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Ma è davvero questa l’Europa?

Photo credit: MSF

Io e G. ci incontriamo per la prima volta in un giorno di inizio agosto.

Si presenta nel mio ufficio ben vestito, con una ventiquattrore nera indossata a tracolla e delle scarpe da ginnastica nuove, bianchissime. Calcati sul naso ha degli occhiali spessissimi, attraverso i quali i suoi occhi marroni appaiono come due minuscole noccioline tonde. La cosa non mi stupisce: mi avevano detto che è in lista d’attesa per un trapianto di cornea.

Lo saluto con un gran sorriso, a cui lui risponde con quello che mi sembra essere un disperato tentativo di mettere a fuoco il mio viso. Strizza gli occhi e arriccia il naso in uno sforzo estremo, cercando di dare una forma a quella che deve apparirgli come una figura parlante dai contorni confusi e i colori sfocati. Lo guido fino alla scrivania e lo faccio accomodare, abbassando un po’ la tapparella per evitare che la luce del primo pomeriggio agostano gli ferisca gli occhi già sufficientemente provati.

Mi siedo davanti a lui e comincio a parlare, cercando di dissimulare la smania che s’insinua su per le mie corde vocali. Vorrei tempestarlo di domande, sapere tutto di lui e dell’incredibile percorso che ha fatto per arrivare fino a qui, in un centro di accoglienza nel cuore della Toscana.

Di G. ho sentito raccontare tante cose singolari: è senegalese ma si esprime solo e soltanto in un perfetto inglese; ha più di quarant’anni, il che lo rende nettamente vecchio rispetto alla media di tutti i richiedenti asilo; è partito dal Senegal a piedi ed è arrivato in Italia a piedi, passando per la Turchia e i Balcani, quasi del tutto cieco e zoppicante. Nella mia testa G. è una sorta di eroe. È l’emblema sanguinolento dell’ostinazione, il pungolo storto e arrugginito che incrina il mattone nel muro e s’insinua, finalmente, in barba a tutti. Provo a fare un veloce calcolo: G. ha attraversato tre continenti e, nella migliore delle ipotesi, circa una decina di frontiere.
Ed ora è qui, davanti a me.

Un omino esile, con due fondi di bottiglia che gli nascondono gli occhi e le dita inanellate intrecciate sul legno nero della mia scrivania, in attesa. Sono commossa, entusiasta e atterrita al tempo stesso. Mi sento terribilmente inadeguata. Farfuglio frasi in inglese per spiegargli come funziona il sistema di asilo in Italia, pensando a quante altre volte e in quante altre lingue si sarà sentito dare questo tipo di informazioni. Con la voce e i muscoli tesi, gli chiedo se ha voglia di ricostruire insieme a me il suo percorso migratorio, così da poter affrontare con più sicurezza la fatidica intervista che deciderà le sue sorti qui in Italia. Acconsente, abbozzando un sorriso gentile che un po’ scioglie la mia agitazione.

Mi racconta del suo problema congenito agli occhi e di un amico in Turchia che gli aveva consigliato di raggiungerlo per curarsi, mi parla di passeur nordafricani e deserti senza fine, di soldati e frontiere, di lunghe camminate in solitaria e in gruppo, mi descrive le città turche e i kurdishmen che lo hanno accompagnato al confine con la tanto agognata Europa.
Fa una pausa.
Sospira.

Da lì sono entrato in Grecia, dove sono rimasto per due anni.”
Lo fermo. Cosa? Ho capito bene? Due anni in Grecia?
Due anni”, ripete. “Stavo ad Atene. È una bella città, mi piaceva. Avevo anche imparato il greco. Poi mi hanno picchiato qui, sulla testa, con una mazza e allora ho deciso di andarmene. È per questo che ora non ricordo bene le cose e non dormo.

Lo guardo sbigottita. Non so se essere dispiaciuta o sollevata dal fatto che probabilmente non riesca a distinguere le linee contratte del mio volto. Cerco di riprendere il filo del discorso, gli chiedo di continuare facendogli delle domande ben precise.

Finiamo il colloquio molto tardi, ben oltre l’orario in cui solitamente esco dall’ufficio. Mi alzo dalla sedia con gli arti indolenziti e la gola secca, mi sembra di aver corso per chilometri e chilometri. Sulla soglia della porta, un istante prima di salutarci, trovo il coraggio di chiedere a G. di incontrarci ancora per parlare della sua permanenza in Grecia. Gli spiego che sto pensando di trasferirmi ad Atene per un po’, quindi mi piacerebbe raccogliere la sua testimonianza per farmi un’idea di cosa troverò al mio arrivo.

Si tratterebbe di una chiacchierata informale fra me e te, specifico.
Se te la senti, continuo.
Quando vuoi tu, aggiungo.

Lui si apre in un grande sorriso. “Ma certo, ti racconterò tutto quello che vuoi sapere”, mi risponde. Mi rilasso e sorrido anch’io, percependo un piacevole moto d’orgoglio nella sua voce. Gli dico che forse sarebbe anche il caso che m’insegnasse qualcosa di quella strana lingua che è il greco, visto che la mia conoscenza si ferma a quattro parole raccattate da una conversazione notturna sui massimi sistemi della vita intrattenuta un mese prima con un bizzarro ateniese. Kaliméra, kalispéra, megáli arkoúda. G. scoppia a ridere, battendo le mani divertito.
Ci salutiamo in italiano, promettendoci di rivederci presto.

Ci incontriamo di nuovo quasi tre mesi dopo. In mezzo ci sono state le mie vacanze estive, l’intervista di G. conclusasi con il riconoscimento dell’asilo politico e la trasformazione della mia vaga intenzione di andare a vivere in Grecia per un po’ in una granitica ed irrevocabile decisione. I contatti telefonici fra di noi non sono però mancati. Quando ho saputo del suo risultato positivo l’ho immediatamente chiamato.

Con gli occhi lucidi ben nascosti al di là del telefono, ho ripetuto per un numero imprecisato di volte uno stridulo I’m very happy for you. Da lì in poi abbiamo continuato a sentirci ogni tanto, anche solo per scambiarci un brevissimo come stai.

Ci rivediamo di persona solo oggi, in una giornata di metà ottobre ancora tenacemente avvinghiata alla calura estiva.

Ci sediamo, i suoi piccoli occhi mi scrutano sorridenti al di là degli occhiali.

Allora, cosa vuoi sapere?” mi chiede. La domanda mi mette a mio agio, sento i muscoli distendersi seguendo l’accenno di sorriso che m’increspa l’angolo sinistro della bocca.

Per la prima volta da che ho iniziato a fare questo lavoro, ho la netta sensazione di trovarmi dal lato giusto della scrivania. Non faccio domande, mi limito ad ascoltare il libero fluire di un racconto che viaggia lungo i binari emotivi della memoria. Si ferma, torna indietro, prosegue, poi si arresta di nuovo. Segue traiettorie a me sconosciute, punteggiate da nodi e incontri che dipingono un sorriso talvolta amaro talvolta nostalgico sul viso di G. In alcuni punti mi perdo, ma non lo interrompo. Ci concediamo il sovversivo lusso di sottrarci, almeno per una volta, alla repressione di un sistema che violenta e svuota le parole e le emozioni, pigiandole a forza in caselle preconfezionate pensate per dividere arbitrariamente i richiedenti asilo “veri” da quelli “finti”. Mi concentro sulle espressioni di G. e sull’incessante movimento delle sue mani sulla scrivania, cercando di scavalcare il limite della comprensione verbale per cogliere il senso profondo di ciò che mi sta raccontando.
Ascolto, osservo e imparo.

Dopo essere arrivato in Turkishland ho cominciato a raccogliere contatti e informazioni per capire come attraversare il confine con l’Europa. Sono rimasto a Istanbul per qualche giorno, poi un kurdishman è venuto a prendermi in macchina. Eravamo più persone, c’erano anche delle donne e dei bambini arabi. Abbiamo viaggiato per diverse ore, poi il kurdishmen ci ha scaricati su una strada deserta ai bordi di un bosco. Ci ha detto: ecco, di là c’è la Grecia, camminate veloci. Era buio, io non vedevo niente e mi faceva male il piede per il problema che ho. Le persone che erano con me mi guidavano attraverso il bosco tenendomi così, uno per il braccio destro e uno per il braccio sinistro. Abbiamo camminato fino a che non siamo arrivati in un paesino dove la polizia ci ha presi. Non ci hanno chiesto niente, non ci hanno preso le impronte, ci hanno solo caricati su un furgoncino e ci hanno portati in un camp di cui non ricordo il nome. Ho pensato: ma è davvero questa l’Europa?

Vorrei dirgli che anche io me lo chiedo senza darmi tregua, vorrei chiedergli scusa e ricevere la sua assoluzione. Ma mi limito a serrare le mascelle e a ributtare giù il bolo di vergogna che mi ha invaso la bocca con il suo sapore acido.

Dopo un po’ di tempo sono riuscito ad arrivare ad Atene, dove avevo degli amici senegalesi. Non sono mai riuscito a chiedere asilo. La fila fuori dall’ufficio che si occupava di queste cose era lunghissima ogni giorno, e succedeva quasi sempre che qualcuno picchiasse qualcun altro nell’attesa perché erano tutti molto nervosi. Ma non serviva mai a nulla, in pochissimi riuscivano ad entrare. A volte chiedevano anche dei soldi per lasciarti passare. Un giorno, dopo ore di fila, mi sono allontanato per andare a prendere qualcosa da mangiare in un bar lì vicino. Sono entrato e ho fatto la mia ordinazione. Avevo già pagato tutto e aspettavo che mi servissero al bancone, quando due poliziotti sono entrati e mi hanno ordinato di uscire. Ero stupito, non capivo. Ho detto loro che avevo già pagato e che stavo solo aspettando il mio cibo, ma non volevano starmi a sentire. Mi hanno spinto fuori con forza, al che mi sono spaventato e ho cominciato a scappare. Mi hanno rincorso, mi hanno bloccato e mi hanno picchiato con il manganello. Mi hanno colpito qui, sulla testa, poi sono svenuto. Di quello che è successo dopo non ricordo nulla.”

Lo guardo, esterrefatta. Le uniche, stupidissime parole che riesco a mettere in fila sono ma io avevo capito che erano stati i militanti di estrema destra ad aggredirti.
No, è stata la polizia. Ma non fa tanta differenza, più o meno sono la stessa cosa.”
…perché anche loro sono fascisti, concludo la sua frase.

Esatto!” esclama lui allargando le braccia e sobbalzando sulla sedia. Ci guardiamo negli occhi per dei lunghi istanti, riconoscendoci finalmente come alleati in una strenua lotta ancora tutta da combattere.

Sai, avevo un amico in Greeceland. Un senegalese, un fratello. Vendeva braccialettini per strada perché anche lui, come quasi tutti noi, non aveva i documenti e quindi non poteva lavorare. Un giorno è arrivata la polizia per fare dei controlli, lo hanno visto e hanno cominciato ad inseguirlo. Lui non era armato, non era pericoloso, stava solo vendendo dei braccialetti per poter mangiare. Non c’era motivo di accanirsi. Ma loro hanno continuato a inseguirlo. Lui correva e correva, era così spaventato che non si è reso conto di trovarsi sui binari di una ferrovia, dove proprio in quel momento stava passando un treno. È stato travolto e in un attimo è morto.”
Silenzio.

È morto così. L’hanno ucciso.”
Silenzio.

In Greeceland la vita è molto difficile, Camilla. È impossibile avere i documenti, e se sei nero è facile che ti aggrediscano. Ma per fortuna non sono tutti così. Frequentavo i gruppi antirazzisti, che organizzavano delle feste dove ballavamo e ci divertivamo tutti insieme. Era bello. E poi ho conosciuto Yannis, il mio fratello greco. Yannis è un atleta ed è una bravissima persona, mi ha aiutato molto. Passavamo tanto tempo sulla sua terrazza a parlare e a bere vino.
Sorride.

Quando andrai in Greeceland ti darò il suo contatto. Vedrai, ti tratterà come una sorella.”
Sorrido.
E mi dico che, a furia di piccole crepe, i muri si sgretolano.