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Lo speciale di Are You Syrious sul centro di espulsione di Ellebæk: la prigione chiusa e dimenticata della Danimarca

E. Kass e C. Lynge, volontari Info Team AYS - 15 marzo 2019

Photo credit: Ole Jakobsen / TV 2

Per la prima volta in assoluto un grande canale di informazione tradizionale danese, TV2, ha ottenuto il permesso di riprendere l’interno della prigione di Ellebæk in cui, attualmente, 109 persone attendono di essere espulse.

Ellebæk è un centro di espulsione chiuso per richiedenti asilo respinti in cui al momento vi sono confinate 109 persone. La maggior parte di loro passa solo un breve periodo di tempo nel centro mentre gli altri ci vivono per diversi mesi e altri ancora per più di un anno. Il tempo massimo di permanenza è 18 mesi.

A causa di una divulgazione scarsa e della mancanza di una conoscenza diffusa di questa “prigione per migranti”, Gert Hansen, rappresentante sindacale delle guardie carcerarie, definisce Ellebæk una “prigione chiusa e dimenticata”.

Nonostante questo, l’emittente televisiva locale è riuscita ad ottenere il permesso di avervi accesso ed a pubblicare un documentario sulla vita all’interno di questa prigione nel programma televisivo: “Ellebæk: i respinti che non faranno ritorno” (Ellebæk: de afviste der ikke vil hjem). Il documentario, realizzato da TV2, racconta delle decadenti condizioni fisiche della prigione.

Finanche quattro persone condividono la stessa stanza. Camere con muri perforati e cavi elettrici scoperti. Ai detenuti sono serviti piatti riscaldati al microonde, i telefoni cellulari sono banditi e il loro uso è consentito solo tre volte al giorno nel cortile esterno. Sono in continuo aumento gli episodi documentati di uso della forza da parte delle guardie carcerarie e del ricorso a diversi giorni di lungo isolamento dei detenuti.

A destare maggiore preoccupazione è la tortura psicologica alla quale sono sottoposti i residenti del centro durante il periodo di reclusione. Spesso non comprendono, prima di tutto, il motivo della loro reclusione. L’essere separati dagli amici e dalla famiglia e lo stress continuo provocato dal non sapere quando saranno messi, con la forza, su un aereo, dalla polizia, per essere espulsi, è tortura psicologica.
Photo credit: Ole Jakobsen / TV 2
I ricercatori Suarez-Krabbe, Lindberg e Arce-Bayona, che hanno curato il reportage sui centri di espulsione danesi, scrivono:
I centri di espulsione in Danimarca dovrebbero essere intesi come un’espressione di razzismo messo in atto dalla legge con il consenso dello Stato: si produce la morte lenta dei richiedenti asilo respinti. Inoltre, la legislazione danese è sempre più utilizzata per privare gruppi specifici di cittadini, e non-cittadini, dei loro diritti fondamentali o per stabilire differenze di gerarchia tra cittadini danesi di prima e seconda classe, secondo la legge” (p. 48, Stop killing us slowly).

Ufficialmente, segregare i richiedenti asilo respinti in Danimarca ha due obiettivi principali:

1. Fare rispettare i decreti di espulsione di soggetti ritenuti a rischio di fuga

Tra questi: soggetti sottoposti ad espulsione forzata, soggetti in attesa che si deliberi sulla loro espulsione, soggetti giudicati dalla polizia come “non collaborativi” relativamente all’inchiesta sul loro caso, soggetti che rifiutano l’espulsione.

I richiedenti asilo respinti vivono in Danimarca nella paura costante di essere confinati ad Ellebæk, senza capire quando, come o perché.

2. Incoraggiare” le persone a collaborare alla loro espulsione verso il Paese dal quale sono fuggiti.
L’idea di “incoraggiare” le persone a tornare nel loro cosiddetto “Paese di origine” è la logica utilizzata in tutto il discorso e nelle politiche di espulsione condotte dal Ministro dell’Immigrazione Inger Støjberg. Støjberg afferma, ripetutamente, il bisogno di rendere quanto più intollerabile possibile le condizioni dei richiedenti asilo respinti. Come dimostra la ricerca, tale strategia non spinge coloro che sono fuggiti per le loro vite a firmare la propria espulsione in un Paese dove le loro vite potrebbero essere in pericolo. Al contrario, queste persone collassano mentalmente mentre attendono anni in Danimarca.

In particolare, il confinamento dei sopravvissuti alle torture e di soggetti già vulnerabili dal punto di vista della salute mentale è stato criticato da numerose organizzazioni di difesa dei diritti umani, tra cui Amnesty International e il Danish Institute for Human Rights.

Nel 2013, una relazione redatta da Amnesty International, a seguito di uno studio sui detenuti di Ellebæk condotto da un gruppo di dottori danesi, afferma che “la legislazione e le linee guida attuali non assicurano che gruppi di persone particolarmente vulnerabili non siano confinate ad Ellebæk”. Le cose non sono cambiate.

La fondatrice nonché presidente di Refugees Welcome.dk, Michaela Bendixen, ha scritto un rapporto sui centri di espulsione danesi nel 2016. La relazione raccoglie una serie di testimonianze che evidenziano le conseguenze psicologiche che i centri di detenzione chiusi hanno sugli esseri umani che vi sono rinchiusi. Chi non mostrava segni di problemi di salute mentale prima della detenzione, ha sviluppato, poi, gravi segni di ansia e stress nella prigione di Ellebæk.

Questo posto ti manda fuori di testa. Entri normale e ne esci pazzo”, afferma Amine Chebane, detenuta a Ellebæk.

All’inizio di questa settimana, il prete del carcere, Per Bohlbro, ha affermato, in un’intervista rilasciata a TV2, che “se i richiedenti asilo respinti non sono già mentalmente malati al loro arrivo ad Ellebæk, c’è l’elevato rischio che lo siano quando lasciano il controverso centro di espulsione”.

Il documentario trasmesso questa settimana in Danimarca dipinge chiaramente, con il sostegno di dichiarazioni da parte di testimoni, attivisti e persone che lavorano nella prigione, uno scenario in cui le condizioni non sono migliorate malgrado le critiche mosse alle autorità da parte delle organizzazioni in difesa dei diritti umani. Piuttosto, le condizioni sono peggiorate. Un esempio tra tutti: in risposta all’elevato numero di tentativi di suicidio, con persone che hanno cercato di impiccarsi alle tubature dell’acqua, le tubature dell’acqua sono state semplicemente sigillate.

Sebbene la detenzione ad Ellebæk non possa superare i 18 mesi, la vita nei centri di espulsione danesi non ha limiti temporali. Alcuni detenuti del carcere di Ellebæk non possono essere espulsi finché non collaborano. Tra questi, figurano persone provenienti dall’Iran, dall’Iraq e alcuni apolidi.
Photo credit: Ole Jakobsen / TV 2
Il termine “collaborare”, qui, indica il consenso volontario al ritorno nel Paese di origine, dal quale si è fuggiti. Il fatto che la Danimarca non riconosca la necessità di protezione di un essere umano specifico non significa, necessariamente, che tale individuo non necessiti di protezione. Perché un essere umano dovrebbe rinunciare a battersi per la sua vita firmando un accordo di espulsione?

Vale la pena segnalare che il tasso di accettazione di richiedenti asilo provenienti da Iraq, Afghanistan e Somalia è significativamente più basso rispetto a quello di molti altri Paesi europei.

Gli altri due centri di espulsione, Sjælsmark e Kærshovedgård funzionano come carceri aperte. I residenti sono, in teoria, liberi di lasciare i centri quando desiderano ma sono obbligati a dormire ogni notte nel centro e a registrarsi tra le tre e le cinque volte alla settimana. Coloro che le autorità danesi non riescono a espellere con la forza sono “rilasciati” a Sjælsmark o Kærshovedgård. Qui condurranno una vita sotto la costante minaccia di essere rimandati indietro nel centro di espulsione di Ellebæk.


Un video, realizzato da Luqman Qasemi e Azad Kamalifar, residenti a Sjælsmark, un centro di espulsione aperto in cui famiglie, single e bambini vivono in un futuro insicuro in condizioni intollerabili.

Per “incoraggiare” le persone a collaborare, una pratica diffusa è quella di separare le famiglie. Spesso è il padre ad essere detenuto ad Ellebæk, mentre il resto della famiglia resta nel centro di espulsione di Sjælsmark. Il documentario di TV2 racconta la storia di Rashed Alenazi che è un apolide kuwaitiano. Egli è stato detenuto per 3 mesi nella prigione di Ellebæk mentre sua moglie ed i suoi 6 figli vivono a Sjælsmark. Poiché sono apolidi non possono essere espulsi ma le autorità danesi li ritengono iracheni, il che è negato sia da Rashed che dalle autorità irachene.

In un certo senso, i residenti che sono entrati legalmente in Danimarca, sono anche trattenuti fisicamente qui. Anche se lasciano i centri di espulsione, rischiano la detenzione per non essersi registrati presso le autorità e, se dovessero oltrepassare i confini, rischierebbero di essere riportati indietro e la Danimarca diventa, di fatto, la loro “prigione aperta” (p. 23, Stop killing us slowly).