Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
/

La Rete Il Colibrì: una proposta per ”fare la propria parte”

La riflessione di un’operatrice free-lance sulla situazione attuale e le azioni che si stanno realizzando in una zona della Sardegna

Photo credit: Sherwood Foto (Padova città aperta, 17 marzo 2019)

Presentazione della Rete “Il Colibrì”

Il lavoro e l’esperienza maturata con i richiedenti asilo all’interno dei CAS può proseguire anche se vengono chiusi.
L’articolo che segue è una riflessione sulla situazione attuale dal punto di vista di un’operatrice free-lance e delle conseguenti azioni che si stanno realizzando in una zona della Sardegna.
Invitiamo tutti a contribuire con il proprio punto di vista per farci sentire in rete anche al di fuori dei confini della nostra amata Isola.

Una storia africana, racconta che un giorno nel pieno della foresta, scoppia un incendio. Tutti gli animali corrono per raccogliere acqua e tentare di spegnerlo. Un colibrì – l’uccello più piccolo del mondo – si adopera incessantemente per trasportare nel suo minuscolo beccuccio l’acqua per spegnere le fiamme. Nel vedere gli sforzi del colibrì gli altri animali della foresta si prendono gioco di lui ” tu, cosa speri di fare con quelle poche gocce d’acqua che versi sul fuoco? Sei ridicolo il tuo sforzo è inutile! “E il colibrì risponde” si è vero, ma io faccio la mia parte”.

Premessa
La situazione attuale politica italiana, riguardo al tema delle migrazioni è alquanto ingarbugliata. Non esiste più – almeno per il momento – una condizione di emergenza. Gli sbarchi massicci sono cessati e i richiedenti asilo presenti sul territorio sono spesso allontanati dai Centri di accoglienza che stanno chiudendo. Molti immigrati si trovano improvvisamente in una situazione di estremo disagio: privati di beni primari come l’abitazione e di punti di riferimento, vagano in cerca di amici o di qualcuno che possa ospitarli. Chi è privo di conoscenze, è costretto a vivere per strada e viene spesso fatto oggetto di insulti razzisti. In particolare, coloro che hanno vissuto per 2-3 anni nella completa dipendenza generata dal sistema d’accoglienza dei Centri, non ha alcuna autonomia e non sa a chi rivolgersi.
Ci sono realtà del volontariato sociale e religioso che si fanno carico di colmare le carenze e i vuoti lasciati dalla politica ma ovviamente questa buona volontà non è sufficiente a risolvere il problema.

Nel corso di questi mesi, ho conosciuto molte persone e associazioni che vorrebbero impegnarsi per aiutare gli immigrati. Sono uomini, donne, ragazzi che non accettano le politiche discriminatorie del governo e desiderano dare il proprio contributo per rendere questa pagina ingloriosa della storia d’Italia meno vergognosa.
Ho partecipato a molti incontri sia in Sardegna che alla frontiera d’Italia e ho incontrato persone ricche di idee, energie e risorse ma che non osano agire perché sono intimorite o non sanno come e cosa fare.
Qualche esempio può essere utile per capire la situazione che si sta vivendo.

Nel 2016, in una cittadina di frontiera, un parroco decide di aprire le porte della sua Chiesa ad alcune donne e bambini infreddoliti e affamati che sostavano nel piazzale davanti alla parrocchia. Lui dice di aver compiuto solo un gesto: aprire una porta. Da quel momento la Chiesa diventa un luogo dove arrivano centinaia di persone che vivono in strada prive di un servizio, di una doccia, di un piatto caldo.

Immediatamente si scatena una corsa alla solidarietà. Famiglie, volontari, credenti, atei, associazioni, ragazzi che arrivano da ogni parte d’Europa, tutti accorrono per aiutare il parroco nella sua coraggiosa opera: un esempio incredibile ma vero che dimostra ciò che un essere umano può fare per vivere appieno la sua umanità .
Il bene non fa chiasso e quasi nessun organo di stampa parla di questa luminosa esperienza. Però il bene può dare fastidio, molto fastidio. Soprattutto se disinteressato e non lucrabile.

La chiesa viene chiusa e con le porte sbarrate le donne e i bambini, i giovani uomini e i disperati sono ricacciati in quella strada da cui erano arrivati. Il parroco viene trasferito in un’altra parrocchia. Ho l’occasione di conoscere questa esperienza perché dopo un anno il sacerdote viene premiato da un’ associazione per l’alto valore umano e morale della sua opera. Qualcuno gli chiede il motivo dell’interruzione del suo operato e lui risponde: ”abbiamo ricevuto molte minacce di morte. Per quanto riguardava me, la cosa non era tanto importante, io sono un prete e questa è la mia vocazione, ma il Sindaco è stato minacciato insieme con la sua famiglia e a quel punto il prefetto ha deciso con il vescovo di far chiudere l’esperienza”.

Ora qui nessuno osa più agire apertamente per dare un aiuto. Le persone hanno paura di essere minacciate e parlare di solidarietà è quasi un tabù. Ciò ovviamente non significa che tutto sia fermo; pur senza far troppo rumore continuano ad esistere azioni di coraggio.

Volontari di un’associazione d’oltralpe, arrivano tutte le sere attraversando la frontiera con un camion, per offrire ai profughi un pasto caldo che altrimenti non avrebbero. Al mattino vanno al confine per dare le colazioni a quei migranti che la polizia caccia via dal Paese in cui tentano di entrare clandestinamente e viene così dato loro del tè caldo per farli riscaldare.

Fino a poco tempo fa dei volontari italiani aiutavano quelli d’oltralpe per la distribuzione dei pasti, ma le forze dell’ordine che presidiavano sempre nella zona (i soldi per i controlli inutili ci sono sempre…) hanno schedato chi dava una mano. Oggi quasi nessun italiano va più lì ad aiutare, d’altronde, a chi non darebbe fastidio venire segnalato e ritrovarsi magari nei guai solo per un’azione di umanità?

Ancora un altro esempio. Il bar “Benvenuto”, è quasi l’unico in una cittadina di 30mila abitanti, dove puoi trovare qualche immigrato. E’ gestito da E. che mi racconta la sua storia. E. lavora qui da 20 anni e ha sempre lavorato bene ma da quando ha deciso di offrire un punto d’appoggio alle donne immigrate per cambiare i panni dei neonati o donare un piatto caldo a qualcuno che mostrava palesemente i segni della fame, è boicottata da tutti gli italiani che non entrano più nel suo- peraltro graziosissimo- bar. E. stava per chiudere la sua attività: ha subito controlli di ogni sorta come prima non era mai avvenuto, quasi più nessuno andava a fare colazione da lei e spesso è stata minacciata pesantemente. Se non fosse stato per una raccolta fondi di solidarietà’ organizzata da privati, associazioni e volontari, che ha raggiunto i 20mila euro in 2 settimane, oggi il bar sarebbe chiuso; esattamente come la Chiesa. Con questa somma E. ha potuto pagare i debiti e continuare a offrire il suo spazio a favore della solidarietà. Io stessa ho organizzato dei corsi di conversazione in lingua italiana a titolo gratuito nella saletta adiacente al locale.

Dopo il decreto Salvini che ha avuto come conseguenza la chiusura dei Centri di accoglienza delle associazioni, oggi – soprattutto nei valichi di frontiera- i profughi vagano sotto i ponti, fanno i propri bisogni per strada perché, per quanto possa sembrare incredibile, le autorità non si curano neanche di provvedere all’igiene almeno con dei servizi chimici.Vagano per le vie durante la giornata, dormono sulle sponde dei fiumi e al mattino corrono per scaldarsi al sole.

In Sardegna hanno chiuso il Centro d’accoglienza in cui ho lavorato per un anno e mezzo. Di punto in bianco i ragazzi con cui ho condiviso una formazione importante nell’ambito di un progetto d’inclusione sociale: “Benvenuto in Italia”. Son stati trasferiti in una zona a quasi 100 km dal luogo in cui vivevano. Le conseguenze sono state molto problematiche. Il loro difficile percorso di adattamento alla cittadina in cui vivevano e frequentavano la scuola è stato bruscamente interrotto. Uno di loro mi ha detto di sentirsi come un deportato la cui vita vale meno di niente e che non riusciva a superare lo scoraggiamento.

Per di più avevamo già da tempo programmato la sua partecipazione ad un corso della Croce Rossa che gli avrebbe permesso di diventare volontario. Essendo andato ad abitare in una zona isolatissima e priva di mezzi pubblici, non avrebbe potuto frequentare il corso a cui teneva tanto. Anche se inquieta ho cercato, insieme con un’operatrice della Croce Rossa di incoraggiarlo. Una partecipante al Corso, avendo conosciuto la storia, si è offerta di ospitare il ragazzo a casa sua per dormire e di riaccompagnarlo il giorno dopo nel suo centro d’accoglienza a quasi 100 km. di distanza. Il ragazzo ha potuto così concludere la sua formazione, superare con successo l’esame finale e sta preparandosi al tirocinio. Mi ha detto che questa esperienza gli ha insegnato a non mollare mai e a volersi impegnare per incoraggiare altri ragazzi immigrati.

Le insegnanti della scuola frequentata dai ragazzi del Cas in cui ho lavorato, nel momento in cui hanno saputo che i loro allievi erano stati trasferiti lontano e non avrebbero quindi potuto frequentare la scuola, rischiando così di perdere l’anno scolastico, si sono attivate per cercare di trovare una soluzione. I ragazzi stanno dimostrando che dopo aver seguito il nostro percorso progettuale, riescono a far valere i propri diritti. Hanno chiesto al nuovo Centro di andare a scuola ma la risposta è stata che non era possibile perché una scuola vicina non c’era e che il Centro non avrebbe pagato i biglietti del bus che avrebbero dovuto prendere per recarsi nella scuola più vicina( 30 km.!). a quel punto le professoresse si sono organizzate e hanno pagato gli abbonamenti di 25 euro mensili a 9 ragazzi fino a giugno.

Quelli che ho riportato sono solo alcuni casi ed esempi che dimostrano che esiste anche un’altra Italia. E’ un’Italia che fa piccole-grandi cose ed è grazie a questa Italia che gli immigrati mostrano amore e gratitudine per il nostro Paese, primo sentimento a mio parere, necessario per sentirsi davvero parte di una comunità.

Alla luce di queste considerazioni, ritengo che attualmente il tema delle migrazioni sia più attuale che mai.

Esaurita la fase emergenziale degli sbarchi, focalizzarsi su un’azione personale e comune non è semplice. Quando arrivavano nei porti le navi cariche di persone private di tutto, era assolutamente urgente adoperarsi per fornire i generi di prima necessità. Sia lo Stato che le ONLUS hanno dato una risposta che ha generato la prima accoglienza in Italia. Son state privilegiate le accoglienze dei grandi numeri e in quel momento solo pochi hanno potuto o voluto garantire anche un’integrazione sociale dei richiedenti asilo.

Ma oggi, oggi che tutto questo non c’è più, la domanda è : cosa fare per coloro che comunque risiedono in Italia? E’ una domanda dalle conseguenze enormi e che ci coinvolge tutti. Certo si può girare la faccia davanti a migranti sparsi sul territorio senza alcuna prospettiva legislativa di trovare un proprio posto nel nostro Paese. Possiamo pensare che sia un problema politico e che quindi, in quanto tale, riguarda le sfere d’azione dei nostri governanti.

Ma è davvero così? Davvero ormai possiamo gettare la spugna e rassegnarci dietro la constatazione che poiché gli sbarchi non ci sono più, i problemi degli ultimi della terra siano risolti? I report delle ONG e di Amnesty International, parlano dell’inferno libico in cui vengono tenuti prigionieri migliaia di africani che scappando dal loro paese per scampare spesso a morte certa, né attraversano il mare, né possono fuggire. Non è questo il contesto in cui posso parlare di questa catastrofe umanitaria ma la ricordo perché dobbiamo renderci conto che l’arrivo nelle nostre coste è solo l’ultimo atto della tragedia umanitaria delle migrazioni attuali.

Spesso ci sentiamo schiacciati da sentimenti di ingiustizia e impotenza. Anch’io alterno a momenti di lucida indignazione momenti in cui mi pare che siamo solo delle pedine che si muovono sul grande scacchiere della storia senza poter avere la forza e la possibilità di agire.

Tante volte, in questo periodo della mia vita, ho pensato di mollare tutto. Lavorare per i diritti di chi non ha diritti non procura neanche il necessario per vivere perché non arricchisce le tasche di nessuno. Chi vuole investire per far crescere la democrazia italiana proprio sui temi che stanno alla base di una comunità democratica e cioè la tutela dei diritti di tutti?

Lo slogan ”prima gli italiani”, mente spudoratamente sapendo di mentire.
Davvero pensiamo che non dare un tetto, di che mangiare e negare cure mediche agli immigrati, generi automaticamente il dono di una casa, di un lavoro, di una buona sanità agli italiani? Chiunque non sia in una palese e sfacciata malafede elettorale non può non riconoscere che una democrazia si misura dalla capacità di saper tutelare i diritti a partire da quelli degli ultimi.

Di questi tempi non va di moda avere una memoria storica ma non dobbiamo dimenticare che i nostri diritti che sembrano tanto scontati: il suffragio universale, la possibilità di essere curati da un sistema sanitario nazionale, le tutele alla maternità e quelle sul lavoro, non sono stati regalati ma son stati conquistati con il sangue e il sudore degli ultimi che lottavano per poter avere una vita dignitosa. E nessun diritto può ritenersi sicuro se tutti non possono usufruirne, perché prima si escludono gli stranieri, poi si dice che non ci sono più soldi e bisogna chiudere ospedali, scuole, biblioteche e pian piano, di questo passo ci troveremo tutti senza più uno Stato che difenda il debole dall’arroganza del forte. E questa azione di tutela dello Stato, ancora una volta la storia ci insegna che si chiama DEMOCRAZIA. La democrazia è nata proprio per cercare di non lasciare che l’uomo si sbrani con l’altro uomo, perché altrimenti il forte non farà mai niente per limitare la propria tracotanza. E’ bene che ci ricordiamo tutto questo, perché i nostri Stati Nazionali, son stati fondati su questi principi e nel momento in cui sul tema dei diritti si comincia a dire a te sì, a te no, si imbocca la strada della non democrazia. Per tutti.

Propongo dunque una visione dell’impegno a favore dei migranti che superi gli ambiti dell’accoglienza per soddisfare solo le prime necessità. Credo che nonostante il senso d’impotenza per l’enormità dell’impresa, possiamo impegnarci in prima persona per far progredire la democrazia nel nostro Paese.

MA COME? CHE FARE? Mi chiedono spesso le persone con cui parlo. Sono persone che vorrebbero agire ma non sanno da dove cominciare.

Nel nostro modesto operato, noi stiamo sviluppando una rete “IL COLIBRI”che tenta di agire per fare la nostra parte. Come il piccolo colibrì della storiella, credo che ognuno di noi, aldilà di tutto possa ”fare la propria parte” che sarà comunque di grande contributo per far progredire il mondo in cui viviamo.