentali: i figli – che molti affidano ai familiari -, le rimesse per mantenerli, la rata della casa che hanno lasciato… La vita.

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Heidin è un caso particolare. Lei non ha mai detto “quella tale persona vuole uccidermi”. Ma alle autorità messicane sembrò scontato che fosse destinata a morire. Non aveva un carnefice definito, ma vantava un paio di peculiarità. Il dipartimento di provenienza, Rivera Hernández. E un’età: 13 anni.

Il ‘pedigree’ del suddetto dipartimento (che raggruppa varie decine di quartieri) è il seguente: dipartimento più violento, del municipio più violento, del secondo paese più violento dell’angolo più violento di mondo. Vi sono state prime pagine che, quando tra il 2015 e il 2016 si passò dall’avere un tasso di 171 omicidi ogni 100.000 abitanti ad uno di 111, celebrarono “la pacificazione di San Pedro Sula”. Il Messico si è indignato perché nel 2016 lo stesso tasso si è aggirato sui 18 omicidi ogni 100.000 abitanti. Furono in molti a tirare un sospiro di sollievo quando in quella città, simbolo della violenza latinoamericana, si ottenne che ‘solo’ uno ogni 1.000 ‘sampedrani’ 3 fosse assassinato.

Nel Rivera Hernández convivono le bande Barrio 18, Mara Salvatrucha, Batos Locos, Tercereños e la banda criminale dei Los Olanchanos. Tutte combattono tra loro e vigilano sui propri affari.

– “Ho assistito a diversi omicidi. La mia casa è all’angolo della strada, e dalla finestra se ne vedono di continuo” – dice Heidin ‘dall’alto’ dei suoi 13 anni.

Quando parla apre gli occhi e li muove, ma paralizza il resto del corpo, come se in quell’istante stesse percependo altro, o come se fosse un capo-scout che inscena una storia di quelle che di notte fanno paura ai ragazzini.

Heidin, che non lascerebbero entrare al cinema a vedere un film di paura senza la supervisione di un adulto, ha visto come accoltellarono sua madre al ventre per derubarla; è stata capace di sfuggire ad un sequestro perché le sue urla strazianti allertarono una pattuglia che girava per il Rivera Hernández; è stata giudicata con collera dai sequestratori, gente nota del posto, considerata un’infame ‘per non essersi lasciata sequestrare in tranquillità’. La vita di Heidin, nel suo barrio sampedrano, sarebbe inadatta anche per i maggiorenni.

Nessuno ha mai detto ad Heidin le ‘parole magiche’ del rifugiato: “ti ammazzo”. Ma è evidente che diversi fattori mettevano a rischio la sua vita. Heidin è rifugiata perché lo Stato messicano ha ritenuto che vivere in quella fetta di mondo avrebbe costituito un elevato rischio di morte per questa ragazzina.

– “Porca vacca! Oggi non mi sono pettinata” – dice Heidin. Apre i suoi occhioni neri, si perde con lo sguardo a terra e si pettina.

6

Da rifugio a campo profughi

(Rifugio “La 72”, Tenosique, Stato di Tabasco, 21 febbraio)

Ormai tra noi diciamo che questo è un campo profughi. Più della metà sono richiedenti asilo”.

La frase la pronuncia il frate francescano Tomás González, fondatore nel 2011 di questo rifugio per migranti –- ora campo per rifugiati –- nel sud del Messico. Furono due episodi a portare alla nascita del rifugio: nell’agosto del 2010, il massacro di 72 migranti per mano dei Los Zetas a Tamaulipas e, quello stesso mese, l’assassinio a colpi di spranga di tre migranti hondureñi qui vicino, nel municipio di Macuspana. Quella volta furono aggrediti cinque hondureñi. Due riuscirono a scappare, tre furono assassinati a sprangate da cinque uomini a volto coperto. Una delle vittime era una donna di 33 anni. La violentarono, poi le misero la testa sui binari della ferrovia, dove finirono di massacrarla con le spranghe di ferro. In origine “La 72” era un campo incolto; con la tenacia del suo fondatore si è convertito, sei anni dopo, in un rifugio in grado di ospitare uomini, donne, famiglie, volontari, una postazione di Medici Senza Frontiere che fornisce sostegno psicologico, un’aula computer e un campo da basket.

Nel rifugio “La 72” alcuni migranti si preparano a trascorrere la notte (Tenosique, Stato di Tabasco, 23 febbraio 2017). FRED RAMOS / EL FARO

Mi sono spostato dalla capitale del Messico a qui, a questa porta d’ingresso per migranti. Tenosique è, già da molti anni, una delle rotte principali della migrazione, perché da qui parte una delle due linee ferroviarie che risalgono il paese verso il nord. In molti cercano asilo qui, perché entrare in Messico non è così difficile come risarirlo senza documenti.

Attualmente il direttore de “La 72” è Ramón Márquez, spagnolo, arrivato qui come volontario più di due anni fa. L’ostello-rifugio solitamente ospita al suo interno 150 persone. Il 90% di queste sono centroamericani, principalmente provenienti, nell’ordine, da Honduras ed El Salvador. La metà di loro non migra. Non vogliono rimettersi subito in cammino. La metà di questa gente è scappata. Cercano asilo, e il rifugio li aiuta nell’iter della richiesta, fornendo loro assistenza giuridica e psicologica.

– “Ricordo che, lo scorso anno, in appena una settimana abbiamo accolto 110 richiedenti asilo. È la cifra più alta che io ricordi in una sola settimana” – dice Márquez.

Questo rifugio, come tutti gli altri del suo genere, non è un hotel di lusso. È un posto in cui i migranti-volontari cucinano instancabilmente. Zuppa di pollo, pasta, fagioli, quello che c’è. È un posto in cui ci sono orari per svegliarsi ed orari per andare a letto. Un posto in cui, quando la casa è piena, si dormirà a terra, sui tappeti, corpo contro corpo. Rifugi come questo ogni anno si prendono cura di migliaia di persone e, dipendendo dalle donazioni, si ritrovano costantemente a dover affrontare nuove urgenze. Ma i rifugi come questo sono, soprattutto, spazi in cui i migranti tornano a respirare. O, come nel caso dei rifugiati, luoghi in cui arrivano dopo una fuga disperata e smettono di pensare a tutto il resto. E, poco a poco, iniziano a parlare. A raccontarsi.

Gli domando perché proprio ora. “Se l’Honduras ed El Salvador si contendono il titolo di paese più omicida almeno dal 2009, perché questo posto viene fuori solo ora? Perché prima i rifugiati non restavano?

– “Le ‘case del migrante’ (i rifugi) hanno iniziato ad affiancare le persone nella richiesta d’asilo. Quando si viene a sapere una cosa, ci si precipita”.

Nei rifugi hanno ascoltato storie terribili, storie di gente in fuga da decenni. Eppure, i migranti continuavano ad essere visti come persone di passaggio. Venivano assistiti dal punto di vista medico, veniva dato loro del cibo, venivano ascoltati e poi li si vedeva ripartire nel giro di qualche giorno, al massimo in poche settimane. Ma a poco a poco, senza che nessuno qui sappia indicare una data esatta, un numero sempre maggiore di essi cominciò a dire: ‘non voglio più continuare, non ho idea di dove andare. Volevo fuggire. Sono fuggito. Quello era il mio piano, niente di più’.

– “Credo che, a prescindere dal fattore Stati Uniti-Trump, abbia influito anche il ‘Plan Frontera Sur’, quel muro simbolico e invisibile piantato nel sud del Messico” – aggiunge Márquez.

Si tratta di un piano – o almeno così lo hanno chiamato – varato il 7 luglio del 2014 dal presidente messicano Enrique Peña Nieto. Fu presentato come un insieme di misure dirette a proteggere il migrante, ma è accaduto che ognuna di quelle misure abbia finito per intralciargli sempre più il cammino: più polizia, più agenti anti-immigrazione al sud (lo stretto punto-vita del Messico), ripristino degli agenti anti-immigrazione a bordo dei treni e, la più famosa e stravagante misura ‘umanitaria’, l’aumento della velocità del treno per rendere difficile che i migranti vi salgano quando semi-fermo, per disincentivare l’uso di quel mezzo di trasporto. È un piano che di ‘umanitario’ ha solo la vocazione di tenere in pugno degli esseri umani.

Vagoni de “La Bestia” fermi a Tenosique da una settimana (Stato di Tabasco, 22 febbraio 2017). FRED RAMOS / EL FARO

Né Márquez né González amano i dati ufficiali. Il Messico assicura che il 62% della gente che ha chiesto asilo, durante il 2016, lo ha ricevuto. Non li amano perché questa percentuale non tiene in considerazione quelle persone che hanno fatto domanda d’asilo senza poi attendere l’esito della procedura. Gente che ne ha avuto abbastanza, che ha avuto bisogno di spostarsi per lavorare ed inviare le rimesse. “Un terzo delle persone abbandonano la procedura. Molte volte, per pura strategia, il Governo ritarda il colloquio personale di 45 giorni feriali. La gente sprofonda nello sconforto a vedersi bloccata per più di 45 giorni”, dice Márquez. “Noi sappiamo ciò che succede, conviviamo con questa gente. E non sto parlando di numeri, ma di gente che viene nella nostra casa e ci racconta la sua storia”.

Se nel 2015 qui hanno accolto 370 richiedenti asilo, nel 2016 sono stati 752 e, nel 2017, hanno una costante di circa 70 richieste attive. “Nel 2014, quando gli Stati Uniti parlarono della ‘crisi dei minori’, qui ne accogliemmo 1.276. Nel 2016 ne abbiamo accolti 1.625. Tra essi, quelli non accompagnati erano 281 nel 2014 e 861 nel 2016”, dice Márquez. Le crisi non si registrano solo quando lo dicono gli Stati Uniti. Ci sono, benché non vengano raccontate né se ne parli.

Oggi non è diverso. Ti ritrovi nel dormitorio per minori e, ad una prima occhiata, ti imbatti in due bambine hondureñe non accompagnate che cercano asilo, quattro neonati – minori di quattro mesi – e sette bambini sui 10 anni.

Eppure anche così, con il rifugio già pieno – per metà di migranti e per metà di rifugiati -, il suo fondatore lascia presagire che arriveranno tempi di maggiore sovraffollamento.

– “La gente qui ancora non sa molto bene cosa sia ‘questa storia di essere un rifugiato’. Dobbiamo aiutarli a capire. Ci sono donne che ci dicono: ‘io non sono un caso da asilo, è che non sopportavo più le botte di mio marito. Mi violentava…’. Molte non dicono apertamente che subivano violenze, dicono che erano costrette ad avere rapporti sessuali. ‘Me ne andavo con mia madre e mi seguiva; con mia sorella, e mi seguiva…’. È proprio per questo che tu sei una donna che deve avere una protezione”.

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Fondato timore

(Zona rurale dello Stato di Tabasco, 21 febbraio)

– “Senti, dissi al palabrero 4, io sono già vecchio e la vita mi sta consumando, ma mio figlio…”.

La frase la pronuncia un uomo di 40 anni, salvadoreño. Certe vite possono logorare molto in fretta. Sono vite che nascono già con la data di scadenza.

Lo stabile in cui vive questa famiglia è molto ampio e si trova nel mezzo di un villaggio piantato nel profondo di una zona rurale dello Stato di Tabasco, Messico, frontiera col Guatemala. Bisogna allontanarsi da Tenosique, in mezzo a strade che tagliano la selva rigogliosa. L’edificio non è di loro proprietà, ed è giusto al lato della strada. È una casa che fu abbandonata senza troppe accortezze: ci sono cianfrusaglie in ogni angolo, scaffali vuoti di quella che fu una farmacia, poster da quindicenne polverosi. Le stanze sanno di chiuso. La famiglia salvadoreña, l’uomo, la donna, il ragazzo e la ragazza, per dormire si dividono tra amache e vecchi materassi. I due genitori entrarono in Messico, senza chiedere il permesso di nessuno, il 3 marzo del 2016. I figli, due mesi più tardi. Fuggivano via da quella vita nauseante. Una famiglia messicana prestò loro la casa chiedendo in cambio che mantenessero in vita le tilapie (un pesce tropicale, n.d.t.) da allevamento nel cortile sul retro.

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L’uomo, 40 anni. La donna, 30. Il ragazzo, 16 anni. La ragazza, 21 anni. I ragazzi sono figli solo all’uomo. E poi un altro: l’amico, fuggito insieme a loro, di 33 anni.

– “…Iniziarono col dirmi che se avessi voluto saldare l’affitto avrei dovuto consegnarglieli. Arrivò un pandillero e mi disse: ‘dacci tuo figlio, altrimenti te lo ammazzeremo…’. Io ho già i miei anni – gli dissi – ma il giorno che toccheranno mio figlio toglierò di mezzo più di qualcuno. Perché, grazie a Dio, ho sempre avuto la mia falce sotto al letto”.

Grazie a Dio”.

Anche la donna ha delle figlie, ma loro sono ancora a El Salvador, lontane dal posto dal quale lei è fuggita.

Il posto in cui viveva questa famiglia, a El Salvador, era terribile per due ragioni: la prima è che si trattava di una pensione, e nell’alloggio della coppia vivevano dei pandilleros. Non si tratta di vicini insopportabili, violenti. È decisamente un altro livello. L’uomo ricorda: “Una volta sentimmo come violentavano una ragazzina di circa 10 anni. Lei, piangendo, urlava: ‘figlio di puttana, va a farlo a tua madre’. Ci divideva solo una parete. Tutto questo ti getta in preda allo sconforto. Uno sente così tante cose. Tante”. La seconda ragione è che questa famiglia viveva e lavorava nel centro di San Salvador. Nel cuore della città, che pulsa al ritmo segnato dalle cinque cellule della Mara Salvatrucha e da quella del Barrio 18 Revolucionarios. Lì la vita dà il voltastomaco. Isolato dopo isolato – dei 250 del centro –, dove ogni giorno passano 1 milione 200mila persone, sono tutti controllati dai pandilleros, che se ne contendono ogni metro. Il centro-città è anche la zona più mortale, nella città più mortale del paese più mortale. Nel 2016 il tasso di omicidi di San Salvador è stato pari a 174. C’è gente, in quella stessa città, che beve cocktails da 10 dollari in club notturni presidiati da guardie private, ma questo non è ciò che accade nel centro. Nel centro-città, ai banchi del mercato, ci sono circa 40.000 commercianti, ambulanti, con carretti o ceste sopra la testa. È in questa calca umana che lavoravano l’uomo, la donna e l’amico. Loro, in un’officina di cambio gomme; lei, in una mensa da pasti a 1 dollaro e 25. Vivevano in uno dei quartieri che fanno da cinta al centro della città.

Un giorno di fine febbraio, l’uomo disse alla donna: “Non ne posso più. Mando mio figlio a casa con sua madre, vendo le poche cose che ho e ce ne andiamo”. Dopo la discussione col palabrero, l’uomo sentiva il fiato sul collo della banda. La stessa cosa stava succedendo all’amico, che aveva avuto una discussione con un altro pandillero per minacce a suo figlio. Il pandillero reclamò 50 dollari per lasciarlo in pace, ma l’amico non li aveva, e così si guadagnò un pestaggio in piena regola e una minaccia di morte. Minacce in casa, minacce sul posto di lavoro. L’uomo, la donna, l’amico, come per necessità lo fanno migliaia di salvadoreñi, vivevano e lavoravano in zone controllate dalla stessa gang. Ma successero alcune cose in più, che loro raccontano come si fosse trattato di eventi collaterali. Dettagli.

La donna: “Io lavoravo con sua sorella (indica l’uomo). Assistevamo a sequestri frequenti. A volte accadeva che i commercianti di un’altra zona spostassero la merce, e solo perché venivano dal mercato, che è zona MS, li bloccavano, li tenevano lì fino a che non fosse arrivata una certa macchina, e via… Ad ucciderli… E dove lavoravano loro ci furono due morti… É grazie a Dio se questo giovanotto è vivo”.

L’uomo: “Lui (l’amico che assiste in silenzio alla conversazione) ed io lavoravamo in un’officina di cambio gomme. Un giorno del 2016 io ero all’esterno con la segretaria. Vidi entrare un giovane, un capo-banda, che arrivò fin dove stava il mio padrone. Lo vidi con la pistola in mano. Sparò in testa al mio capo”.

La donna: “Si, fummo noi a raccoglierne i resti. Tutto quello che gli era uscito dalla testa”.

L’amico: “Chiudiamo tutto. Non potremmo lavorare tranquilli”.

L’uomo: “Come faremo a pagare 20 dollari a una banda e 20 dollari all’altra ogni otto giorni se la gente qui non arriva, per come è messo il centro?

L’amico: “La Polizia voleva che rilasciassimo una deposizione. Non era nostra intenzione. Il giorno seguente arrivarono loro (i pandilleros), e ci dissero ‘cortesemente’ che non avremmo dovuto aprire bocca, già con la pistola in mano”.

L’uomo: “Vedere, sentire e tacere”.

Dettagli.

L’uomo, la donna, l’amico, suo padre e altri due impiegati dell’officina – che videro anch’essi i resti del loro padrone – il 3 marzo 2016 entrarono in Messico.

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La ricerca di una protezione, come la stessa migrazione, è una catena, anello dopo anello. Alcuni aprono una rotta, altri vengono dietro. In questo caso è stato così. Prima i genitori, dopo alcuni dei figli, e in breve tempo quelli che erano rimasti indietro. L’uomo lasciò, con la madre, una figlia di 15 anni e uno di 11; la donna lasciò, con il padre, le sue figlie di 14 e 11 anni; l’amico, con la loro madre, un figlio di 18 anni, una di 13 e un altro di 5. A nessuno, in Messico, è parso strano che nel 2016 siano arrivati sette rifugiati salvadoreñi in più.

Per aprire questa rotta, i genitori di questi ragazzi hanno patito la fame fino al punto che “brontolava loro lo stomaco”. Elemosinarono denaro per poter mangiare solo in due occasioni, perché “ad un certo punto lo stomaco non regge più”.

Dormirono quattro giorni in un riparo fatto di lamiere e cartone, sul monte, sopra il fogliame dei frutteti, “ricoperti di zecche”. La donna, in un piccolo villaggio chiamato El 20, davanti al treno – La Bestia – scoppiò in lacrime. “Fui in preda al panico”.

Finché, ad un tratto, l’uomo decise di abbandonare quell’idea stramba di continuare a risalire migliaia di chilometri fino agli Stati Uniti. I pochi chilometri percorsi erano già abbastanza. Due dei componenti del gruppo proseguirono. La donna, l’uomo, l’amico e suo padre restarono a Tenosique e, con l’aiuto dell’UNHCR, ottennero l’asilo un mese dopo essere arrivati. La loro storia, secondo le autorità messicane, fu convincente.

Lo stampato delle pronunce (della Commissione, n.d.t.), consegnato loro dalla Comisión Mexicana de Ayuda a Refugiados (COMAR), è un pugno in faccia alle autorità salvadoreñe. I politici di quel paese ‘tanto repellente’ dovrebbero rileggere varie volte quelle carte.

La relazione consegnata all’amico contiene frasi come: “Si presume che se lo Stato è incapace o restio a proteggere l’individuo in una parte del paese, potrebbe esserlo anche in altre zone”; “Tra le principali ragioni dell’attuale clima di impunità nel paese si segnalano la debolezza delle autorità giudiziarie, della Magistratura e delle forze di sicurezza, così come la corruzione, che investe a diversi livelli l’Autorità Giudiziaria”. Tutto gira attorno a due parole, che rappresentano il sigillo che racchiude tutto: “Fondato timore”.

In un’intervista rilasciata alla rivista Factum e pubblicata il 22 marzo, Fátima Ortiz, direttrice della divisione “Assistenza alle vittime” del Ministero di Giustizia e Sicurezza, ha garantito che non esistono né centinaia, né migliaia di casi di gente che sia costretta a fuggire. “C’è gente – ha affermato – che se ne va perché ipotizza che possa accadere qualcosa”. Ha ritenuto che il Governo sia stato “molto prudente nel non lasciarsi trascinare sull’onda dei grandi numeri”, e si è persino detta sicura che “in alcuni casi ciò che la gente vuole è solo cambiare casa… e ne coglie l’occasione”.

Per il Governo messicano tutti questi salvadoreñi appartengono ad un determinato gruppo sociale, del quale, senza saperlo, fanno parte migliaia di centroamericani: “cittadini salvadoreñi che si oppongono alle pratiche delle bande”. E che per questo, si potrebbe aggiungere leggendo il documento, sono ad un passo dalla morte.

Il ragazzo di 16 anni, figlio dell’uomo, finora è stato in silenzio ad un angolo del tavolo. Gli chiedo delle vessazioni della banda. Dice che erano costanti, “soprattutto ai più giovani”, che doveva “appartenere a loro” o gli avrebbero tolto la vita. Gli chiedo che pensa della Polizia e dei militari, e se qualcuno ascoltasse distratto la sua risposta penserebbe che sia tornato a chiedergli dei pandilleros: “Ti picchiavano di continuo, se non trovavano nulla da contestarti dicevano che comunque facevi parte della banda, ti dicevano di dire dove fossero gli altri compari o ti avrebbero torturato. Una volta un militare slogò il braccio ad un mio amico, e dopo lo picchiò con il calcio del fucile. Lo lasciarono steso a terra, così. E lui non era nessuno… Non sopporto la vista di un militare o di un poliziotto”.

Domani l’uomo, la donna e il ragazzo si prenderanno cura delle tilapie. L’amico uscirà assieme alla figlia dell’uomo – che ora non è in casa – per spingere un carretto di frutta. L’amico ancora si sorprende che in questo villaggio ridotto in miseria uno possa spingere un carro di frutta per la strada, “andare da tutte le parti, conoscere gente, gridare”, senza che nessuno ti uccida.

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Morti che camminano

(Rifugio “La 72”, Tenosique, Stato di Tabasco, 22 febbraio 2017)

È un altro giorno caldo e umido in questo villaggio alle porte del Messico. I migranti si disperdono tra i tavolini di cemento di fronte al campo da basket del rifugio. Aspettano. Costa fatica immaginare che molta di questa gente, ora abbandonata al torpore, da non molto sia stata protagonista di una fuga disperata.

Il rifugio “La 72” di Tenosique (Stato di Tabasco, 23 febbraio 2017). FRED RAMOS /EL FARO

Il manovale guatemalteco seduto accanto al lavatoio dei panni ha 38 anni e cerca protezione. Dice che il suo quartiere, vicino al centro della capitale, era zona della “18”, ma fu occupato dalla MS. “Mi puntarono le pistole alla testa affinché collaborassi con la banda”.

Il salvadoreño di 24 anni, Víctor, commerciante di pane tostato, racconta che ha lasciato il municipio di Apopa perché “lì è difficile vivere”. Nonostante ciò, lui non è in procedura di asilo. Riuscì ad arrivare negli Stati Uniti, ma lì gli negarono lo status di rifugiato; con quel poco che aveva decise di provare a fare ritorno al sud. Víctor racconta di essere stato aggredito alla frontiera col Guatemala, a El Ceibo, un luogo in cui si verificano frequentemente violenze e rapine. Per esser stato vittima di un illecito in territorio messicano e aver sporto denuncia ha ottenuto un visto umanitario, che gli consente di rimanere almeno un anno (rinnovabile) nel paese. “Nel mio quartiere, più o meno tre mesi fa, la Polizia ha ucciso alcuni pandilleros. Uno precipitò dal tetto della casa in cui vivevo, di fianco alla mia camera. Sui giornali pubblicarono le foto della mia stanza”. È difficile stabilire qual è l’episodio a cui fa riferimento. La conversazione è stata breve. Non gli ho chiesto i dettagli. Negli ultimi sette mesi si sono registrati almeno otto scontri armati nei quartieri di Apopa. Morti: 16 presunti pandilleros e un poliziotto.

Una donna del Distretto di Cortés, Honduras, appare angosciata, piange. Si dirige verso Víctor. Racconta che alcuni pandilleros hanno picchiato i suoi figli per aver rifiutato di cedere una proprietà, nel suo paese. Dice che cercherà un telefono per chiamarli. Piange. Torna a sedersi. Si rialza. Se ne va.

Dario sfoglia un fumetto assieme alla sua ragazza, di 16 anni. Lui, 21 anni, hondureño, ha il muso lungo e, sotto i suoi lunghi capelli, è pieno di cicatrici. “Sono segni di machete”, dice. “Spacciavo droga per la “18” in un quartiere del municipio di Jesús de Otoro, a Intibucá. Nel municipio la Mara Salvatrucha è più potente. Spacciavo tocchi da 20 Lempiras (circa 85 centesimi di dollaro)”; 15 per la banda, 5 per lui. Per vendere abbastanza da poter soddisfare le richieste della gang avrebbe dovuto sconfinare nella zona rivale. Smettere di vendere non sarebbe stata una scelta cauta. In un’imboscata, nel dicembre del 2016, quattro M-S lo quasi uccisero a sassate. Rimase ricoverato per due giorni. “Appena uscito ne accoltellai uno e lo lasciai in una risaia”. Dopo, prese con sé la sua ragazza, ancora bambina, passò tutto il mese a lavorare in montagna, nelle piantagioni di caffè, guadagnando 2.000 Lempiras (85 dollari), e scappò. Il 14 febbraio ha avviato la sua procedura di asilo. La sua ragazza l’ha fatto qualche giorno prima.

Più in là, a tre metri, c’è una famiglia hondureña. Lei non parla, è turbata. Sul grembo tiene suo figlio, di un anno. Al suo fianco, suo marito, 25 anni, ‘esattore’ e autista di autobus a La Ceiba, Distretto di Atlántida. In quella città, il tasso di omicidi dà scandalo sulle pagine dei quotidiani solo quando supera i 100 morti ogni 100.000 abitanti. Al di sotto, è la normalità. Il perché della loro presenza qui è presto detto: lui era il prescelto della “18” per la riscossione delle estorsioni. La palabrera della sua zona ritenne che lui potesse essere un buon elemento. Gli ‘chiese’ di entrare nella banda. Lui disse di no. Glielo chiese di nuovo. Lui ripeté di no. Gli diede 24 ore per accondiscendere, fuggire o morire. Fuggì. Ora lui e sua moglie sono in procedura di asilo.

Basta venire in questo rifugio e parlare con quelli che ammazzano il tempo intorno al campo per rendersi conto di come, una delle ragioni per le quali il nord del centroamerica non registri un numero di omicidi ancor più spaventoso, è perché molta della sua gente cerca di mettersi in salvo da sé. Morti che camminano. Questo erano. Hanno scelto, senza il supporto di alcuna autorità, di continuare a vivere. Quest’anno si stima che saranno oltre 20.000 le persone che chiederanno asilo in Messico. Se così non fosse quante, tra loro, sarebbero null’altro che un numero in più nelle statistiche della morte in Centroamerica? 10, 100, 1.000, 10.000?

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“Dov’è che non ci sono poliziotti?”

(Stato di Tabasco, 22 febbraio)

Quando Gustavo decise di scappare assieme ai suoi due figli e a sua moglie, i suoi sequestratori gli avevano tagliato il dito già da due settimane. Non scappò immediatamente dopo la tortura. Scappò quando capì che, nonostante avesse pagato, gli avrebbero tolto qualcosa di molto più importante: suo figlio.

Era al mercato di San Benito, a Petén, Guatemala, molto vicino alla frontiera col Messico. Mentre passeggiava, alla ricerca di patate e pomodori, ricevette una telefonata. “Mi dissero che dovevo lasciar perdere la denuncia, che non intendevano uccidere mio figlio, che già sapevo cosa bisognava fare. ‘Tuo figlio gira con degli shorts rossi e una maglietta bianca’. Corsi verso mio figlio, nel mercato. La mia sorpresa, quando arrivai dov’era lui, fu vedere una radiopattuglia della polizia, ferma di fronte, andarsene all’improvviso. Cosa vuole che pensi? In quel preciso istante abbiamo preso il poco che avevamo e siamo fuggiti verso il Messico”, ricorda.

Il 6 giugno 2016 Gustavo, in Guatemala, fu sequestrato da una banda chiamata “Los Falsos Pastores” e tenuto in prigionia per una settimana. Il suo mignolo fu mutilato ed inviato ai suoi familiari per spingerli a pagare il riscatto di 1 milione di quetzales (136mila dollari). Ora Gustavo vive in Messico con la sua famiglia, come rifugiato. FRED RAMOS / EL FARO

Gustavo sa perfettamente che i suoi sequestratori sanno che li ha denunciati. Per questo insiste sul fatto che omettere il suo nome non serva a nulla. È un uomo sui 50, robusto. Mi riceve al tavolo della sua nuova casa, un piccolo appartamento di due vani, al secondo piano di una struttura in costruzione in un villaggio di questo Stato. È quello che può permettersi per il momento. Lo circondano sua moglie, 42 anni, e i suoi figli, 16 e 9 anni.

Gustavo è quello che in Centroamerica ci piace lodare come un uomo benestante, ragionevole, retto e corretto. Con non poca fatica riuscì ad uscire dalla sua povertà: se ne andò, senza documenti, negli Stati Uniti, dove visse di sacrifici per sette anni, fino a quando non mise assieme un discreto capitale e tornò nel suo paese per investirlo. Dopo 15 anni da commerciante nel suo paese, Gustavo aveva due negozi di vestiti usati che arrivavano dagli Stati Uniti, una rivendita all’ingrosso di sementi e un negozio di compravendita di carri e terreni. Qui vicino, dall’altro lato della frontiera messicana, nel Distretto di Petén, lui era un uomo benestante. Benestante, in alcuni posti del Centroamerica, significa possibile preda.

Il 6 giugno del 2016, mentre andava verso il municipio di Poptún per vedere un terreno che gli offrivano, dieci uomini lo bloccarono e lo portarono in una grotta nella montagna. Iniziò la sua settimana di sequestro.

Volevano un milione di quetzales (circa 136.000 dollari). Ma uno non tiene mica il denaro accumulato, lo investe. Mi legarono con le mani dietro la schiena. Rimasi una settimana senza mangiare. Mi davano dell’acqua una volta al giorno. Mi ripetevano che mi avrebbero ucciso anche se avessi pagato. Mi misero un passamontagna. Io, col capo, cercai di fargli delle incisioni fino a creare un foro. Quando alzavo il collo, come per fare esercizio, riuscivo a vederli in volto”, dice Gustavo mentre piange, con sua moglie che piange anch’essa di fianco a lui.

Circa a metà settimana mi tagliarono il dito per mandarlo alla mia famiglia, come a dimostrare che parlavano sul serio”. Lo portarono fuori dalla grotta. Gli legarono una stecca di legno sotto il mignolo destro e, con un machete, gli staccarono un pezzo di dito, dal centro verso la punta. ‘La prossima cosa che staccheremo – gli dissero – sarà la tua testa’. “Se mi ucciderete solo più tardi, almeno ora datemi qualcosa per calmare questo dolore”, chiese Gustavo. Non gli diedero nulla. Dopo che fu liberato, il suo dito dovette essere amputato del tutto, perché in quella grotta si era putrefatto.

Gustavo all’interno del negozio di abiti usati del quale è attualmente proprietario nello Stato di Tabasco (Messico). In Guatemala fu sequestrato, torturato e perseguitato da una banda denominata “Los Falsos Pastores”. Dal luglio 2016 Gustavo vive in Messico come rifugiato (22 febbraio 2017). FRED RAMOS / EL FARO

La sua famiglia chiese dei prestiti, chiese a chiunque, vendette delle proprietà. Erano impegnati in queste faccende quando ricevettero il pezzo di dito. Chiamarono. Dissero che avrebbero pagato, pregarono di non ricevere più ‘pezzi’ di Gustavo. Vendettero tutto, chiesero aiuto ovunque. Pagarono.

Quella notte lo tirarono fuori dalla grotta. Gli poggiarono il collo su un ceppo di legno, affilarono un machete e dissero a Gustavo che al suo fianco aveva dei badili, che il suo corpo sarebbe stato interrato fuori dalla grotta e la sua testa lanciata in un fiume nel municipio di Cobán. Gustavo racconta che in quel momento ebbe una visione: lui rientrava a casa e incontrava i suoi figli, stesi in terra, sfiniti dal pianto. Lo vedevano, piangevano più forte, “ma di gioia, alla fine di gioia”.

Gustavo racconta che in montagna, di notte, era possibile ascoltare le conversazioni telefoniche nonostante parlassero a bassa voce. Qualcuno chiamò. Sembrava parlare come un capo. Disse che non avrebbero dovuto tagliarli la testa, che sarebbe arrivato in pochi minuti. Arrivò. Liberarono i polsi di Gustavo. L’uomo si scusò, disse che qualcuno aveva incastrato Gustavo, anche se non gli disse per cosa. Gli disse che quella stessa notte l’avrebbero liberato, ma che avrebbe dovuto ricordare di non parlare se avesse voluto continuare a vivere. Gustavo crede che lo liberarono perché è parente di un giudice, e il capo di quei criminali lo venne a sapere prima che lo decapitassero. Preferirono scongiurare l’inconveniente.

Ritratto di famiglia: Gustavo Castellanos con sua moglie (42 anni) e i suoi figli (di 9 e 16 anni) all’interno della loro abitazione in Messico. FRED RAMOS / EL FARO

Gustavo continuava a portare il passamontagna sul volto, ma sapeva bene chi erano alcuni dei suoi sequestratori. Già da vari giorni aveva aperto un foro nel tessuto, raschiandolo con una pietra. “Tra loro c’erano poliziotti ed ex-poliziotti, erano dei Los Falsos Pastores”, dice Gustavo. Il Centroamerica sa essere temibile anche senza il bisogno dei suoi pandilleros.

A partire dal 2014, le autorità guatemalteche hanno arrestato vari sequestratori in diversi episodi, a Petén come in altri Distretti. Si diceva che si facessero chiamare ‘Los Falsos Pastores’, perché in alcuni casi utilizzavano il ruolo di pastori evangelici per avvicinare le vittime; vittime dalle quali, in seguito, avrebbero preteso anche milioni di quetzales. Cinque degli arrestati, compreso il presunto capo, Marco Baudilio Godoy, evasero dal carcere nel maggio del 2015. La banda continuò ad operare anche nel 2016. Furono sequestrati diversi allevatori e commercianti di Petén. Almeno ad un altro tagliarono il dito di netto.

Appena gli fu possibile, mentre già si trovava in procedura di asilo in Messico, Gustavo, di sua iniziativa e in gran segreto, tornò in Guatemala per testimoniare contro i suoi sequestratori. Lo fece nonostante fosse consapevole del fatto che il suo Stato non avrebbe potuto proteggerlo. Lo fece perché credette che potesse essere importante.

Il primo luglio del 2016, 18 giorni dopo esser stato liberato e 22 giorni dopo esser stato mutilato, Gustavo e la sua famiglia scapparono dal paese. Ora risiedono stabilmente in Messico.

– “Perché non andasti in un altro posto del Guatemala?” – chiedo come se fossi un intervistatore della COMAR (la Commissione messicana di supporto ai rifugiati, n.d.t.).

– “Le rispondo con un’altra domanda: in quale posto del Guatemala non c’è polizia?” – replica alla mia domanda.

– “Cosa avete lasciato lì?

– “Tutto. Avevamo case, terreni, tutto, tutto. Tutto. Non avevamo il denaro per il riscatto. Devo ancora restituire 50.000 quetzales”.

– “Rinnega il suo paese?

– “Con il Guatemala ho chiuso. Non voglio avere più nulla a che fare col Guatemala”.

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Una minaccia e un incendio

(Stato di Tabasco, febbraio)

In un piccolo alloggio al terzo piano vive una famiglia di Cortés, Honduras. Il giorno si avvia alla fine, e anche il calore sembra offrire una tregua a questa frontiera. Il grande albero di mango della coppia si riempie di uccellini che cinguettano come se chiedessero aiuto. Lei, Zulma, madre di 35 anni, indica una piccola casa di fronte: “Lì vivono due miei nipoti. Gemelli. Loro scapparono prima di noi. Cominciarono con loro e dopo piombarono addosso a noi”, dice.

22 febbraio 2017 - La famiglia di rifugiati hondureñi nella loro casa in Messico. Da sinistra a destra: German (33 anni), Vivian (17), Arnold (18) e Zulma (35). FRED RAMOS / EL FARO
22 febbraio 2017 – La famiglia di rifugiati hondureñi nella loro casa in Messico. Da sinistra a destra: German (33 anni), Vivian (17), Arnold (18) e Zulma (35). FRED RAMOS / EL FARO

All’inizio del 2016 il loro obiettivo era lui, Árnol, 18 anni. I cugini di Árnol fuggirono perché le bande – sì, entrambe, la M-S e la 18 – li volevano con loro. C’è un solo modo per dire no alle gang: scappare. E se non toccò a loro, presto sarebbe toccato ad Árnol. Lo seguivano. Lo picchiavano. Lo minacciavano. Sorvegliavano la sua casa. Tornarono a picchiarlo. La famiglia decise di scattare delle foto.

Mettono sul pavimento – non hanno un tavolo, hanno solo tre sedie e due barili di legno – alcune polaroid delle braccia livide di Árnol.

Testimonianze fotografiche delle lesioni riportate da Arnold a seguito delle violenze subite dai pandilleros (22 febbraio 2017). FRED RAMOS / EL FARO

Andarono avanti. Arrivarono i messaggi anonimi. Mettono a terra le poche cose che ancora conservano. Con lettere ritagliate da diverse riviste e quotidiani, i pandilleros scrissero: “Bene, visto che non ci date retta mettetevi al sicuro, perché vogliamo che lasciate libera la casa”.

Andarono comunque avanti. Resistettero per un mese e mezzo. Una notte arrivarono i pandilleros, decisi a portarsi via Árnol. Il suo patrigno, German, di 33 anni, oppose resistenza. “Mi riempirono di botte”, dice mentre gli uccelli in giardino intensificano il cinguettio.

Andarono ancora avanti. Denunciarono tutto alle autorità. Aspettarono alcune settimane. Andarono a vivere a casa della sorella di Zulma, in un altro Distretto. Credettero che per una volta la giustizia hondureña avrebbe potuto funzionare bene, così da permettere loro di far ritorno a casa. Avevano fretta di tornare: lì avevano messo su un piccolo negozio da parrucchiere dal quale, nei fine settimana, Zulma e German riuscivano a guadagnare qualche soldo in più. Ma i pandilleros diedero fuoco alla loro casa e al loro negozio. Mettono a terra le foto che mostrano una struttura di cemento annerita dalle fiamme, senza più porte, né finestre, né nulla. Così è ridotta.

Sinistra: Messaggio di minacce inviato dai pandilleros alla famiglia hondureña formata da German (33 anni), Zulma (35), Arnold (18), Vivian (17) e Harold (11). I pandilleros volevano che Arnold entrasse a far parte della banda. – Destra: L’immobile in cui la coppia aveva l’attività a Cortez (Honduras), dato alle fiamme dai pandilleros per ritorsione nei loro confronti (22 febbraio 2017). FRED RAMOS / EL FARO

Abbandonarono l’idea di vivere in Honduras. Il 29 maggio del 2016 chiesero un passaggio ad alcuni camionisti e fuggirono tutti: Zulma, German, Árnol e anche Vivian, di 17 anni, e Harold, di 11. Sono rifugiati in Messico. Credono che presto arriverà anche la sorella di Zulma, madre dei gemelli di fronte. “Le hanno già sfondato la porta di casa con un machete”, dice lei.

Nelle loro teste c’è l’idea di andare a nord. “Questa è la porta d’entrata al Messico”, dice Zulma. “Molti hondureñi passano di qui, anche alcuni pandilleros”, dice German.

Temono che il loro paese possa seguirli.

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Essere di loro proprietà, ad ogni costo

(Rifugio “La 72”, Tenosique, Tabasco, 23 febbraio)

N. ed M. trascorrono il pomeriggio sedute ai tavoli che circondano il campo da basket. Mi avvicino. Chiedo loro se sono migranti o se cercano asilo: “Asilo”, dice N.. Chiedo loro da dove vengono. “Dal municipio di Santa Bárbara, Honduras”, dice M.. Chiedo da cosa scappano. “Da alcuni narcotrafficanti”, dice N..

N. ha 15 anni. M. ne ha 16. Sono delle bambine.

Secondo uno studio presentato dalla Universidad Nacional Autónoma a fine 2015, il Distretto di Santa Bárbara è uno dei tre, in Honduras, con il più alto tasso di denunce ufficiali di violenza sessuale.

M. ha gli occhi tristi, verdi. Ha un corpo sottile, bianco e delicato, un corpo che è evidente debba ancora maturare. N. ha un corpo di donna, ma un viso infantile. Paffuto e grazioso.

È l’ora del pranzo al rifugio “La 72” (Tenosique, Stato di Tabasco). Secondo il fondatore del rifugio, Tomás Gonzáles, oltre la metà dei migranti che arrivano qui chiedono asilo in Messico (22 febbraio 2017). FRED RAMOS / EL FARO

La piccola N. è madre di un’altra piccola di un anno. L’ha messa al mondo quando aveva 14 anni. La sua bambina, della quale mi mostra delle foto, è rimasta in Honduras. Suo padre, un narcotrafficante molto conosciuto del posto, avvertì N. che, se avesse portato via la bambina, tutta la sua famiglia sarebbe morta. Il narcotrafficante ha iniziato ad abusare di N. quando lei aveva 9 anni. La violentò assieme a due amici mentre lei, a 9 anni, rientrava a casa dopo aver lavorato nei campi di caffè per guadagnare qualcosa. La violentò, ancora con i suoi amici, a 11 anni, mentre passeggiava nei pressi di un parco. La violentò e la mise incinta a 13 anni, una volta che era uscita per fare compere all’emporio. Anche i suoi amici la violentarono quella volta, ma N. ricorda che “due di loro usarono precauzioni”.

N. racconta che il narcotrafficante ha cercato di portarle via la bambina in diverse occasioni, e che lei stessa ha sporto denuncia alla stazione di polizia. Le minacce non cessarono. “È che lì, a casa mia, comandano loro, i narcos”. Lo scorso gennaio ha deciso di fuggire per provare ad arrivare negli Stati Uniti ed inviare denaro a sua figlia, nell’attesa di ideare un piano per portarla con lei. Sua figlia, per ora, è con la madre di N..

Ma N. non è fuggita da sola. È scappata assieme alla sua migliore amica, M..

Chiedo ad M., di 16 anni, com’è il suo villaggio. Dice che è molto carino, “alle spalle di alcune montagne, con il wi-fi nel parco”. Le chiedo perché è scappata da lì. Dice che un giorno, alla porta di casa sua, è apparso dal nulla un biglietto con alcuni cioccolatini. Il biglietto diceva che lei era una ragazzina molto bella. “Cose da corteggiamento”, dice M.. Il biglietto non aveva mittente. Per 3 mesi continuarono ad arrivare regali: “fiori, rose, peluche”. Un giorno, M. se ne stette fuori da casa sua per cercare di scoprire chi la corteggiava. Vide arrivare un’auto e un uomo sulla trentina. L’uomo lasciò una scatola, “tipo un portagioie”, e andò via. Lei indagò su chi fosse, e l’uomo risultò essere un noto narcotrafficante del suo villaggio, parente dello stupratore di N.. “Si dice che prima abusi delle donne, e poi le venda ad un bordello”. M. ne parlò con sua madre, e insieme idearono il piano di fuga che avevano a portata di mano: M. andò a lavorare come donna delle pulizie fissa in una casa della capitale. Sua madre andava a farle visita. Nel dicembre del 2016, dopo quattro anni e qualche mese, alla vigilia del suo compleanno M. fece ritorno al suo villaggio. Il 30 ricevette un altro biglietto dal suo corteggiatore: “diceva che il regalo che mi avrebbe fatto per il mio compleanno non l’avrei dimenticato, che quel giorno io sarei diventata sua e mi avrebbe portata via”. M. non uscì di casa per quasi un mese. Lo scorso 29 gennaio prese con sè 1.500 Lempiras (63 dollari) e si unì alla fuga di N..

I minori del rifugio “La 72” ricevono dei giochi donati dalle famiglie tenosiquensi (Tenosique, Stato di Tabasco, 23 febbraio 2017). FRED RAMOS / EL FARO

Scapparono dai loro stupratori e si imbatterono in altri stupratori. A Santa Elena, Guatemala, conobbero tre uomini che dissero loro di essere dei migranti e che avrebbero potuto aiutarle ad arrivare in Messico. M. racconta che “si guardavano complici”. E in effetti quegli uomini le aiutarono a passare la frontiera. Una volta ad El Ceibo, gli uomini dissero che avrebbero riposato in un posto, e le portarono in “una casa apparentemente abbandonata”. Erano le 10 di sera. N. ed M. si misero a letto assieme, abbracciate. Uno degli uomini estrasse una pistola. “Disse che sarebbe stato meglio se avessimo collaborato. Io non dissi nulla. Né mi mossi. La mia amica iniziò ad agitarsi e le diedero una sberla”, racconta M.. I tre uomini violentarono le ragazze. “Stetti molto male. Tre uomini. Fu molto dura. Dopo mi addormentai”, dice M. senza il minimo accenno di pianto. Quando si svegliarono, gli uomini ormai non erano più lì. Le ragazze camminarono fino ad una masseria, dove una signora diede loro da mangiare, da lavarsi e chiamò uno dei frati de “La 72”, che andò a prenderle. N. arrivò al rifugio ricoperta di ematomi dovuti ai morsi, sul petto e su una coscia.

Hanno iniziato la procedura d’asilo, ma non sono sicure di aspettarne la fine. Ora come ora non sono sicure di nulla. Entrambe ripeterono una stessa frase: “Non posso andare avanti a piangere”.

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Fuggire

(Rifugio “La 72”, Tenosique, Tabasco, 23 febbraio)

Un salvadoreño è seduto nella sala usata per i pasti, da solo. Sono quasi le 9 di sera. Gli altri, nel rifugio, si preparano ad andare a letto. Il nuovo arrivato aspetta che gli sia assegnata una sistemazione. Ha ancora lo zaino in spalla. Ha uno sguardo perso ed impaurito, allo stesso tempo. Fissa il vuoto, ma risponde con uno spasmo ad ogni rumore che sente intorno a sè.

– “Cosa c’è, fratello? Salvadoreño?” – chiedo. Il suo corpo è attraversato da un fremito. Mi guarda.

– “Si. Di Acajutla”.

– “Sei fuggito?

– “Sono fuggito”.

– “Sei fuggito” – ripeto a voce alta.

– “Si… Dicono che qui si possa vivere”.

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Crediti

PROGETTO: Univision Noticias, El Faro

TESTO E NARRAZIONE: Óscar Martínez

DISEGNO: Juanje Gómez, Andrés Góngora

MONTAGGIO: Juanje Gómez y Daniel Reyes

ILLUSTRAZIONI: Mauricio Rodríguez-Pons

ANIMAZIONE: Mauricio Rodríguez-Pons, Ricardo Weibezahn

VIDEO: Almudena Toral, Maye Primera, Nacho Corbella

FOTOGRAFIA: Fred Ramos, Almudena Toral

MAPPA: Luis Melgar

EDIZIONE TESTI: Ricardo Vaquerano, José Fernando López

SOCIAL MEDIA: Sergio Peralta, María Carolina Hurtado

PRODOTTO DIGITALE: Andrés Barajas, Paola Duque

SVILUPPO: Juanje Gómez, Andrés Góngora, Fabián Padilla, Cristhian Mora

TRADUZIONE: Saúl Hudson, Juan Tamayo

EDIZIONE TESTI IN INGLESE: David Adams, Jessica Weiss

  1. Membro di una gang centroamericana, in gergo.
  2. Altro termine che sta ad indicare i membri delle gang del Centroamerica. D’ora in poi sarà largamente utilizzato nel testo
  3. Abitanti di San Pedro Sula (Honduras).
  4. Termine che indica il pandillero che è a capo di una cellula della gang.