La rotta balcanica è uno dei principali percorsi di transito per i migranti che cercano di raggiungere i Paesi più ricchi dell’UE. La Bosnia Erzegovina è tra le tappe di queste persone in movimento.
L’apparato istituzionale bosniaco è particolarmente complesso: in seguito agli accordi di Dayton (1995), che posero fine alla guerra, lo Stato federale è stato diviso in dieci cantoni soggetti a due entità principali: la Repubblica serba e la Federazione croato-musulmana, ognuna delle quali ha una propria assemblea legislativa che ha potere a livello territoriale.
A livello statale esistono due camere parlamentari, una delle quali, quella dei popoli, è composta dai membri dei tre gruppi etnici della Bosnia: bosgnacchi, serbi e croati.
Le ultime elezioni sono state a ottobre 2018 e da allora la formazione del governo è ancora incerta.
Questo frammentato apparato statale genera una serie di vuoti e complicanze istituzionali, tra i quali la mancata gestione del fenomeno migratorio. Di conseguenza i fondi europei destinati al controllo della migrazione sono in mano a organizzazioni intergovernative quali l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM) che collabora con suoi simili come l’UNHCR.
L’IOM gestisce i campi di Sedra, Usivak e Boriči in cui vivono principalmente famiglie e minori non accompagnati e quelli di Bira e Miral destinati a uomini adulti.
La gestione dell’IOM non è garanzia di rispetto dei diritti infatti sono stati riportati casi di violenza fisica, verbale e psicologica da parte della private security dell’ente presente nei campi. Allo stesso tempo nei campi in cui vivono donne e famiglie, i racconti parlano di violenze sessuali non riportate dalle autorità dei campi.
Le autorità locali gestiscono il campo di Vučjak rinominato “jungle” per le condizioni di vita in cui si trovano i migranti che vi risiedono. Il campo è stato recentemente al centro delle attenzione mediatiche a causa dello sciopero della fame intrapreso dai migranti per protestare contro le condizioni di estremo degrado del luogo.
Alla protesta, ancora in corso, è seguito l’annuncio dell’imminente chiusura del campo; nessuna notizia riguardo al futuro delle persone presenti ad oggi nel campo.
La città di Tuzla, nel nord est della Bosnia, è un altro punto nevralgico sulla rotta balcanica: è attraversata dalle persone respinte al confine croato o rimaste fuori dai campi, così come da coloro che arrivano dalla Serbia (spesso si tratta delle stesse persone). In città molti migranti pernottano principalmente nei dintorni della stazione degli autobus o in squat e una piccola parte è accolta informalmente da alcuni locali.
La realtà associativa di Merhamet, che opera sul territorio da diversi anni, riferisce che il loro sistema di distribuzione gratuita dei pasti si rivolge a circa duecento persone al giorno. Un gruppo informale di volontari (Tuzlanski volonteri), che si coordina su Facebook, si occupa della distribuzione di vestiti e coperte, così come di un servizio di primo soccorso medico all’interno del free shop situato di fronte alla stazione dei bus.
In Bosnia sembra riproporsi l’ennesimo sistema di mal gestione o di non gestione del fenomeno migratorio, funzionale all’esternalizzazione delle frontiere dell’Unione Europea, che delega a paesi terzi il compito di privare dei diritti e di reprimere le persone in movimento.