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Senegal, la disperazione del “ritornante”

«Chi viene rispedito indietro dall’Europa va incontro ad un destino che è considerato peggio della morte»

Lui è uno di quelli che ce l’hanno fatta. Uno dei pochi. Racconta che è stata dura e subito aggiunge che non è ancora finita. L’ho incontrato in mezzo ai colori, ai suoni ed ai profumi del mercato dell’artigianato di Dakar, ma avrei potuto incontrarlo anche a Roma perché gestisce una bancarella di maschere e dipinti senegalesi in una strada della Capitale. Il suo nome è Amadou.

Torno a Dakar almeno una volta all’anno per acquistare la merce che poi rivendo nel mercato di Roma – racconta -. Ma soprattutto torno per aiutare la mia famiglia e portare dei soldi. Anche un centinaio di euro qui sono tanti e ti permettono di vivere per molti mesi. Senza il denaro che porto dall’Italia la mia famiglia farebbe la fame. Mio fratello gestisce questa bancarella di artigianato a Dakar, ma turisti qui se ne vedono davvero pochissimi. Alla fin fine sono solo io che gli compro la merce per portarla in Italia. Gli altri fratelli fanno gli agricoltori, ma la terra è sempre più povera. Poi ci sono i nipoti che non riescono neppure a fare gli agricoltori perché la terra è sempre più secca. Sopravvivono solo grazie a quello che io gli regalo. Il problema è che abbiamo famiglie troppo numerose e non più sostenibili. Io sono riuscito ad arrivare in Italia e avviare una attività commerciale, ma quasi tutto quello che guadagno lo spendo in Senegal con l’unico risultato di allontanare la fame dalla mia famiglia. Ma così non si va avanti. Non c’è futuro. E dire che, in Senegal, sono considerato uno di quelli che ce l’hanno fatta!”.

Amadou ha conquistato la sua Europa solo per scoprire che, come sottolinea, “è un altro Senegal, solo con molto più razzismo” con l’unico vantaggio che “da voi la merce si riesce a vendere, qualcosa si tira su e si sopravvive”. E conclude: “Ma se potessi tornerei subito a Dakar!”.

Non è stato così fortunato, Abdoulaye (questo è un nome di fantasia). Anche lui girovagava per il mercato dell’artigianato di Dakar, ma, al contrario di Amadou, non aveva nessuna bancarella. Magro da far spavento, vagabondava tra la gente cercando di vendere a chi capitava una della 4 o 5 brutte collanine che teneva tra le mani scheletriche. Non stava neppure a discutere sul prezzo. Andava bene qualsiasi cifra. “E’ per mangiare”, spiegava. In Europa, Abdoulaye ci era pure arrivato. E per la stessa strada di Amadou. Un viaggio interminabile attraverso il deserto e gli orrori dei lager libici. Poi il barcone e finalmente l’agognata Europa, sino alla Francia. Un viaggio di oltre tre anni per essere rispedito in patria a calci in culo dopo neppure tre mesi con un volo diretto Parigi – Dakar di 5 ore e 25 minuti. E Dakar, Abdoulaye, non l’ha più lasciata. Sbarcato dall’aereo, non ha avuto il coraggio di ritornare al suo villaggio ed alla sua famiglia che contava su di lui per uscire dalla miseria. Preferisce che lo credano morto. Preferisce sopravvivere di collanine e di carità, tra fame e stenti, nelle strade di Dakar.

Chi viene rispedito indietro dall’Europa va incontro ad un destino che è considerato peggio della morte – spiega il giovane attivista Mustapha Sallah – Io sono fortunato. Ho una famiglia che mi ha riaccolto. Ma non è così per la maggior parte dei migranti”.

Mustapha è un portavoce dell’associazione interafricana Youth Against Irregular Migration (Yaim) nata in Gambia proprio per tutelare i migranti di ritorno e per spiegare ai giovani che intendono partire a quali rischi vanno incontro.

Lui stesso è un “ritornante”. Il suo obiettivo iniziale non era l’Europa ma Taiwan, dove sperava di accedere ai corsi universitari di informatica. Per questo, aveva lasciato la nativa Banjul, capitale del Gambia, per la Nigeria. Ad Abuja si era fermato tre mesi solo per rendersi conto che Taiwan era per lui irraggiungibile. Allora aveva affidato tutti il suo denaro a dei passeurs convinto che fosse la soluzione per arrivare all’Europa. “Appena arrivato a Tripoli, mi hanno arrestato senza motivo e internato in un campo” racconta. Di quanto gli è stato fatto nel lager libico, Mustapha non parla volentieri. Dice solo che lo picchiavano per il gusto di picchiarlo tutte le volte che chiedeva qualcosa da mangiare.

Dopo 4 mesi di prigionia è ridotto in fin di vita. Anche per i torturatori, Mustapha non presenta più interesse perché gli hanno già portato via tutto quello che sono riusciti a portargli via, e viene preso in carico da degli operatori dell’Oim che gli offrono l’opportunità di essere rimpatriato. “Ho detto di sì. Non avevo nulla per pagarmi il barcone e l’alternativa era solo la morte”.

Oggi Mustapha con la sua associazione si occupa di aiutare i disperati che non hanno il coraggio di rientrare in famiglia, “cerco di spiegargli che non c’è vergogna nell’essere respinti dalle frontiere”, e gira per i villaggi dell’interno per raccontare cosa significa affidare la propria vita ai trafficanti. “Chi parte non sa quello a cui va incontro – spiega -. Nei villaggi queste informazioni non arrivano”.

In un Paese dove la povertà ammazza, l’Europa viene vista come l’unica strada per un riscatto sociale. Il giovane che riesce ad arrivare, come nel caso di Amadou, è una garanzia di sopravvivenza per tutta la famiglia e, in alcuni casi, per tutto il villaggio. E’ frequente che due o più famiglie creino una sorta di, chiamiamola così, joint venture con lo scopo di mettere assieme il denaro che credono sia sufficiente a consentire al migrante di arrivare in Europa e di avviare una attività o di trovare un lavoro.

Birago (anche questo è un nome di fantasia per una questione di tutela) vive in affitto assieme ad un numero imprecisato di suoi connazionali senegalesi in un piccolo appartamento nella preferita di Mestre. L’ho conosciuto in una scuola di italiano gestita dalle attiviste del cso Rivolta. Da anni attende un permesso di soggiorno che forse non agli arriverà mai. Intanto lavora in nero in una azienda edile perché in patria aveva seguito un corso di saldatura. Il suo villaggio si trova ai confini con la Mauritania. “Tutto il paese ha fatto una colletta per farmi partire. La mia famiglia ha venduto le mucche. Io adesso gli ho detto che sono arrivato, che lavoro e che sono trattato bene. Non sanno la verità. Gli spedisco quasi tutto quello che guadagno anche se non mi resta quasi nulla per vivere in Italia. Ma loro sono contenti. I miei genitori, i miei fratelli e sorelle, sono fieri di me. Non sanno come devo vivere qui e non voglio che lo sappiano mai. Se mi rimandano indietro, non potrei più tornare a casa. E’ la cosa peggiore che mi potrebbe capitare. Preferisco fargli credere che sono morto”.

Riccardo Bottazzo

Sono un giornalista professionista.
La mia formazione scientifica mi ha portato a occuparmi di ambiente e, da qui, a questioni sociali che alle devastazioni dei territori sono intrinsecamente legate. Ho pubblicato una decina di libri tra i quali “Le isole dei sogni impossibili”, edito da Il Frangente, sulle micronazioni dei mari, e “Disarmati”, edito da Altreconomia, che racconta le vice de dei Paesi che hanno rinunciato alle forze armate. Attualmente collaboro a varie testate cartacee e online come Il Manifesto, Global Project, FrontiereNews e altro.
Per Melting Pot curo la  rubrica Voci dal Sud.