Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Migrazioni “climatiche” e produzione di “othering”

Intervista a Marco Armiero, direttore dell'Environmental Humanities Lab del Royal Institute of Technology a Stoccolma

Ai margini del focus-lab del Venice Climate CampCrisi climatica, neocolonialismo e migrazioni forzate”, Salvo Torre ha intervistato per Globalproject.info uno dei relatori, Marco Armiero, direttore dell’Environmental Humanities Lab del Royal Institute of Technology a Stoccolma.

Durante l’incontro qui al Climate Camp con Nnimmo Bassey vi siete confrontanti su una serie di grandi trasformazioni della società globale, ma soprattutto sui legami che esistono fra vari elementi di questa trasformazione non solo sul piano della produzione delle crisi, ma anche sul piano della presenza e nascita di nuove soggettività. È emerso in maniera molto chiara come le migrazioni siano processi in grado di sintetizzare queste grandi trasformazioni da un lato, ma dall’altro siano anche uno dei grandi nodi su cui si realizza tutta una parte della nuova costruzione dei conflitti sociali.

Sappiamo bene che le migrazioni e ancora di più i migranti sono la moneta più interessante in questo momento nel dibattito pubblico, non solo in Europa o negli Stati Uniti. In genere ragioniamo solo sulle migrazioni quando queste riguardano il mondo occidentale, ma in realtà tanta parte delle migrazioni avviene in Paesi altri, in Asia, in Africa, dentro l’America Latina e l’America Centrale. Il ragionamento che penso valga la pena di fare si basa sulla necessità di costruire alleanze che vadano un po’ oltre il paradigma dell’accoglienza.

Questo può sembrare un ragionamento scivoloso e quindi spero di riuscire a farlo al meglio: quando dico che il discorso sull’accoglienza e sul multiculturalismo mi lascia perplesso, spero che nessuno fraintenda che sto ragionando non sull’opposto dell’accoglienza, ma su qualcosa di profondamente diverso. L’accoglienza presuppone innanzitutto una disposizione d’animo di una società benevola che accoglie qualcuno, invece io forzerei un po’ di più la mano su un discorso basato sulla solidarietà di classe, cioè la solidarietà del 99% contro un 1% che sfrutta tutti e tutte, umani e non umani.

Credo che, a partire da questi presupposti, si possa immaginare realmente – passatemi il termine – una rivoluzione globale che tenga dentro soggetti che in questo momento pagano il prezzo del modello di sviluppo attuale, basato non solo sulla messa a valore della vita, sullo sfruttamento del lavoro e della natura, ma addirittura sulla morte delle lavoratrici, dei lavoratori e della natura.

Questo è realmente l’opposto dell’idea sovranista e xenofoba che mira a costruire un “noi facile”, un “noi” in opposizione ad altri che ricalca il progetto coloniale dell’othering. Oggi sono i migranti, ma in realtà ieri e domani è stato e sarà qualcun altro: la verità è che il capitalismo globale, questo modello di sviluppo, questa società delle élites si fonda su un altro che è continuamente riprodotto.

Questo lo sa bene che chi lavora sui territori, chi è immerso nelle contraddizioni e nei conflitti attuali, perché se sei nato a Taranto ai Tamburi, se sei nato nella Terra dei Fuochi, se sei nato nel quartiere sbagliato di New Orleans o se sei nato sulla discarica a El Paso sai benissimo che non è questione di appartenere a una comunità nazionale, è questione che sei nato dalla parte sbagliata del muro, dei muri che separano le nostre vite, i nostri corpi, le nostre città.

In questo senso, credo che un progetto rivoluzionario, dove per rivoluzione intendo un cambio radicale del sistema, non possa prescindere da una trasformazione delle relazioni perché l’othering, e anche l’idea stessa di migrante, è continuamente riprodotto attraverso una serie di relazioni sociali.

Quello di cui abbiamo bisogno non è solo di non fare i muri, di essere un po’ più buoni e di aprire i porti – e non mi fraintendete, abbiamo bisogno di essere un po’ più buoni, di aprire i porti, e di non fare i muri -, però forse l’ambizione deve essere proprio quella di abbattere le relazioni di othering, che a volte diventano i porti chiusi di Salvini o i muri di Trump, altre volte sono i muri che stanno nelle nostre teste, quelli che producono i Tamburi o il disastro di Katrina, per fare due esempi conosciuti. A New Orleans, ad esempio, non c’era nessun muro che si vedesse, ma i muri c’erano eccome ed erano quelli di una società basata su quello che in inglese si chiama il Racial Capitalism, il capitalismo razziale.

Ci puoi chiarire meglio l’affermazione, che ho trovato molto efficace, per cui dici che non bisognerebbe parlare di migrazioni climatiche, ma di altro?

Io sono molto simpatetico con le associazioni, le attiviste e gli attivisti che stanno lavorando sull’ipotesi di allargare il principio di protezione internazionale ai “rifugiati climatici”. Dal punto di vista della legislazione e degli strumenti legali può essere una cosa molto utile e funzionale. Da quello teorico, però, credo che questa cosa abbia i suoi limiti, di cui possiamo parlarne.

Credo che innanzitutto ci sia un’idea un po’ deterministica, quella di riuscire a definire cos’è un migrante o un rifugiato climatico rispetto a tutto il resto; che cos’è che caratterizza la condizione di un rifugiato climatico che non ha a che fare per esempio con la distribuzione delle ricchezze e, in generale, con il modo di produzione capitalista?

L’esempio è facile: si pensi al Brasile negli anni ’30, quando una grande siccità colpì la regione del Sertão, nel nord-est del Paese. È qui che nascono i cosiddetti retirantes del Sertão, su cui un artista molto famoso, Candido Portinari, ha fatto una serie di opere. Il governo brasiliano propone alcune misure, perché di fatto era più facile intervenire nello specifico sulla “siccità” che sulle relazioni sociali che hanno contribuito a far fuggire le persone. Era più facile stanziare fondi per l’emergenza, che attuare una riforma agraria strutturale, perché la gente del Sertão scappava sì dalla siccità, ma scappava anche dal sistema delle piantagioni.

Badate bene, io non sto cancellando la siccità dalla storia, però voglio metterci dentro anche le piantagioni. Quindi vorrei provare a ragionare su un’ipotesi che riguarda il tema migratorio in cui non si divida la natura dall’economia, dalla società, dal capitalismo. Purtroppo oggi ci troviamo di fronte a una sorta di determinismo cartesiano, a cui va contrapposta un’idea per cui il capitale e l’ecologia sono mischiati e chi scappa dalla siccità o dai cambiamenti ambientali e climatici in Africa scappa anche da secoli di colonialismo, scappa dall’estrattivismo odierno.

Dal punto di vista legale ragionare sui rifugiati climatici magari potrà funzionare, io non sono un esperto di diritto; dal punto di vista politico credo funzioni di meno. È stato a lungo detto che nel 2050 avremo 250 milioni di rifugiati climatici: una sorta di apocalisse che viene, frotte di “barbari alle porte” dell’occidente. Secondo me è estremamente discutibile questa cosa, perché si proietta sempre nel futuro l’apocalisse, mentre il cambiamento climatico è oggi, è nelle Filippine, nei Caraibi, in Indonesia, in Bolivia. Credo che il continuo posporre l’apocalisse nel futuro e la retorica dei “barbari alle porte” facciano parte entrambi di una visione coloniale, secondo cui quello che non c’è oggi nel nostro mondo “bianco e ricco” non esiste.

L’idea che il cambiamento climatico danneggerà le generazioni future fa un po’ da ridere se non fosse tragica, perché vi assicuro che le condizioni di vita della gran parte delle persone nel mondo è già estremamente degradata. Anche questo fa parte di quell’idea di othering di cui parlavo prima.

In definitiva, credo sarebbe meglio, in termini politici, ragionare insieme su come allargare la protezione internazionale a tutto lo spettro delle condizioni economiche e sociali che producono le migrazioni. È rischioso dividere la natura dall’economia e dalla politica.

Pensate anche alla questione dei rifugiati di guerra: a un certo punto il Principe Carlo in una intervista, con un colpo di scena, ha dichiarato che la guerra in Siria è una guerra climatica, provando a ritagliarsi anche lui il suo piccolo pezzo di greenwashing. Io non nego che ci stia dentro anche un elemento climatico in quella guerra, ma come studioso ho un mandato contro il determinismo, per il quale ci siamo già passati e non ci vogliamo tornare.

I rapporti sono rapporti socio-ecologici e non sono rapporti solo ecologici; tuttavia, questo forse mi distingue da un marxismo abbastanza classico, sono anche ecologici. È importante che le categorie si mischino, perché se ci dimentichiamo una delle due cose non è che ci siamo dimenticati una cosa banale, è che non abbiamo proprio capito niente.