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Grecia, i rifugiati minorenni non accompagnati alle prese con le gravi lacune nei servizi

Divya Mishra, John Hopkins Bloomberg School of Public Health Magazine, 15 febbraio 2019

Un giovane rifugiato iraniano ritorna nella tenda dove ha vissuto come minore non accompagnato a Atene. Il campo è gestito dall’organizzazione greca Nostos. Foto di Divya Mishra. Grecia, 2018

In una cucina infestata dalle mosche nel campo profughi di Thiva, a circa 80 chilometri da Atene, in Grecia, Fayaz, 16 anni, taglia una fetta di anguria per uno spuntino. Alto, mento sporgente, con una maglietta rosa sbiadita, adesso vive in una cosa simile a una roulotte, che le persone del campo chiamano container.

La struttura, in origine una fabbrica di tessuti, è stata trasformata due anni fa in un campo, che oggi ospita circa 800 rifugiati. Molti di loro sono arrivati in Grecia nella fase più acuta della crisi europea dei rifugiati del 2015 e dei primi mesi del 2016.

L’arrivo di oltre un milione di persone ha portato le strutture per i migranti e per i rifugiati fino al punto di non ritorno. Le persone sono state trattenute sulle isole greche, in campi affollati e sporchi, o centri di prima accoglienza e identificazione.

Fayaz aveva 12 anni quando nel 2014 ha lasciato casa sua in Afghanistan per scappare dalle difficoltà della famiglia e dalle pressioni politiche; è poi arrivato in Turchia, passando per le stesse rotte illegali che gli afghani usano da 30 anni. Qui ha trovato lavoro in una fabbrica di materiale elettrico, lavorando 14 ore al giorno.

Ad aprile del 2016, è salito su una barca fatiscente dalla costa turca del Mar Egeo, iniziando così, insieme a molti altri immigrati, il pericoloso viaggio verso la Grecia.

Sin dal suo arrivo sull’isola di Lesbo, è stato trasferito da una struttura di accoglienza all’altra, prima a Lesbo, poi a Atene, ora a Thiva, campi gestiti perlopiù da ONG.
A due anni dal suo arrivo, non ha ancora trovato la vita che sperava.

Un mosaico di sistemazioni

Fayaz appartiene al gruppo di rifugiati più vulnerabile in Grecia: i 3.600 minori non accompagnati. Non appena raggiungono le coste greche, la maggior parte di loro inizia una difficile odissea per ottenere protezione nei centri, carenti però di risorse. Il passo successivo è quello delle sistemazioni provvisorie; generalmente si tratta di hotel, case e appartamenti condivisi, gestiti dalle ONG.

Nel corso di questo viaggio, i minori non accompagnati navigano in un sistema fatto di servizi scarsi, che, stando agli esperti, non riescono a sostenere i bisogni emotivi e psicologici legati al trauma di aver abbandonato la propria casa, cercando di sopravvivere in un nuovo Paese. Gli esperti affermano che queste situazioni possono provocare depressione, ansia, disturbi da stress post traumatico, comuni tra i giovani immigrati, che non aiutano poi nel periodo di transizione verso l’età adulta.

Sono sul punto di diventare adulti, e se non hai programmi per aiutare questi ragazzi, sono molto, molto vulnerabili”, ha affermato Paul Spiegel, medico e direttore della Bloomberg School al Centro per la salute umanitaria della John Hopkins University. “Anche se molti lo sembrano, queste persone non sono ancora adulte, e possono quindi fare scelte poco ponderate.”

Fayaz è stato tenuto per quattro mesi in una sezione di alta sicurezza nel centro per minori non accompagnati a Moria, il campo più grande dell’isola di Lesbo.
Protetto da ogni lato da una recinzione con filo spinato, la struttura con quattro file di container bianchi ospita dozzine di bambini, che dormono nei letti a castello. La polizia greca sorveglia all’ingresso per evitare che i ragazzi escano, o che qualche adulto cerchi di entrare; ma i bambini restano comunque senza sorveglianza nella notte.

Viviamo come prigionieri”, ricorda con amarezza.

Save the Children e altri volontari organizzano serate cinema, progetti artistici e gite in spiaggia per i ragazzi. Tuttavia, queste attività hanno fatto ben poco per sollevare lo spirito di Fayaz. Sulle sue braccia si vedono dei tagli orizzontali che si è causato tagliandosi con un vetro. Quando gli operatori se ne sono accorti, è stato subito mandato all’ospedale di Mytilini.

Le infermiere sono venute a visitarmi solo molto dopo tempo, e quando sono arrivate, mi hanno insultato; parlavano in greco, ma le capivo lo stesso”.

Sono così tanti i ragazzi nella sezione dei minori del campo di Moria che stavano rompendo le finestre e tagliandosi le braccia con frammenti di vetro che gli operatori del campo hanno sostituito le finestre dei container con dei teli di plastica.

Questi episodi di autolesionismo riflettono la disperazione e la rabbia provati da questi ragazzi, che devono essere esternalizzate perché il minore non può sopportare i suoi sentimenti e agire fuori”, spiega Mado Liadopoulou, psicologo dell’organizzazione Network for Children’s Rights.

Quello che sta accadendo in Grecia è che le organizzazioni umanitarie e chi fornisce servizi si concentrano principalmente sui bisogni primari dei ragazzi, come l’alloggio, il cibo e le cure mediche” spiega Vasileia Digidiki, dottoranda, ricercatrice e autrice dello studio sui bambini migranti in Grecia, condotto dal Centro per i diritti umani di Harvard nel 2017. “Tuttavia, tendiamo a ignorare i bisogni di questi bambini, e per questo motivo, gli interventi che impieghiamo non hanno successo”.

Generalmente queste sistemazioni non dispongono dei servizi di cui i ragazzi hanno bisogno”, ha evidenziato Valia Rouni, che gestisce il programma di tutela Metadrasi, una ONG greca che cerca di affidare i minori non accompagnati a tutori.

Senza l’assistenza adeguata, corsi di lingua, formazione professionale o altri servizi, molti giovani si sentono come in trappola, incapaci di progettare il proprio futuro.
Ci sono giovani che rimangono qui nel centro per più di sei mesi, per un anno”, afferma Rouni, “e non sanno quando usciranno.”

Preso dalla disperazione di dover lasciare l’assistenza e la protezione di questo sistema, Fayaz si è fatto mandare da sua madre una nuova tazkeera, una specie di carta d’identità scritta a mano, molto diffusa, ma poco controllata, per falsificare la sua vera età, e dire di aver 18 anni. Adesso che sulla carta è un adulto, è stato trasferito a Thiva, dove vive ormai da sei mesi. Dato che da qui è difficile prendere anche i mezzi pubblici, anche le sue speranze di poter andare a scuola o trovare lavoro sono svanite. Le sue giornate trascorrono, monotone, scandite solo dai pasti.

Quando chiamo mia madre, lei mi chiede: ‘Che cosa stai facendo lì?“, dice Fayaz. “Le dico che non sto facendo nulla.”.

La vita vera fuori dal campo

Una volta superato il limite d’età per il sistema di protezione infantile, a volte anche prima, alcuni minori cercano di lasciare il Paese. Ma ben presto si trovano in situazioni degradanti, nelle mani dei trafficanti.

Quando uno dei trafficanti promette di aiutarti con il viaggio per 1.000 o 2.000 €, i ragazzi trovano i soldi in qualche modo”, racconta Digidiki. “Tanti sono i mezzi: traffico di droga, spaccio, elemosina, furti o sfruttamento sessuale.”

Hassan è uno dei minori non accompagnati sull’isola di Lesbo. Arriva dal Bangladesh, ha trascorso un po’ di tempo nel campo di Moria prima di essere trasferito nel campo sulla terraferma di Volos, in Grecia. Qui però non c’è la divisione per i ragazzi minorenni; già il primo giorno lì, degli adulti hanno rubato il suo cellulare e gli effetti personali. Chiedendo aiuto alle autorità del campo, si è sentito dire che episodi del genere sono molto frequenti e che era libero di lasciare il campo. Qualche giorno dopo, lo fece.

Due mesi dopo, ha compito 18 anni. Ora, in quanto uomo adulto e solo, è praticamente l’ultimo nella lista delle priorità per una sistemazione.

Quando sono partito, ho visto la realtà delle cose per la prima volta”, racconta “non avevo nulla da mangiare, nessun posto dove stare”.

È andato poi a vivere con un uomo più grande, anche lui migrante dal Bangladesh, che alla fine lo ha cacciato perché Hassan non poteva più pagare l’affitto. Non avendo né una casa, né un mezzo di sostentamento, Hassan ha trovato un lavoro per raccogliere fragole in una fattoria a Manolada, poco fuori Atene. I suoi datori di lavoro però trattenevano i soldi per il cibo, l’alloggio e i servizi, riducendolo così fino ai debiti.

Una volta terminato questo periodo, è tornato a Atene, dove vive in un appartamento condiviso con altri migranti dal Bangladesh. Va di negozio in negozio ogni giorno, cerca lavoro, ma ha avuto poca fortuna.

Una via d’uscita

Le lacune del sistema di protezione della Grecia per i giovani rifugiati sono chiare, ma gli investimenti per migliorare i servizi e aumentare il numero del personale nei centri possono dare i loro frutti. Una ricerca ha dimostrato che i minori non accompagnati che costruiscono relazione solide e positive con i membri dello staff nei centri, sono poi tra quelli a avere una maggior forza d’animo nell’affrontare le condizioni più difficili.

Perciò, i programmi indirizzati direttamente ai bisogni e alle difficoltà dei giovani rifugiati sono delicati da elaborare, dicono gli esperti.

Un modello che promette bene è il programma di tutela gestito dalla ONG Metarasi. In questo programma, ogni minore non accompagnato ha un tutore, appartenente alla rete di assistenti sociali, avvocati, educatori che cerca di difendere i diritti legali e sociali del minore, compreso l’accesso al sistema sanitario o quello scolastico. I tutori hanno incontri regolari con i propri ragazzi, di solito in ambienti informali come bar o parchi, in modo da instaurare un rapporto basato sulla fiducia.

Tutto sta nel diventare una persona di riferimento per il minore”, spiega Rouni di Metadrasi “in modo che il minore sappia che può sempre prendere il telefono, chiamarci e parlare di ogni cosa; raccontarci delle loro relazioni. O qualcosa di più serio, tipo “Sto avendo un terribile mal di pancia e devo andare all’ospedale. È come creare una sorta di velo di protezione intorno al minore”.

Molti dei ragazzi non accompagnati, che facevano parte del programma Metadrasi, rimangono in contatto con i loro tutori anche dopo aver compiuto 18 anni. Alcuni di loro sono andati poi a scuola, hanno imparato il greco e ottenuto lavori a lungo termine.

Sono ottimista”, afferma Rouni, “richiede molto tempo, sforzo, ma ci sono molte storie a lieto fine, ed è questo che dà la forza per andare avanti”.