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L’illegittimo decreto di espulsione emesso nei confronti del cittadino straniero è meritevole di disapplicazione in sede penale

Tribunale di Roma, sentenza n. 7967 del 6 luglio 2017

Il decreto di espulsione emesso nei confronti dello straniero è illegittimo, e pertanto meritevole di disapplicazione in sede penale, nel caso in cui non rechi motivazione in merito all’irrogazione di un divieto di reingresso nel territorio nazionale avente durata superiore al minimo consentito dall’art. 13 co. 4 d.lgs. 286/1998 (oltre che in caso in assenza di circostanze eccezionali che giustifichino la mancata traduzione in lingua conosciuta allo straniero).

Nel caso in esame l’imputata, cittadina russa, era stata tratta in arresto in flagranza di reato per la ritenuta violazione dell’art. 13 co. 13 d.lgs. 286/1998 in quanto, destinataria di un decreto di espulsione emesso dal Prefetto di Roma e successivamente rimpatriata coattivamente dalle autorità italiane, aveva fatto ritorno in Italia prima che fosse decorso il divieto di reingresso nel territorio nazionale per un periodo di cinque anni applicato dal medesimo provvedimento prefettizio.
Con la sentenza di assoluzione in commento il Tribunale di Roma, IX Sezione penale, ha assolto per insussistenza del fatto l’imputata, ritenendo che il decreto di espulsione emesso dal Prefetto di Roma fosse illegittimo (e pertanto meritevole di disapplicazione in sede penale) sotto un duplice profilo. A tal fine il Tribunale ha innanzitutto definito in termini ampi il vaglio imposto al giudice penale chiamato a decidere sulla sussistenza di un reato il cui presupposto o elemento costitutivo sia un provvedimento amministrativo. Questi non può invero limitarsi a rilevare la mera esistenza dell’atto, ma deve “verificare la legittimità del provvedimento amministrativo presupposto del reato, sia sotto il profilo sostanziale che sotto quello formale, con riferimento a tutti e tre i vizi tipici che possono determinare l’illegittimità degli atti amministrativi, e cioè violazione di legge, incompetenza, eccesso di potere […]. In altre parole, la violazione di un atto amministrativo può essere presidiata da una fattispecie penale e come tale richiedere una sanzione soltanto nella misura in cui e fintantoché il provvedimento si ponga in termini di legittimità ed è lo stesso giudice chiamato ad applicare tale sanzione che deve verificare la correttezza del provvedimento dato” (p. 4).

Il Tribunale esclude ogni interpretazione alternativa: qualora il giudice penale si astenesse da una verifica sulla legittimità dell’atto amministrativo e desse applicazione ad un provvedimento viziato, “perderebbe di giustificazione la stessa esistenza della sanzione penale, in quanto non posta a tutela di un provvedimento legittimo” (p. 3).
Sulla scorta di tale premessa, il Tribunale ha preso in esame la mancata traduzione del decreto in lingua conosciuta dalla cittadina straniera, sottolineando la necessità, perché l’alloglotta possa rispondere penalmente per la violazione del provvedimento espulsivo, che questi sia posto in condizione di comprenderne il contenuto, fatti salvi esclusivamente casi del tutto eccezionali quali la sussistenza di motivi di assoluta urgenza o la particolare rarità della lingua parlata dallo straniero.
Nel caso di specie, la generica motivazione resa dalla Prefettura al fine di giustificare l’utilizzo di una lingua veicolare è stata ritenuta insufficiente, con conseguente illegittimità del decreto espulsivo per violazione dell’obbligo di traduzione dello stesso in lingua conosciuta alla straniera. In particolare si è affermato che “il riferimento all’urgenza e all’impossibilità di reperimento dell’interprete non altrimenti circostanziate costituiscono petizioni di principio autoreferenti, del tutto inidonee a giustificare la mancata traduzione nella lingua madre all’imputata” (p. 6).
Il Tribunale capitolino, aderendo all’interpretazione dell’art. 13 co. 7 d.lgs. 286/1998 fornita dalla Corte di Cassazione (ex multis, Cass. civ., Sez. VI-1, nn. 13323/2018, 14733/2015 e 3676/2012), ha sancito la necessità che tale giurisprudenza sorta in sede civile, che impone un vaglio in concreto in punto di traduzione, trovi effettività anche in ambito penale con una verifica accurata sull’assenza di vizi di tal fatta all’interno del provvedimento la cui inosservanza costituisce presupposto del reato.
Il secondo vizio rilevato dal Tribunale di Roma appare ancor più stimolante in termini di evoluzione giurisprudenziale. Il decreto di espulsione è stato ritenuto illegittimo anche sotto il profilo della durata del divieto di reingresso inflitto nel caso alla straniera (cinque anni), misura pari al massimo ed ampiamente superiore al minimo (tre anni) consentito dal primo periodo dell’art. 13 co. 14 d.lgs. 286/1998. Invero, il provvedimento prefettizio non recava alcuna motivazione in merito alle ragioni dell’irrogazione di un divieto di tal durata. Il Giudice, sottolineando che la norma impone di tenere “conto di tutte le circostanze pertinenti il singolo caso” e rilevando l’assenza di motivazione in proposito, ha ritenuto illegittimo il decreto di espulsione anche sotto tale profilo, con conseguente disapplicazione del provvedimento. A tal fine, il Tribunale di Roma ha qualificato il difetto di motivazione quale vizio ricompreso all’interno del sindacato di legittimità sull’atto amministrativo imposto al giudice penale, ritenendo che l’Amministrazione avesse “contravvenuto alla necessità di un’effettiva motivazione”, concludendo che “il sindacato di legittimità sull’atto presupposto conduce all’accertamento del vizio di legge della mancanza di motivazione idonea in ordine alla durata del divieto di reingresso nel territorio dello Stato”.

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Tribunale di Roma, sentenza n. 7967 del 6 luglio 2017