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Accampamento di rifugiati nel deserto del Niger per protestare contro il ritardo nelle pratiche di accoglienza in Europa

Fabiola Barranco con fotografie di Olmo Calvo, Desalambre (El Diario) - 26 dicembre 2019

Uno dei rifugiati ha un cartello che recita "Il nostro futuro è incerto" scritto in inglese e francese. Immagine gentilmente concessa dai manifestanti

Traduzione di Eleonora Sodini

Sono arrivati in questo angolo del Sahel, nel mezzo di uno dei paesi più poveri al mondo, con la promessa di essere trasferiti in territorio europeo. Ma il 16 dicembre scorso è esplosa la disperazione delle 1.600 e più persone accolte nel campo profughi della periferia di Agadez (Niger), creato nel 2017 per ospitare coloro che erano scappati dagli abusi sofferti in Libia. L’attuazione dell’accordo tarda fin troppo, a causa della lentezza che contraddistingue il procedimento dei trasferimenti.

Photo credit: Olmo Calvo (Agadez - Níger)
Photo credit: Olmo Calvo (Agadez – Níger)

Anche a causa di un deterioramento negli aiuti umanitari e nelle condizioni sanitarie, circa mille persone hanno intrapreso un cammino per percorrere i quasi 20 chilometri di distanza, passando anche per il deserto, che separano il campo dall’ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) di Agadez, spiegano le e i manifestanti.
La mobilitazione continua ancora oggi e, secondo molti dei partecipanti contattati da eldiario.es, intende continuare.

Abbiamo preso la decisione di non tornare all’accampamento fino a che non si troverà una soluzione ai nostri problemi. Nel frattempo, continueremo le proteste davanti all’ufficio dell’UNHCR”, afferma Yahya Dawood Hamid, di ventinove anni che, dopo essere fuggito dalla guerra in Darfur e dall’inferno libico, vive nel campo di Agadez da due anni e mezzo.

Mahamat Nour Abdoulaye, capo della delegazione dell’UNHCR ad Agadez, riconosce che l’organismo che rappresenta è al corrente delle richieste dei e delle manifestanti: “I motivi reali per cui i rifugiati hanno lasciato il centro umanitario riguardano la domanda di trasferimento collettivo in un paese terzo. Sui loro striscioni leggiamo: ‘non c’è vita nel deserto del Niger’. Senza dubbio, tra le cause della manifestazione vi sono anche le condizioni mediche”, spiega il delegato dell’UNHCR.

Photo credit: Aïr Info, Agadez (Protesta ad Agadez - Niger)
Photo credit: Aïr Info, Agadez (Protesta ad Agadez – Niger)

In cento, fra uomini e donne, stanno manifestando da dieci giorni. “Lo facciamo per richiedere i nostri diritti, dopo aver sopportato due anni e mezzo senza nulla. Protestiamo per le difficoltà di uscire dal campo per andare in un altro posto, ma anche contro l’ambiente che si è creato”, dice Yahya. “Molti rifugiati soffrono di problemi psicologici, altri hanno tentato la via del suicidio, alcuni si sono persi e tutt’ora non sappiamo dove siano. Oltre a ciò, si aggiunge il maltrattamento degli impiegati del campo”, continua il giovane originario del Sudan, che sollecita la comunità internazionale, affinché “intervenga il prima possibile per risolvere questa crisi umanitaria”.

Aisha Hassan la pensa allo stesso modo. Questa madre di famiglia, ventinovenne del Sudan, aggiunge il numero di donne incinte “senza un’adeguata assistenza” alle problematiche del campo, insistendo inoltre sulla “mancanza di opportunità e di impiego” nel centro umanitario.

Risalta il ruolo delle donne nelle manifestazioni, anche loro si sentono coinvolte nella rabbia collettiva che rende ancora più difficile la ripresa dai duri traumi che hanno vissuto in Sudan e in Libia. Fatima, che preferisce nascondersi dietro un falso nome, afferma che ha combattuto per anni nel tentativo di dimenticare l’odore del corpo carbonizzato del fratello dopo essere stati aggrediti nella loro abitazione dalle milizie Janjawid quando aveva solo sette anni.
Anche Ghali si è aggiunto alle proteste. Come altri compagni, si presenta con il suo cellulare per documentare con video e immagini che più tardi gira sulla rete, per spargere il suo grido.

Photo credit: Olmo Calvo (Agadez - Níger)
Photo credit: Olmo Calvo (Agadez – Níger)

Questo ragazzo ha sedici anni ed è arrivato al campo di Agadez quando ne aveva quattordici. Ha affrontato il viaggio da solo, senza la compagnia di alcun adulto. I ricordi della sua infanzia sono segnati dalla distruzione, violenze e assassinii che le milizie arabe – conosciute come Janjawid – hanno compiuto nel Darfur, la regione del Sudan dove è nato. Nonostante la giovane età, per scappare da questo calvario, ha seguito le orme di molti compatrioti che cercavano riparo e sicurezza in Europa, viaggio che si è bloccato il Libia. “Lì ho vissuto molta sofferenza. Ero con due amici, però uno dei due fu assassinato in prigione e all’altro non so cosa sia successo. Quando scappai dalla prigione, conobbi un uomo nigerino che mi aiutò ad arrivare in Niger dalla Libia. Ora sto solo cercando una vita al sicuro e la possibilità di studiare”, raccontava Ghali a eldiario.es a ottobre, prima che iniziarono le proteste. Raccontava parte della sua vita da una delle casette bianche prefabbricate con l’insegna UNHCR, schierata in file, che danno la forma a questo campo profughi in mezzo al nulla.

Photo credit: Olmo Calvo (Agadez - Níger)
Photo credit: Olmo Calvo (Agadez – Níger)

Partite a calcio, una piccola sala con computer convertita in una specie di centro ricreativo per adolescenti o attività di teatro e musica messe a disposizione da MEDU (MEdici per i Diritti Umani) si intrufolano nella quotidianità di questo campo profughi solcato da un mare di sabbia. Lì, tetto, cibo e acqua dipendono esclusivamente dall’aiuto umanitario internazionale. Ma la grande attesa per un futuro autonomo ha raggiunto il limite sopportato dalla pazienza di molti e molte.
I procedimenti per uscire dal campo dal 2017 sono molto scarsi, alcuni di noi non hanno neanche fatto un colloquio per ottenere i documenti e avviare la pratica di trasferimento”, lamenta Ghali, disposto a protestare fino a che non troveranno una soluzione.