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Visualità & (anti)razzismo (libro in download gratuito a cura di InteRGRace*)

Padova University Press, 2018

Questo libro riflette sulle immagini che riproducono gerarchie razziali; sulle ambivalenze dei tentativi di (dis)fare la “razza”, mostrandola o viceversa occultandola; infine, sulla dimensione “contro-visuale” delle battaglie culturali e politiche esplicitamente anti-razziste.

Visualità & (anti)razzismo
a cura di Elisa AG Arfini, Valeria Deplano, Annalisa Frisina, Gaia Giuliani, Mackda Ghebremariam Tesfaù, Vincenza Perilli, Alessandro Pes, Tatiana Petrovich Njegosh, Gabriele Proglio, Daniele Salerno e Alessio Surian per InteRGRace

Prima edizione 2018, Padova University Press

Progetto grafico di copertina
Padova University Press

Immagine di copertina
© Malala Andrialavidrazana

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Introduzione

“Razza”, (anti)razzismo e (contro)visualità

Annalisa Frisina e InteRGRace 1

Per imparare a vedere il mondo contemporaneo (Mirzoeff 2017), con le sue diseguaglianze crescenti e i suoi pervasivi processi di razzializzazione, bisogna saperlo immaginare altrimenti. Come studiose/i di “razza” e razzismi, ci siamo impegnate/i da tempo a prendere sul serio la cultura visuale nella quale siamo immersi e attrezzare i nostri sguardi con strumenti critici, interrogando le radici strutturali, storiche e transnazionali degli immaginari contemporanei sulle migrazioni e sulla guerra globale al terrorismo. I modi in cui vengono rappresentati visivamente i corpi neri che sbarcano a Lampedusa ci fanno riflettere su eredità storiche mai sopite, di quando il Mediterraneo era lo spazio di scambio e riarticolazione dei discorsi sulla diversità e sulla gerarchia fra “razze2. I corpi dei migranti, dei Rom o dei musulmani, che minaccerebbero la “civile” Europa, mettono in scena idee “antiche”, legate ai processi di costruzione degli stati-nazione, alla produzione di marginalità ed esclusione sociale che li ha segnati (per il caso italiano, si veda il lavoro di David Forgacs, 2015). Le rappresentazioni visive dell’alterità non sono scindibili dai modi in cui viene continuamente ricostruito a livello culturale, politico e giuridico un ideale di cittadinanza, che include progressivamente – e in modo differenziale – alcuni soggetti e gruppi, mentre continua a escluderne altri.

Il nostro libro intende de-naturalizzare i modi in cui vediamo noi e gli altri, nella convinzione che sia utile continuare a nominare/svelare la “razza” come dispositivo culturale di gerarchizzazione dell’umanità e riconoscere la pluralità delle forme di razzismo e di antirazzismo nella società contemporanea.

La moderna categoria di “razza” si sviluppa nel contesto transnazionale del colonialismo e della tratta atlantica. Come ha sostenuto George Mosse, essa viene poi ri-articolata durante l’Illuminismo sulla base dell’assunto che il corpo e le sue parti siano segno visibile e certo della differenza e inferiorità intellettuale, cognitiva, emotiva e morale tra le “razze” (Mosse 1986, 24-25). La critica poststrutturalista, nell’atto di criticare l’idea di scienza come “ricerca del vero” ha messo in discussione tale principio: la visione è piuttosto un atto sociale, e di conseguenza, afferma Judith Butler, vedere la “razza” non equivale a un atto percettivo diretto, senza mediazioni, ma piuttosto a una “produzione razzializzata del visibile” (Butler 1993, 16). Negli ultimi anni il fecondo intreccio tra Critical Race Studies e Visual Studies ha portato a indagare la sfera del visuale come “campo performativo”, in cui il vedere la razza “non è un atto trasparente”, ma un atto fortemente performativo, “un fare la razza” (Fleetwood 2011 [traduzione nostra]).
Siamo consapevoli che l’uso del termine “razza” in Italia sia controverso in ambito accademico.

C’è chi ha proposto di sostituirlo con “colore della pelle3 ribadendo il fatto che le “razze umane” non esistono, perché è provato scientificamente che non abbiano fondamento biologico (Barbujani 2006). Mantenere il termine “razza” allora contribuirebbe a legittimare il razzismo?

Anche quando l’esistenza della “razza” è negata e diviene un tabù nominarla, in quanto europei continuiamo a vedere l’alterità attraverso il filtro e la lente culturale della “razza”, che è stata centrale per la costruzione della modernità europea capitalista. La “razza” non corrisponde con il colore della pelle, e la bianchezza è una specifica interpretazione di elementi fisici (Giuliani in Milicia 2016), che assegna, a chi ricopre determinate posizioni sociali (definite da “razza”, genere, sessualità, classe, religione, etc.), ciò che viene definito white privilege. La “razza” ha delle ricadute pesanti sulle vite delle persone razzializzate e di quelle considerate “bianche” (percepite come la norma, dunque al di fuori della “razza”), in termini di opportunità, diritti e privilegi. La “razza” è il frutto di un abuso di potere (l’imposizione del segno), ma è anche un segno abitato, quotidianamente reinterpretato e vissuto in modo resistente da coloro che sono marchiati come inferiori. Infine, la parola “razza” è uno strumento legale fondamentale nella lotta al razzismo.

Per dirla con Ramon Grosfoguel, «il razzismo è una gerarchia globale di superiorità e inferiorità dell’umano che è stata prodotta e riprodotta per secoli a livello politico, culturale ed economico dalle istituzioni del sistema mondiale capitalista/patriarcale, moderno/coloniale, centrato sull’occidente e sulla cristianità» (2016, 10 [traduzione nostra]). Coloro che vengono classificati al di sopra della linea dell’umano sono riconosciuti socialmente come esseri umani, godono di diritti e accedono alle risorse
materiali, mentre gli altri sono considerati sub-umani o non-umani, e la loro umanità è messa continuamente in questione o negata (Fanon 1952).

La visualità è parte integrante di un sistema strutturale di dominio legato alla globalizzazione della modernità capitalista europea. Ripercorrendo questa storia globale violenta, Nicolas Mirzoeff (2011) invita a ricercare il “right to look” di chi ha lottato e di chi lotta ancora per la decolonizzazione.

In questo libro, dunque, ci interessa riflettere sulle immagini che riproducono gerarchie razziali; sulle ambivalenze dei tentativi di (dis)fare la “razza”, mostrandola o viceversa occultandola; infine, sulla dimensione “contro-visuale” delle battaglie culturali e politiche esplicitamente anti-razziste.

Nel gennaio 2016 abbiamo avuto l’opportunità di confrontarci pubblicamente su questi temi all’interno del secondo simposio internazionale di InteRGRace (Interdisciplinary/Intersectional Research Group on Race and Racisms), ospitate/i dal Centro Interuniversitario di Storia Culturale (centrostoriaculturale.org). Da quell’esperienza abbiamo selezionato molti dei contributi presenti in questo volume, che sono stati poi arricchiti da un processo di peer-review.
Nella prima sezione del libro (Razzismo e visualità: immagini ed estetiche che riproducono gerarchie razziali), Chiara Giubilaro si sofferma sulla produzione dello “spettacolo del confine”, ossia sul Mediterraneo come luogo di sbarchi e di naufragi e al contempo di speranza e di paura. Le fotografie delle migrazioni sono portate sul terreno delle geografie visuali, scandagliate nelle relazioni che intrattengono sia con significati diffusi e popolari, sia con il mercato dell’informazione e il suo consumo.

L’obiettivo è di giungere a una topografia critica dello sguardo che, attraverso un approccio intersezionale, concerne la percezione pubblica e privata degli sbarchi. La sua analisi “microvisuale” offre una triangolazione tra dimensione estetica, sfera del politico e componente affettiva, mostrando esempi di fotografie che diventano oppressive in modi diversi (la trappola estetizzante; l’immagine eterna; l’immagine shock).
Segue il saggio di Goffredo Polizzi, che propone una lettura intersezionale – focalizzata sull’incrocio “razza”, genere e sessualità – di Terraferma, di Emanuele Crialese. L’autore decostruisce i frammenti della pellicola che riguardano le relazioni tra i protagonisti, mostrando come ne emerga una visione del tutto semplificatoria ed appiattita della realtà degli sbarchi e dei Sud (dell’Italia e dell’Europa), tra silenziamento dei corpi neri (ridotti a vittime senza storia, pure nel caso di una donna originaria dell’Etiopia, paese immaginato come lontano e “sconnesso” dall’Italia) e invisibilizzazione dei confini. Il film resta dunque ancorato ad uno sguardo egemone, bianco ed eterosessuale.

La visualità studiata da Eleonora Meo, infine, riguarda i codici estetici della cittadinanza. Il saggio mette in luce un aspetto poco indagato della costruzione culturale dell’idea di cittadinanza, ossia come essa non sia assolutamente un prodotto color-blind, bensì il risultato di discorsività legate alla razza.
Il percorso tracciato dalla studiosa tiene insieme riflessioni teoriche inerenti i visual, postcolonial, decolonial studies e l’analisi di un documentario francese (Décriptage Banlieu, di Luca Galassi). Nel lavoro di Galassi emergono le voci e gli sguardi resistenti delle periferie francesi, e questi mostrano che la possibilità di essere riconosciuti come appartenenti alla nazione (la Francia, l’Europa) è ancora legata all’apparenza dei corpi e alla loro conformità agli standard estetici bianchi.

Nella seconda sezione del libro, intitolata (Dis)fare la “razza”, Anna Scacchi si interroga su cosa vediamo, quando vediamo la razza. Nell’articolare la sua riflessione, sottolinea che l’archivio visuale della “razza” è in qualche misura autonomo da quello verbale e che è fondamentale comprendere l’intertestualità che lega le immagini dell’Altro. Nella sua analisi delle pratiche del blackface andb whiteface, attingendo ad alcune importanti produzioni cinematografiche e visuali contemporanee, mostra come sia difficile fare antirazzismo visuale e (dis)farsi della “razza”. In gioco non c’è tanto la denuncia della “falsità” delle immagini dell’Altro che circolano a livello culturale, ma la problematizzazione dei “filtri”, delle cornici culturali che mediano le nostre visioni.

Il saggio di Monia Dal Checco prende in considerazione le forme di resistenza delle donne afroamericane nei confronti degli stereotipi negativi che riguardano la femminilità nera. Analizzando la produzione femminile autobiografica (Ida B. Wells, Nella Larsen, Zora Neale Hurston), la studiosa propone una riflessione su una pratica estetica e politica molto diffusa tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo: la cultura del silenzio o della dissimulazione, che vedeva nella modestia e nella negazione della sessualità un modo per affermare la propria dignità. Tuttavia, questa forma di
resistenza, basata sul tentativo di aderire agli standard egemonici del decoro borghese, è oggi criticata dai militanti di Black Lives Matter, che ricercano forme di mobilitazione più diversificate e oppositive.

Anche il saggio di Mackda Ghebremariam Tesfaù mette al centro della sua riflessione la costruzione della femminilità nera, studiando alcune produzioni di successo legate alla produttrice afroamericana Shonda Rhimes. Dall’analisi delle pratiche di crossover emergono aspetti problematici legati a processi di visibilità (e nascondimento) del razzismo, al ritorno di stereotipi come quello dell’Angry Black Woman, all’assenza di narrazioni black oriented, all’affermazione di una visione pacificata dei conflitti presenti nella società americana (pre- e post- Civil Rights Movement).

Tuttavia, personaggi come Annalise Keating, protagonista di How to get Away with Murder, riescono comunque ad aprire una crepa nell’utopia post-razziale colorblind.
Il saggio di Giulia Grechi propone invece un’ampia riflessione sul lavoro teatrale Nella Tempesta dei Modus (Enrico Casagrande e Daniela Nicolò), che offre una doppia rilettura: della celebre piéce di Aimé Césaire e dell’opera di Shakespeare. La studiosa si interroga su come le arti contemporanee, in particolare il teatro sperimentale e di ricerca, possano essere integrati nella quotidianità, divenendo uno strumento di rielaborazione di un passato coloniale che non passa. Lo stile del suo saggio è coerente con la proposta teorica adottata: è solo attraverso una scrittura narrativa che è possibile far emergere nodi, conflitti e possibilità inedite nella nostra cultura.

Nella terza e ultima sezione del libro (Anti-razzismo e contro-visualità: immagini ed estetiche che sfidano gerarchie razziali), il saggio di Morena La Barba analizza il contesto storico nel quale si era sviluppato il razzismo anti-italiano in Svizzera (1945-1975), mostrando il ruolo cruciale del cinema (in particolare quello antifascista dei migranti affiliati alle Colonie Libere Italiane) nel promuovere processi di emancipazione politica. Il saggio si sofferma sulla produzione cinematografica di Alvaro Bizzarri, operaio di origine italiana che, formatosi nei cineclub delle Colonie Libere, diventa un cineasta capace di sfidare le gerarchie razziali della sua epoca.

Il saggio di Barbara Giovanna Bello e di Sabrina Tosi Cambini affronta, invece, il tema del razzismo nei confronti di chi viene identificato come “zingaro” (a seconda del luogo e del tempo, Rom, sinti, caminanti, manouche, calon o travellers). Il saggio si concentra su due film di Laura Halilovic, romnì di origine bosniaca che vive a Torino. Interpretando da una prospettiva antropologica e della sociologia del diritto Io, la mia famiglia Rom e Woody Allen e Io, Rom Romantica, le due studiose mostrano come questi due racconti cinematografici re-umanizzino i Rom, restituendo loro dignità e celebrando la bellezza della vita anche in biografie segnate da forti diseguaglianze sociali.

Segue l’intervista di Annalisa Frisina a Dagmawi Yimer, un dialogo su come sia possibile “disimparare il razzismo attraverso il cinema”. La prima parte ripercorre le opere del regista di origine etiope, per riflettere su come si sia impegnato a non tradire le storie raccontate dai suoi protagonisti, a interpellare gli spettatori italiani bianchi e coinvolgerli in una contro-politica della memoria delle migrazioni.

La seconda parte discute cinque film (Le vol special e La vie est comme ça di F. Melgar; Les sauteurs di Siebert, Wagner e Sidibé; Sul fronte del mare di R. Cosentino; If only I were that warrior di V. Ciriaci) che affrontano temi di urgente attualità, per ripensare l’Europa insieme alle sue politiche migratorie. L’intervista si conclude sottolineando l’importanza di una formazione antirazzista nelle scuole, che sappia lavorare con forme di “contro-visualità”.

In modo complementare a quanto proposto da Frisina in dialogo con Yimer, il contributo di Monica Macchi intende suggerire un percorso sulle migrazioni e la contro-visualità a partire dall’immaginario filmico del vicino oriente. Attingendo alla sua esperienza nell’associazione Formacinema, Macchi propone una lista ragionata di film “imperdibili”, che ci permettono di cogliere “il right to look” di cineasti-cittadini della sponda sud del Mediterraneo, vedendo le migrazioni attraverso sguardi inediti.

Chiude l’ultima sezione il saggio visuale di Alessandra Ferrini, basato su Negotiating Amnesia. Il film-saggio dell’artista-studiosa è stato realizzato attraverso una ricerca storica presso l’archivio fotografico Alinari di Firenze. Il suo lavoro esplora il retaggio del colonialismo italiano nell’“Africa Orientale” (Eritrea, Etiopia e Somalia) e le “politiche dell’amnesia” che lo hanno caratterizzato.

Anche in questo contributo viene sottolineata l’importanza di promuovere percorsi formativi antirazzisti, per decolonizzare un immaginario che è stato raramente messo in discussione nei manuali di storia delle scuole superiori dal dopoguerra ad oggi.

Il libro include una riflessione conclusiva di Leonardo De Franceschi, che mette in luce la rilevanza pragmatica e sociale della riflessione scientifica intorno al tema della visualità e dell’(anti)razzismo.

Nel corso del 2017 lo scenario politico italiano ed europeo si è fatto sempre più desolante e il razzismo istituzionale ha offerto nuovi esempi (dal Codice di condotta per le ONG che prestano soccorso ai migranti nel Mar Mediterraneo, al nuovo accordo tra Italia e Libia coi suoi respingimenti in mare e i suoi campi di detenzione, fino all’ennesimo reinvio della legge sulla riforma della cittadinanza italiana).

In tale contesto, De Franceschi invita a cercare “risposte di segno oppositivo” da parte di artisti e di studiosi che possano “aprire brecce all’interno della narrazione egemonica della visualità”.

Bibliografia
BARBUJANI, G., 2006, L’invenzione delle razze. Capire la biodiversità umana, Bompiani, Firenze.
BUTLER, J., 1993, Endangered/Endangering: Schematic Racism and White Paranoia, in: Gooding Williams, R., (a cura di), Reading Rodney King/Reading Urban Uprising, Routledge, New York.
FANON, F., 1952 [1996], Pelle nera, maschere bianche. Il nero e l’altro, (tr. it.) di Mariagloria Sears, Tropea, Milano
FLEETWOOD, N., 2011, Troubling Vision: Performance, Visuality, and Blackness, The University of Chicago Press, Chicago-London.
FORGACS, D., 2015, Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità ad oggi, Laterza, Roma-Bari.
GROSFOGUEL, R., 2016, What is Racism?, in: «Journal of World-systems Research», 22(1).
MILICIA, M. T., 2016, Giochi al buio o parole per dirlo? Riflessioni su razza, razzismo e antirazzismo intorno a un colloquio con Gaia Giuliani, in: «Voci. Annuale di Scienze Umane», 13.
MIRZOEFF, N., 2011, The Right to Look: A Counterhistory of Visuality, Durham, Duke University Press.
MIRZOEFF, N., 2017, Come vedere il mondo. Un’introduzione alle immagini: dall’autoritratto al selfie, dalle mappe ai film (e altro ancora), Johan & Levi Editore, Monza.
MOSSE, G. L., 1986, Il razzismo in Europa dalle origini all’Olocausto, Laterza, Roma-Bari.

  1. InterRGRace (Gruppo di ricerca interdisciplinare su razza e razzismi/Interdisciplinary Research Group on Race and Racisms) lavora come gruppo di ricerca, associazione e network.
  2. Gli/Le/* studios* che hanno scritto e curato questo testo si sono interrogat* sul modo in cui rendere graficamente la parola razza. Chi ha lavorato a questa pubblicazione è accomunat* innanzitutto dalla scelta, eminentemente politica, di nominare – in questo caso scrivere – la razza, e così facendo di impedirne l’occultamento. L’urgenza di denunciare la razza, tuttavia, si può tradurre nella necessità di far emergere l’uno o l’altro aspetto della sua produzione: il razzismo biologico, il razzismo culturale, l’ideologia colorblind, (etc.). In questo senso, a partire da diversi posizionamenti alcun* scrivendo “razza” tra virgolette, altr* senza – l’intento è far emergere quello che è stato definito il “paradosso della razza”, ovvero il suo essere una rappresentazione che, seppur smentita da una realtà biologica, opera violentemente nella strutturazione del reale, nella vita di gruppi e singol*. Spesso sono inoltre la storia, il pubblico di elezione e i temi prediletti dai diversi ambiti disciplinari a determinare la scelta di una modalità di scrittura rispetto alle altre. Nella convinzione che i nostri diversi approcci rappresentino altrettanti validi percorsi in un orizzonte di impegno comune, abbiamo scelto di non uniformare la grafia della parola per lasciare ad ognun* lo spazio e la possibilità di portare in primo piano le urgenze che l’hanno spint* a parlare di “razza” o razza.
  3. Nel 2014 l’Istituto Italiano di Antropologia ha lanciato un appello per rimuovere la parola “razza” dall’articolo 3 della Costituzione Italiana.