Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
//

Natale a Lesbo, tra i ventimila rifugiati del campo di Moria

Angela Ricci, il manifesto - 27 dicembre 2019

Isola di Lesbo © Massimo Sormonta - Progetto senza confini

La Turchia si vede all’orizzonte: un braccio di mare che i gommoni continuano ad attraversare quotidianamente. L’Europa resta un miraggio, perché chi fugge da guerre e fame diventa prigioniero del campo di Moria. Alla vigilia di Natale, mentre il cielo regalava sferzate di vento e la pioggia di notte, i migranti nell’isola del Mar Egeo hanno raggiunto le 20 mila unità. Intorno alla struttura originaria dell’hotspot governativo si sono moltiplicate le tendopoli fra le colline di ulivi. L’ultima zona è nata dopo l’autunno con le migliaia di nuovi sbarchi di singoli, famiglie, minori non accompagnati. E nella settimana fra il 9 e il 15 dicembre – lungo la costa di Skala Sikamineas – erano stati avvistati e poi soccorsi da LightHouse Relief e Refugee Rescue oltre mille profughi.

UNA CATASTROFE umanitaria che sfoglia il calendario, inchioda da sempre i governi di Atene o Bruxelles, scandalizza Papa Francesco. Cristos Christiou, presidente internazionale di Medici Senza Frontiere (che fuori dal campo ha la clinica), ha gridato recentemente: «Quello che ho visto sulle isole greche è comparabile a ciò che si vede in zone di guerra o colpite da catastrofi naturali. È scandaloso. Frutto della politica deliberata di punizione collettiva inflitta a persone che cercano solo la salvezza in Europa». Anche dall’Italia arriva la solidarietà attiva. Dal 3 all’8 gennaio tornano a Lesbo gli attivisti della campagna #Lesvoscalling che nel Nord Est hanno raccolto indumenti e materiale sanitario. E grazie al crowdfunding con la rete di Banca Etica potranno distribuire un kit con assorbenti igienici biodegradabili, detergenti intimi e biancheria alle donne che rappresentano più di un terzo della popolazione del campo.

Dall’alba al tramonto, la vita di questa città invisibile è scandita dalle code davanti ai bagni chimici, alla “gabbia” in cui si distribuiscono i pasti, all’ambulatorio medico o al compound della burocrazia biblica che dovrebbe garantire protezione, permessi e diritti umani. Il paese di Moria, con un migliaio di residenti, sopravvive in quest’eterno disastro. Mitilene, la capitale di Lesbo, dista una decina di chilometri: il bus stracolmo di migranti fa la spola come può; gli altri vanno a piedi. L’intera isola (90 mila abitanti) non può prescindere, nel bene e nel male, dagli “invisibili”, compresi i circa 1.500 all’interno della struttura di Kara Tepe, creata dalla municipalità che ne controlla la gestione.

PER I 20 MILA “ospiti” di Moria l’immediato futuro si profila ancora più catastrofico. È di pochi giorni fa la rivolta scoppiata all’interno del campo nell’isola di Samos: 8 mila persone, per lo più africane, a fronte di una capienza di 650. Decongestionare le presenze si traduce in trasferimenti (magari proprio a Lesbo), deportazioni nelle caserme di detenzione o addirittura nel rimpatrio dei profughi, anche se “restituirli” a Erdogan rappresenta già una soluzione prevista dall’Unione europea con l’ignobile accordo firmato nel 2016.

Ma da gennaio sarà operativa anche la nuova legge greca. Nell’ufficio del Lesvos Legal Center sono più che preoccupati dalla scure che si abbatterà sui diritti di profughi, volontari e ong. A Moria, segnali inequivocabili: la polizia pretende il pass anche da giornalisti e fotografi; le pettorine bianche di alcune ong diventano la security dell’area che si affaccia sulla strada principale; i militari greci rafforzano la loro presenza; i “turisti turchi” stilano rapporti sempre più dettagliati per Ankara.

DAL 10 DICEMBRE è detenuto Salam Kamal Aldeen, con passaporto della Danimarca e fondatore di Team Humanity, una ong che fino dal 2015 si preoccupa di salvare chi sbarca e offrire spazi sicuri a donne e bambini. Aldeen era già stato condannato a 10 anni (insieme a tre vigili del fuoco spagnoli) per aver soccorso i profughi; e poi assolto nel 2018. Ora è accusato di rappresentare «un pericolo per la pubblica sicurezza» con l’obiettivo di far scattare l’espulsione dalla Grecia. «Finire in prigione perché soccorritore in un Paese europeo è una delle situazioni più folli che si possa immaginare», dichiara Helle Blak, presidente di Team Humanity.

INTANTO NEL CAMPO di Moria l’ingiustizia regna sovrana. Un curdo fuma davanti al container dove “abita” da due anni, mentre moglie e figlia sono in un’altra isola. L’anziana palestinese di Gaza è rassegnata a una condizione europea identica all’occupazione della sua terra natale. Il ragazzino siriano maledice la paura del buio, quanto le donne che nel campo non girano quasi mai da sole. Il somalo indica sconsolato a tutti le discariche a cielo aperto, mentre chi attraversa – con o senza scarpe – il rigagnolo tiene in mano una confezione di sei bottiglie d’acqua. Gli afgani si riconoscono grazie al dari o al farsi, dimostrano a volte un inglese più che scolastico, sanno imparare in fretta la lingua della sopravvivenza.

Nonostante tutto, non mancano le occasioni di “riconoscimento”. Mosaik Center, aperto dagli attivisti di Lesvos Solidarity, sforna borse, oggetti e creazioni in un laboratorio che trasforma i salvagente della traversata. E gestisce il Pikpa Camp, centro di accoglienza occupato e auto-organizzato da volontari e rifugiati.

IL RISTORANTE NAN ha uno staff di volontari locali e migranti. The Hope Project, associazione inglese, offre la sede come «warehouse» in cui centinaia di persone ogni giorno possono trovare indumenti e beni di prima necessità. E si trasforma in atelier in cui i rifugiati mettono su tela il racconto della loro esperienza. Altre ong – grandi e piccole – garantiscono almeno in parte ciò che la gestione istituzionale del campo non sa assicurare: assistenza medica, psicologica, legale, scolarizzazione per i minori.

Ma a Lesbo anche il clima natalizio (in versione greco-ortodossa) non può rimuovere l’ombra inquietante di un lager del Duemila, dove il «popolo dei migranti» che non ha proprio niente da festeggiare.

#Lesvoscalling

Una campagna solidale per la libertà di movimento
Dopo il viaggio conoscitivo a ottobre 2019 a Lesvos e sulla Balkan route, per documentare e raccontare la drammatica situazione sull'isola hotspot greca e conoscere attivisti/e e volontari/e che si adoperano a sostegno delle persone migranti, è iniziata una campagna solidale lungo la rotta balcanica e le "isole confino" del mar Egeo.
Questa pagina raccoglie tutti gli articoli e il testo di promozione della campagna.
Contatti: [email protected]