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Come ti parcheggio il rifugiato. L’assurda storia degli eritrei a Tunisi

A vederli così, con tanto di foto scannerizzate, timbri in sovrimpressione, matricole e loghi ufficiali dell’Unhcr, sembrerebbero documenti veri. E, per certi versi, lo sono pure. C’è solo un particolare affatto insignificante: non sono riconosciuti neppure dallo stesso Paese in cui sono stati emessi! Come dire che un “2 di coppe” in una briscola a denari vale di più. E lo sa pure l’Unhcr che questi documenti li ha firmati. Tanto è vero che nel retro della tessera si legge: “Il titolare di questo documento è un rifugiato registrato presso l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite in Tunisia. Tutta l’assistenza che gli fornirete sarà ampiamente apprezzata”. Grazie tante e scusate l’incomodo!

Un documento come questo che ci ha fatto vedere Abdelfetah (nome di fantasia) ce lo hanno in tasca tutti i circa 200 rifugiati provenienti dall’Eritrea che l’Unhcr tiene “parcheggiati” in Tunisia. Documento, abbiamo già scritto, che vale zero. La Tunisia infatti, non riconosce neppure lo status di rifugiato e non ha sottoscritto nessun accordo internazionale a tal proposito. Racconta Abdelfetah, che sulle braccia e sul viso porta ancora le cicatrici della plastica fusa con la quale i carcerieri libici si divertivano a torturarlo: «Con questa carta non possiamo neppure comperarci una scheda telefonica. Pensate un po’ quanto è utile nella ricerca di un lavoro, o per un affitto di casa o anche solo per prelevare da una banca il denaro che le nostre famiglie riescono ad inviarci…».

Vengono tutti dalla Libia. Tutti rapiti in un posto di blocco o direttamente venduti dai passeurs non appena varcano la frontiera. Di quanto gli è successo in quello che oramai tutti, tranne il nostro Governo, chiamano “l’inferno libico” non hanno nessuna voglia di parlare. Chi c’è stato un anno, chi di più. Quello che conta è che ora sono in Tunisia. Qualcuno ci è arrivato da solo. Qualcun altro grazie all’Unhcr che aveva prospettato il Paese nordafricano come una tappa necessaria verso l’Europa. Abdelfetah, al di là del mare che bagna Tunisi, ha il padre, la madre e un fratello che lo aspettano da quando è partito. Non vede l’ora di riabbracciarli e chiudere e dimenticare la sua odissea che di avventuroso e mitologico non ha proprio niente. Altri non hanno nessuno in Europa e sono solo in fuga dalla guerra alla ricerca di un futuro dove non devi accoppare la gente per sopravvivere.

Ma il futuro per loro sembra essersi arenato a Tunisi, in quei piccoli appartamenti della periferia affittati tramite l’Alto Commissariato. «Questa città per noi è una prigione. Siamo qui da più di un anno e nessuno ci dice nulla. L’Unhcr ci ha sistemato in questi appartamenti e per sei mesi ha pagato l’affitto. Poi improvvisamente ha smesso e sembrava che dovessimo finire tutti per strada. Per noi, con il ridicolo tesserino che ci hanno dato, è impossibile non solo cercare lavoro ma anche firmare un contratto d’affitto. Anche il pocket money che ci ha permesso di sopravvivere ci è stato levato per quattro mesi. Eravamo ridotti alla disperazione. Adesso hanno ripreso a pagare l’affitto ma non ci hanno detto quanto durerà. Non ci dicono mai nulla».

Il giorno di Natale, in compenso, l’Unhcr gli ha regalato una bella tazza con un caloroso Happy New Year 2019!

Gli eritrei non parlano il francese. Non parlano neppure l’arabo. Negli uffici del TRC, il Tunisian Red Crescent che fa da riferimento all’Unhcr nel Paese nordafricano, si parla solo francese o arabo. «Se chiediamo informazioni sul nostro destino ci spediscono da un ufficio all’altro da parti opposte della città, sino a che non ci stufiamo di far domande. Nel palazzo dell’Unhcr non siamo più ammessi. Ci dicono che dobbiamo rivolgersi solo al TRC. Abbiamo anche provato a contattare le associazioni locali di diritti umani, ma queste non sono interessate a noi, ritengono che la protezione dell’Unhcr sia più che sufficiente per noi».

Un punto critico è l’assistenza medica. Assistenza medica che semplicemente per gli eritrei non c’è. «Negli ospedali si paga tutto – racconta Abdelfetah -. Da quando siamo qui non abbiamo incontrato nessuno psicologo. Anche chi sta molto male non ha avuto nessun sostegno per quanto subito in Libia». Evidentemente, con i medici locali non fa presa la raccomandazione dell’Unhcr “Tutta l’assistenza che gli fornirete sarà ampiamente apprezzata!“.

«Qui la nostra vita non ha alcun senso. Non siamo nessuno. Non abbiamo nemmeno un documento. Non vogliamo restare qui. E perché dovremmo? Qui valiamo meno di zero. Ci sentiamo continuamente chiedere qual è la nostra religione e non abbiamo relazioni sociali se non quelle tre lezioni settimanali della scuola di francese, l’unico servizio che ci è stato dato dall’Alto Commissariato».

«Dopo essere riusciti a sopravvivere all’inferno libico, dopo anni di torture ed umiliazioni, questi eritrei non sono ancora considerate come ‘persone’ foriere dei più elementari diritti umani – commenta Yasmine Accardo, referente per la Campagna LasciateCIEntrare che ha incontrato a Tunisi i rifugiati dall’Eritrea -. La Tunisia offre loro un rifugio, ma un rifugio illusorio, dove ancora una volta naufragano i sogni e si alzano i muri, perché nessuno di loro, pur essendo riconosciuto come rifugiato, così come scritto sulla tessera che portano, possiede un valido documento di viaggio e non può comperarsi un biglietto aereo per raggiungere un Paese in cui esista una normativa certa sul diritto d’asilo dove riuscire finalmente a ricominciare a vivere. E’ vero che qui quantomeno non vengono torturati e non c’è una guerra, ma resta altissimo il muro per chi crede ancora nel significato della parola Diritti».

Yasmine ribadisce che la Campagna approfondirà l’assurdo caso degli eritrei “dimenticati” per comprendere quali ostacoli si frappongano tra l’attesa e la ripresa del viaggio, con canali regolari. «Abbiamo chiesto un appuntamento ad Unhcr Tunisia, essendo tanti i punti oscuri che meritano approfondimenti e chiarimenti. Non esiste nessun motivo per cui dei rifugiati, ufficialmente riconosciuti dall’Unhcr non abbiano ancora un titolo che gli permetta di raggiungere finalmente la meta del loro lungo e doloroso viaggio».

Riccardo Bottazzo

Sono un giornalista professionista.
La mia formazione scientifica mi ha portato a occuparmi di ambiente e, da qui, a questioni sociali che alle devastazioni dei territori sono intrinsecamente legate. Ho pubblicato una decina di libri tra i quali “Le isole dei sogni impossibili”, edito da Il Frangente, sulle micronazioni dei mari, e “Disarmati”, edito da Altreconomia, che racconta le vice de dei Paesi che hanno rinunciato alle forze armate. Attualmente collaboro a varie testate cartacee e online come Il Manifesto, Global Project, FrontiereNews e altro.
Per Melting Pot curo la  rubrica Voci dal Sud.

Dossier Libia

Abusi e violazioni sull'altra sponda del Mediterraneo.
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