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Le migrazioni hanno la memoria corta

di Laura Cima

Photo credit: Riccardo Cananiello (Roma, 10 novembre - Manifestazione nazionale "Uniti e solidali contro il DL Salvini")

A dispetto del Novecento, il secolo breve, in cui il progresso e la tecnologia sono stati il Galeotto verso l’Era Moderna, gli inizi degli anni duemila verranno di certo ricordati per le grandi Migrazioni.

In questo ventennio, infatti, abbiamo visto quotidianamente immagini di enormi flussi di persone, veri e propri fiumi umani in cammino verso il loro Occidente, la loro Terra della Speranza, da raggiungere con ogni mezzo possibile che sia in aereo, in barca, aggrappati ai tir, nascosti nelle cisterne, a piedi o stretti ad un salvagente.

Questi flussi migratori hanno coinvolto tutto il mondo, nessuno escluso, smuovendo gli equilibri (poi non così tanto solidi) che ci erano stati lasciati in eredità dalle ultime grandi guerre, creando dei corridoi che partono dal Centro America, passano per il Messico e cercano di rompere le frontiere, ormai sempre più alte, degli Stati Uniti; oppure i terribili tragitti che partono dal Centro Africa e dagli Stati più poveri del continente, nella speranza di raggiungere l’Europa, tramite le varie rotte che passano per l’Algeria, il Marocco, la Libia e L’Egitto, incappando spesso negli atroci meccanismi di carceri e torture ormai tristemente noti, cercando di aprirsi uno spiraglio verso la Spagna, l’Italia, la Grecia o la Turchia; ed infine, i lungi viaggi sui barconi che raccolgono persone disperate e sfollate provenienti da tutto il Sud-Est Asiatico con la speranza di approdare in Australia.

Ovviamente la questione delle migrazioni non è un esclusiva del nostro secolo, ma un fenomeno molto più antico, che fa parte della storia dell’uomo, del suo DNA e del suo istinto che da sempre l’ha spinto a migrare per ricercare condizioni più favorevoli per la propria sopravvivenza, perché è proprio di questo che si tratta, di ricercare maggior benessere per se e per la propria famiglia, un benessere che non può essere garantito nel posto da cui si scappa, la propria casa.

Tornando ad un passato molto vicino a noi, arriviamo ad inizio del Novecento ai nostri nonni e alle loro famiglie che spesso decidevano di partire in cerca di fortuna, spostandosi verso il Nord Italia o verso il Nord Europa o che, addirittura, facendo il grande passo, si spostavano oltreoceano nella Terra delle Promesse, l’America. Qui le condizioni che i nostri parenti dovevano affrontare erano le medesime che vivono i migranti provenienti dall’Africa o dall’America Latina in Europa: cercare di entrare in punta di piedi in un posto che non vuole lo straniero, che lo guarda male e lo emargina (se non peggio), in un posto dove si parla una lingua diversa, dove si mangia cibo diverso, dove ci si veste in maniera diversa e dove ci si sente diversi.

Buona parte delle migrazioni dei nostri nonni, ha aiutato la nostra società a formarsi così come oggi la conosciamo e ha costituito il nostro benessere attuale, lo stesso benessere che rappresenta un modello da raggiungere ed emulare per gli attuali migranti; ovviamente per arrivare a questo punto è stato necessario fare molti sacrifici e sforzi che hanno generato molta sofferenza, sofferenza per l’abbandono, sofferenza per la lontananza, sofferenza per il lavoro.

Oggi le storie dei migranti sono il nostro pane quotidiano che ogni giorno i mass media portano sulle nostre tavole e che in totale apatia accompagnano i nostri pasti con crude e strazianti immagini delle grandi “invasioni”, che lasciano il tempo che trovano e che verranno già dimenticati dopo il caffè. Eppure ogni giorno si parla della questione delle migrazioni, ma non nel suo aspetto umano, bensì nel suo aspetto puramente economico e politico, divenuta ormai il baluardo di becere e medievali strategie politiche.

Quello che non risulta essere chiaro in questo quadro, è che fine abbia fatto la memoria della nostra società (figlia anch’essa di migrazioni) che, invece di accogliere costruisce muri, invece di integrare esclude, invece di porgere la mano punta il dito.

La nostra società ha preso una chiara posizione riguardo a questa problematica, e così facendo ha rinnegato parte della sua storia, ha dimenticato le sofferenze dei suoi nonni.