Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

La Tunisia non è un Paese sicuro. La vicenda dei 36 ivoriani abbandonati nel deserto lo dimostra

Stanno tutti bene. Le donne ed i bambini sono stati portati al foyer di Medenine mentre gli uomini a quello di Megrine, vicino Tunisi. Gli operatori sanitari dell’Oim hanno potuto incontrarli e assisterli. Le conseguenze di quanto hanno patito, abbandonati nel confine tra la Libia e la Tunisia, sono ancora pesanti nei loro corpi ma, quantomeno, ora possono mangiare, bere acqua e stare all’ombra. Non è poco, dopo una settimana di deserto. «Noi comunque continueremo a seguirli, proprio come abbiamo fatto sino ad ora – assicura Yasmine Accardo, coordinatrice della Campagna LasciateCIEntrare -. Vigileremo perché siano rispettati i loro diritti e perché non debbano più subire soprusi del genere. Li abbiamo sentiti al telefono, confermano di stare bene e ringraziano tutti coloro che in questi giorni si sono attivati e non hanno smesso un solo minuto di cercarli e di fare pressione sulle autorità tunisine».

La vicenda dei 36 migranti ivoriani deportati dalla Tunisia al confine con la Libia è venuta alla luce soltanto grazie al video che sono riusciti a far diffondere dalla FTDS (Forum Tunisien pour les Droits Economiques et Sociaux) e alla successiva pressione di un gruppo di attiviste e attivisti internazionali giunti a Zarzis, Tunisia del sud, per un’iniziativa di solidarietà e incontro con i pescatori locali chiamata “Europe Zarzis Afrique”, alla quale hanno aderito un buon numero di organizzazioni e gruppi informali 1. E’ stata una vera battaglia a chi teneva duro di più. «Un amico tunisino, attivo nelle reti di solidarietà dei migranti, ci ha inoltrato il video che gli stessi migranti avevano realizzato per chiedere aiuto – continua Yasmine -. Ci siamo immediatamente precipitati alla frontiera. Le guardie negavano tutto ma noi sapevano che era tutto vero e che in mezzo a quel deserto di confine c’erano 11 donne di cui una incinta, 4 bambini piccoli e 25 uomini abbandonati a morire di fame e di sete».

Sono stati 5 giorni di pressioni continue a tutti i livelli. Le attiviste e gli attivisti non hanno smesso a staffetta di presidiare la frontiera, notte e giorno. Le guardie non facevano in tempo ad allontanarli da un check point che mezz’ora dopo erano già ritornati là. Prima di arrivare nei pressi della sbarra di confine bisogna infatti superare 3 posti di blocco presidiati dalla polizia. «Convincere i militari a farci passare non sempre è stato semplice, abbiamo dovuto far capire loro che conoscevamo la situazione e che da lì non ci saremo mossi, a costo di farci arrestare e far scoppiare un caso a livello internazionale. Non potevamo lasciare morire degli innocenti», afferma Yasmine. Ed intanto, il gruppo rimasto a Zarzis spediva comunicati alla stampa italiana ed internazionale e mandava appelli all’Unhcr, alla Mezzaluna Rossa, all’Oim e a tutte le associazioni che si occupano di tutelare i migranti. Martedì 6 agosto, in collaborazione con l’associazione Terre pour tous di Tunisi, è stato organizzato anche un sit in davanti alla sede dell’Agenzia Onu per i Rifugiati per denunciare la situazione e chiedere il loro intervento immediato. Intanto, la stampa italiana, francese e spagnola cominciava a riprendere i comunicati degli attivisti alla frontiera e le smentite della Tunisia apparivano sempre meno categoriche. «Il problema era che dovevamo fare presto. Quelle persone stavano morendo. Se sei da solo in mezzo al deserto, senza nulla da bere, costretto a bere l’acqua del mare, non puoi attendere i tempi della burocrazia, né tantomeno che chi ha il mandato di difendere i tuoi diritti capisca se sei un richiedente asilo o un “semplice” migrante. I bambini svenivano sotto il sole e le donne si sentivano male. Se qualcuno fosse morto, le responsabilità di quella Tunisia che in Italia qualcuno considera ancora un porto sicuro, sarebbero state enormi».

Anche le Nazioni Unite, alla fine, mercoledì 7 agosto escono con un comunicato in cui invitavano la Tunisia ad effettuare il “trasferimento di queste persone in un luogo sicuro in Tunisia il più presto possibile, conformemente ai principi di base dell’azione umanitaria”. A questo punto, il Governo tunisino cede e accetta di mettere in sicurezza quelle persone che lui stesso aveva messo in pericolo di vita. Non vuole comunque ammettere che le “pazze visionarie” avessero ragione e nel comunicato ufficiale parla di “alcuni migranti” trovati nella zona di confine che nulla hanno a che vedere con le farneticazioni degli attivisti internazionali. Ma quando l’Oim li conta e questi sono esattamente 36, allora anche la Tunisia tace!

«Tutto è finito bene e, naturalmente, ne siamo contenti – conclude Yasmine Accardo -. Non possiamo però fare a meno di chiederci cosa sarebbe successo se i migranti non fossero riusciti a girare quel video o se noi non avessimo fatto pressione alla frontiera e avvertito tutte le organizzazioni che hanno il compito di occuparsi dei profughi. Quanti persone vengono deportate o respinte nel deserto o in Libia senza che si sappia nulla? La Tunisia, oramai chi voleva capirlo lo ha capito, non è un paese sicuro per i migranti. L’Italia e l’Europa non possono rimanere indifferenti e continuare a delegare a Paesi come la Libia o la stessa Tunisia il controllo delle sue frontiere. Per fermare le migrazioni si stanno attuando dei crimini contro l’umanità e spendendo un’enorme quantità di denaro che invece potrebbe essere usata per scopi umanitari. Dobbiamo continuare a batterci insieme ai migranti per la libertà di movimento, perché ogni essere unano ha il diritto di scegliere dove vuole vivere. Ma se le condizioni economiche, politiche, ambientali, sociali nei loro paesi non migliorano, anzi peggiorano, come tra l’altro confermano moltissimi studi in materia, non possiamo che essere al loro fianco e sostenere le loro istanze».

  1. Hanno partecipato alla giornate promosse da “Europe Zarzis Afrique”: Bergamo migrante antirazzista, Borderline Sicilia, Campagna Lasciatecientrare, Caravana Abriendo Fronteras, Carovane Migranti, Dossier Libia, Movimiento Migrante Mesoamericano, Progetto 20k, Progetto Melting Pot Europa, singole persone.

Stefano Bleggi

Coordinatore di  Melting Pot Europa dal 2015.
Mi sono occupato per oltre 15 anni soprattutto di minori stranieri non accompagnati, vittime di tratta e richiedenti asilo; sono un attivista, tra i fondatori di Libera La Parola, scuola di italiano e sportello di orientamento legale a Trento presso il Centro sociale Bruno, e sono membro dell'Assemblea antirazzista di Trento.
Per contatti: [email protected]

Riccardo Bottazzo

Sono un giornalista professionista.
La mia formazione scientifica mi ha portato a occuparmi di ambiente e, da qui, a questioni sociali che alle devastazioni dei territori sono intrinsecamente legate. Ho pubblicato una decina di libri tra i quali “Le isole dei sogni impossibili”, edito da Il Frangente, sulle micronazioni dei mari, e “Disarmati”, edito da Altreconomia, che racconta le vice de dei Paesi che hanno rinunciato alle forze armate. Attualmente collaboro a varie testate cartacee e online come Il Manifesto, Global Project, FrontiereNews e altro.
Per Melting Pot curo la  rubrica Voci dal Sud.