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“Un viaggio fallito non è la fine della tua vita” – Contro lo stigma del ritorno

Marion Mac Gregor, InfoMigrants - 28 ottobre 2019

Photo credit: picture alliance/J. Fergo

Negli ultimi anni decine di migliaia di persone sono partite dall’Africa centrale ed occidentale con la speranza di raggiungere l’Europa. Non tutti però hanno completato questo viaggio pericoloso, decidendo invece di ripercorrere i propri passi e tornare dalle loro famiglie. Ma il ritorno a casa porta con sé nuovi rischi, incluso l’essere visti come un ‘fallimento’ dalla comunità. 

La storia di Musa Colley, storia del tentativo di migrazione dall’Africa occidentale verso l’Europa, è fin troppo comune.

Nel 2016, all’età di 24 anni, ha lasciato il piccolo paese del Gambia dirigendosi a nord, verso la Libia. Lì è stato rapito e torturato da dei banditi. I suoi sequestratori hanno chiesto un riscatto che la sua famiglia è riuscita a racimolare con l’aiuto di alcuni familiari. Alla fine Musa ha rinunciato a raggiungere l’Europa ed è tornato al suo villaggio.

Purtroppo anche la seconda parte della storia di Musa è molto comune.
Quando è tornato a casa la sua famiglia, pur essendo contenta che fosse tornato vivo, provava sentimenti contrastanti: Musa avrebbe dovuto guadagnare soldi che gli avrebbero cambiato la vita, ed invece lui era tornato a mani vuote.

Quando è tornato a casa per me è stato uno shock”, ha confessato Sainey Sanyang, la madre di Musa, qualche settimana dopo il suo ritorno. “Speravo che Musa avrebbe avuto un futuro migliore in Europa e che ci avrebbe aiutati. Quel sogno ormai è finito”. 

Se Musa avesse continuato a provare a raggiungere l’Italia avrebbe potuto perdere la vita, ma anche tornare indietro gli è costato caro. Il suo viaggio non compiuto è costato migliaia di euro, lasciando la famiglia con un debito enorme e Musa con un grande sentimento di vergogna. 

Musa si sente in colpa per aver deluso sua madre, che ha cresciuto da sola sette figli dopo la morte del loro padre. “Avrei voluto poterla aiutare” spiega lui, trattenendo le lacrime. “Dovremmo rendere fiera nostra madre”. 

Quasi tutti si vergognano

Per migliaia di migranti nell’Africa centrale ed occidentale, tornare dalla famiglia o dalla propria comunità dopo un tentativo ‘fallito’ di raggiungere l’Europa provoca quasi invariabilmente un profondo disagio. “Il senso di vergogna che provano i migranti quando tornano a casa è uno degli ostacoli principali che devono affrontare”, dice Gaia Quaranta, una psicologa dell’OIM residente nella capitale senegalese, Dakar. 

Molto spesso sono la famiglia e la comunità della persona migrante ad aver aiutato ad organizzare la partenza, ciò significa che questi sono fortemente coinvolti nella riuscita del viaggio. Papa Lamine Faye, docente di psichiatria all’ospedale Fann, ha spiegato all’OIM: “La famiglia spesso ha contribuito in qualche modo, ha venduto del bestiame, ha fatto dei sacrifici per poter rendere questo progetto possibile. Il migrante.. ha tutte queste speranze su di sé”. 

“La migrazione è una decisione collettiva, una decisione di famiglia”
• Gaia Quaranta, psicologa dell’OIM

Delle volte è una loro percezione quella di sentirsi esclusi e marginalizzati”, spiega Quaranta, “(ma) a volte la realtà è che le famiglie e le comunità stigmatizzano i migranti che ritornano, specialmente se tornano ‘a mani vuote’.”

Incapacità di capire il trauma 

Molti migranti che tornano dalla regione del Sahara non solo soffrono di sensi di colpa e di vergogna, ma sono sottoposti anche a un grave stress psicologico a causa delle esperienze vissute dalla partenza. Secondo la Quaranta, un’alta percentuale di migranti di ritorno da Libia e Niger, e anche quelli espulsi dall’Algeria, hanno sofferto livelli di violenza significativi che hanno portato ad una reazione psico-traumatica. 

Isolamento e meccanismi di difesa negativi 

Quando Musa è tornato nel suo villaggio la sua famiglia era piuttosto felice di vederlo. Molti altri, però, hanno paura di non avere la sua stessa fortuna e decidono di non tornare. In Senegal, i rimpatriati a volte rimangono nella capitale, Dakar, piuttosto che tornare nelle loro comunità a sud. Di conseguenza si isolano, dice Quaranta, perché non riallacciano i rapporti con le loro famiglie o amici. 

In alcuni casi la mancanza di supporto psicologico fa sì che i rimpatriati si rivolgano a dei “meccanismi di difesa negativi”, come l’uso di droghe. “Hanno enormi bisogni, ma a volte non hanno nessuno a cui rivolgersi. In Senegal, Gambia e Camerun i nostri team hanno osservato un numero crescente di situazioni di abuso di sostanze”, spiega Quaranta. 

Si necessita più supporto

I migranti emarginati dalle loro famiglie o dalle proprie comunità quando rientrano a casa, e coloro che non tornano per paura di essere respinti o per vergogna, hanno un bisogno urgente di assistenza psicologica e di supporto sociale. Nella regione dell’Africa Centro-Ovest non ci sono abbastanza servizi disponibili. In particolare, dice Quaranta, si necessita un maggiore intervento a livello di comunità e una sensibilizzazione sulle difficoltà psicosociali che potrebbero avere i migranti di ritorno. “Anche i rimpatriati hanno un ruolo nel far capire meglio alle loro comunità quelle sfide”.

Con il sostegno dell’OIM, gruppi come il Consiglio Nazionale dei Giovani in Gambia stanno provando ad aumentare il coinvolgimento delle comunità nell’assistere i rimpatriati con progetti quali la carovana mobile della salute, che preparai volontari locali a fornire il primo soccorso psicologico e una terapia di base. Una componente della formazione comprende l’educazione sanitaria sulla depressione, lo stress, l’uso di droghe e i disturbi della salute mentale.

Messaggi positivi

 
Nel mese di agosto 2017 un giovane gambiano, Muhammed Suso, ha deciso di tornare nella sua città natale di Soma, dove è stato coinvolto con la carovana mobile della salute. Dice che grazie alla formazione ricevuta ha imparato molto sui fattori di stress psicologico e che ha potuto condividere questo con altri rimpatriati. 

In un rapporto pubblicato questa settimana dall’ OIM Muhammed lancia un messaggio chiaro: “Perché dobbiamo essere chiamati dei fallimenti? Le persone migrano da sempre per vari motivi, ma non significa che non valiamo niente quando torniamo a casa.
Un viaggio fallito non è la fine della tua vita …. Abbi fede
”.