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Il Coronata Campus di Genova: una storia di buone pratiche

di Ivana Moretti*

Il fenomeno migratorio è antico come l’umanità e si evolve costantemente. La stessa conformazione dei popoli attuali dipende da migrazioni che risalgono a decine di migliaia (se non milioni) di anni fa. Le persone si muovono, inseguono opportunità, affrontano e vivono congiunture difficili.

Le migrazioni odierne sono un fenomeno accelerato, e su scala globale. E proprio in una epoca di globalizzazione, che è parsa interessarsi solo di merci e capitali, l’instabilità geopolitica dei paesi mediorientali e africani, provocata spesso dall’azione politica ed economica delle potenze occidentali, ha avuto come effetto quella destabilizzazione profonda che è una delle cause degli attuali movimenti di massa.

Muoversi in un mondo globalizzato non significa, tuttavia, non misurarsi con regole e sistemi di legittimazione spesso rigidi, e dunque ispirati a principi contrari a quello della mobilità. In alcuni paesi, ad esempio, il blocco dei flussi legali di entrata ha costretto i protagonisti di questo immenso fenomeno a mettersi in mano ai trafficanti, diventati l’unico strumento per scappare da situazioni drammatiche.

A partire dunque da una situazione complessa e non ovvia nasce la difficoltà (o l’incapacità) a gestire questi problemi che ha caratterizzato le più recenti politiche europee sull’immigrazione. Una difficoltà che, al di là dei problemi culturali e sociali più generali che impattano con questo fenomeno, sta provocando una crescente insofferenza da parte delle popolazioni autoctone, caratterizzata spesso da gravi episodi di intolleranza, che hanno come bersaglio le popolazioni immigrate più o meno stabilmente insediate in Europa, identificate a volte come concorrenti nella sfera dei diritti sociali, a volte come minaccia rispetto alla (presunta) identità culturale e religiosa del nostro continente.

L’analisi del percorso storico e socioeconomico dei fenomeni migratori può essere utile per interpretare il dibattito politico attuale, se non altro, e soprattutto, perché il riferimento alle migrazioni storiche è oggi un elemento forte nella discussione politica, rivendicato per giustificare o meno le dinamiche dell’accoglienza. La discussione accesa sia a livello europeo che italiano si è posta anche in questi termini, e chi oggi interviene nel dibattito politico sul fenomeno migratorio, da una parte come dall’altra degli schieramenti di opinione, rivendica in maniera più o meno retorica l’importanza di uno sguardo sul passato (con un evidente e a volte ingenuamente inconsapevole accento sull’importanza del “nostro” passato: si pensi in Italia al fenomeno dell’emigrazione oltreoceano).

Anche per questi motivi, le migrazioni sono un oggetto di studio eterogeneo e difficile da definire in quanto in relazione costante con dinamiche storiche e con contesti di volta in volta diversi, ma sempre (come i loro protagonisti) “in movimento”. Cambiano le frontiere, si modificano le regole del diritto di asilo e di accoglienza, mutano le condizioni politiche e sociali che determinano le ragioni per partire (e quelle per scegliere la destinazione), ma rimane costante – e dunque innegabilmente “naturale” – la mobilità degli esseri umani, qualsiasi sia la loro religione, la loro lingua o il colore della pelle.

Il caso studio che segue e il contesto storico in cui si colloca lo mostrano con tutta evidenza, tuttavia, le implicazioni sociali, culturali e storiche diventano però determinanti quando ci si misura con il concretizzarsi e il mutare di questi fenomeni.

I paesi mediterranei come l’Italia, terre storicamente di emigrazione, sono stati paradossalmente colti impreparati dalla pressione migratoria degli ultimi anni. La pur corposa legislazione emanata nel nostro Paese è spesso servita più a tamponare un’emergenza che a dare risposte concrete al problema.
Questo perché le migrazioni odierne hanno modalità per il nostro Paese diverse da quelle conosciute negli anni precedenti, e le istituzioni sembrano non essere state in grado di gestire il fenomeno in maniera costruttiva, con una politica di lungo periodo.

Le norme approvate negli anni con l’obiettivo di cancellare la migrazione irregolare hanno di fatto alimentato proprio quei fenomeni che volevano contrastare, rendendo precario lo status di persone che sono tornate ai margini della società e della legalità (o fuori di esse), spesso anche per ragioni economiche. E anche la più recente normativa che vuole essere di contrasto alla tratta di esseri umani e alla speculazione sull’immigrazione sembra destinata a togliere risorse a un sistema di accoglienza ordinario che sembrava funzionare, rendendo di fatto ora ancora più difficili i percorsi di inclusione dei migranti.

Anche in Europa lo scambio di accuse tra governi definiti sovranisti e quelli che si dichiarano progressisti non ha portato a una soluzione. Il tentativo di ricollocare l’alto numero dei migranti arrivati in Europa tra il 2014 ed il 2015, sulla base degli accordi di Dublino, non è stato attuato e la maggior parte di queste persone si trova ancora nei paesi di primo ingresso (ovvero, negli ultimi anni, soprattutto in Italia).

Come si vedrà nel caso studio che segue, il dibattito che ha coinvolto la società civile si è diviso tra accoglienza e rifiuto, e l’opinione pubblica è spesso disorientata e certo fortemente influenzata dai media.

La maggior parte delle persone, infatti, per costruirsi un’opinione sul fenomeno migratorio preferisce attingere le notizie diffuse dai telegiornali, piuttosto che sperimentare direttamente un fenomeno che pure interessa oramai in maniera quasi capillare tutti gli spazi della società italiana (visto che l’accoglienza diffusa ha distribuito gli arrivi in quasi ogni angolo d’Italia).
E in questa mediazione si intravedono tutti i problemi che caratterizzano la situazione attuale. Come rilevato attraverso l’analisi della comunicazione presente nel VI rapporto della Carta di Roma, il meccanismo di produzione e diffusione delle immagini dei media è legato alle finalità di produzione delle stesse e a quelli che sono i suoi destinatari. I media stessi nel trattare l’informazione sono spesso superficiali, come vedremo di seguito.

Questa inadeguatezza è stata sperimentata attraverso i dati raccolti, analizzando la stampa locale e nazionale, che si sono rivelati incongruenti rispetto alla realtà dei fatti documentati nel presente lavoro. Le Tv locali e nazionali, infatti, sembrano spesso interessarsi ai migranti solo se spinti da fatti di cronaca, insistendo dunque sulla narrazione conflittuale degli eventi, e dipingendo gli stranieri come invasori, e soggetti destinati a creare “naturalmente” problemi a livello sociale.

È dato invece pochissimo spazio alla partecipazione attiva di questi soggetti alla vita cittadina; poco o nulla viene raccontato delle loro esperienze lavorative e formative pregresse, o dell’importante apporto degli immigrati al PIL nazionale attraverso il loro lavoro. Anche nella narrazione dell’immigrazione, non sembrano importare i dati oggettivi relativi alla necessità che le economie occidentali hanno, a seguito del progressivo invecchiamento della popolazione autoctona, di incremento di popolazione straniera.

L’esperienza del Coronata Campus ha avuto invece, in controtendenza rispetto a quanto appena scritto, una buona visibilità sui media locali e nazionali, grazie a un’efficace rete di comunicazione e a un percorso di inserimento nel quartiere che lo ospita. Il caso costituisce dunque un esempio di come anche i media possano contribuire ad un modo differente (e positivo) di guardare al fenomeno.

Il presente lavoro è dunque una sorta di analisi sia di una esperienza di intervento attraverso il mezzo audiovisivo, sia del modo in cui quella esperienza si è nel frattempo consolidata anche attraverso le modalità con cui si è “presentata”, attraverso i media alla città, al di fuori di essa.

Un processo che è stato rappresentato per certi versi simbolicamente dall’Open day 2018 allestito nel Campus, con cui il centro si è aperto alla cittadinanza genovese.

In quell’occasione si è voluto presentare in maniera più ampia quel “Progetto Sociale Coronata”, che cerca di offrire soluzioni di inclusione per i migranti, trasportando il modello di incubatore di impresa sul sociale, con corsi di lingua, professionali, aiuto nella preparazione del curriculum vitae e ai colloqui di lavoro, volontariato e supporto logistico sul territorio per gli stranieri. Un progetto che mira a fornire un aiuto anche alle fasce deboli del quartiere, e vede grande protagonista una persona, don Martino, sempre pronta a battersi in prima linea e a esporsi in prima persona nei suoi interventi, rivendicando e legittimando la necessità del suo agire, per dirla con le sue parole, in nome “dei valori cristiani di accoglienza”.

Ma i protagonisti di questa esperienza, insieme al vulcanico sacerdote, i suoi collaboratori, e gli abitanti del quartiere, sono anche e soprattutto i migranti. A dimostrarlo, proprio in occasione dell’Open day, è anche la cura con cui la gran parte di essi si è preparata all’evento. In molti si sono presentati in completo con giacca e cravatta, o con i vestiti creati da loro stessi, attraverso il lavoro in sartoria. Altri indossavano cappelli o maglie con la scritta “Italia”, come a voler segnalare concretamente una volontà di autoinclusione, o a manifestare la gratitudine per un paese che, nonostante tutto, garantisce accoglienza.

Ed è proprio attraverso l’attenzione attribuita all’immagine “pubblica”, che i migranti hanno voluto dare di loro stessi, che permette di comprendere quanto la “rappresentazione” di questa esperienza sia stata per loro importantissima. Lontana anni luce dalla lugubre rappresentazione dei servizi giornalistici, l’immagine proposta è stata del tutto positiva: la festa, i segni dell’inclusione, della partecipazione (e dunque tutto il contrario rispetto alla dimensione dell’emarginazione).

Non vanno però taciuti anche alcuni aspetti critici. Spesso all’interno di un contesto di accoglienza istituzionale, come quello del Campus, è difficile riuscire a sollecitare le persone e fare analisi approfondite.

La relazione, come in questo caso, passa attraverso Don Martino e l’Ufficio Comunicazione, e come in tutte le strutture di questo genere le persone nel Campus sono soggetti a un qualche tipo di gerarchia o di “costrizione”; lo sono i dipendenti del Campus che devono fare quadrato e tutelare l’immagine del loro operato e del loro progetto, al quale credono, ma lo sono soprattutto i richiedenti asilo, più disponibili a raccontare le loro storie nel momento in cui escono dalla struttura.

Non è un caso se i racconti dei migranti all’interno della struttura di accoglienza risultano un poco rigidi e retorici, ogni rapporto avviene in presenza di un educatore. Una presenza quest’ultima necessaria, in quanto la posizione delle persone ospitate deve poi essere vagliata da una Commissione che dovrà valutarla da un punto di vista giuridico.

Per ragioni di opportunità queste persone non ritengono quindi idoneo parlare di una buona parte del loro vissuto, visto che le loro “storie” costituiranno anche elementi fondamentali nel loro percorso di integrazione (dal punto di vista politico e sociale, ma soprattutto, come detto, giuridico). A causa pertanto di queste dinamiche, la narrazione spesso non è spontanea, risulta comunque mediata ed è molto difficile sollecitare direttamente le persone ad andare oltre a quello che Goffman (1959) definirebbe come “la semplice rappresentazione”.

Riguardo all’iter delle leggi che si sono succedute nel nostro Paese, è evidente come i migranti, per aspirare ad integrarsi in maniera legale, spesso non solo non possano spendere le loro capacità professionali e il loro capitale umano e sociale, ma si trovino anche in uno stato transitorio, in attesa dell’incontro con una Commissione delegata a decidere sul loro futuro, e di fatto debbano reggere una rappresentazione funzionale alla loro posizione, soprattutto se sollecitati in un contesto molto istituzionale. Anche in questo sono vittime e tenderanno, quindi, a inserire la loro narrazione personale in un contesto drammatico, di violenze e persecuzioni religiose o politiche. Il migrante economico, infatti, non rientra in nessun caso nei criteri della protezione umanitaria.

In questo caso sono state sperimentate direttamente alcune difficoltà comunicative, dovute alla naturale diffidenza degli intervistati, difficoltà che hanno rappresentato un ostacolo, in quanto hanno impedito di poter andare a fondo di un’esperienza, ma soprattutto di poter entrare nel vissuto di queste persone.

Ciò nonostante nel Campus di Coronata si respira un clima diverso dalle altre strutture in precedenza visitate; un clima in cui è possibile un percorso più maturo di inclusione e di integrazione, che può dare sicuramente più speranze a queste persone, e magari, col tempo e con la costruzione di un sistema politico e giuridico di inclusione più organico, offrire un percorso alternativo, un cammino nuovo per gli uomini e le donne in movimento.