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Rilasciate dal CIE di Aluche (quartiere di Madrid n.d.t) le prime persone detenute che non possono essere espulse

di Pablo 'Pampa' Sainz, El Salto - 19 marzo 2020

Photo credit: CIE di Aluche, Madrid

Le persone detenute nei centri di internamento per stranieri (CIE) che, a causa della chiusura delle frontiere, non possono essere espulse prima del 29 marzo, vengono gradualmente rilasciate. La misura si applica in primo luogo a coloro che hanno un indirizzo fisso in cui andare in quarantena, per gli altri il governo sarebbe alla ricerca di un’alternativa abitativa.

Il Ministero degli Interni ha iniziato a rilasciare mercoledì le persone detenute nei Centri per l’Internamento degli Stranieri (CIE) che non possono essere espulse a causa della situazione di emergenza sanitaria e delle chiusure delle frontiere ordinate da parte dei paesi coinvolti nelle deportazioni. Secondo quanto è emerso, le istruzioni ricevute dall’unità centrale di rimpatrio prevedono che tutti coloro che sono internati e non possono essere espulsi prima del 29 marzo devono essere rilasciati.

La misura straordinaria è dovuta all’eccezionale situazione che lo Stato spagnolo sta vivendo a causa della pandemia di Coronavirus e obbedisce al quanto riportato nel regio decreto 463/2020 della Dichiarazione dello stato di allarme.

Mercoledì scorso, una dozzina di persone, il cui profilo si adatterebbe a quello di coloro che hanno un indirizzo fisso in cui essere confinati, sono state rilasciate dal CIE di Aluche a Madrid. Per gli altri il governo starebbe cercando un’alternativa abitativa che si conformi alla quarantena, possibilmente nelle cosiddette “piazze di aiuto umanitario”, assegnate dal Ministero del Lavoro.

L’ordine, seppure in ritardo, arriva dopo le segnalazioni di diverse organizzazioni per i diritti umani ed esposti giudiziari da parte di rappresentanti legali delle persone detenute. Secondo loro, la misura precauzionale dell’internamento non ha senso quando non è possibile espellere i migranti detenuti nei rispettivi paesi.

L’accaduto conferma un’altra volta il disinteresse delle autorità nei confronti di una popolazione privata della libertà e costretta a vivere senza le minime garanzie di isolamento e cure protettive preventive, come quelle di cui stanno godendo gli altri cittadini. Questa situazione ha generato la rivolta dei detenuti a Madrid.

In questo momento ci sarebbero poco più di 450 persone trattenute in questi spazi distribuite tra le varie comunità: a Valencia circa 60, Murcia 90, Barcellona 45, Barranco Seco 69 e Hoya Fría 26 (entrambe nelle Isole Canarie).
A Madrid sono detenute più di 150 persone e a Algeciras 25 (questo lunedì un piccolo numero di detenuti è stato trasferito dal centro di Tarifa (che è già non operativo).

Il Marocco, il Senegal, l’Algeria e la maggior parte dei paesi dell’America Latina hanno chiuso o stanno chiudendo il loro spazio aereo come misura preventiva contro la pandemia, il che rende impossibile l’esecuzione di queste espulsioni e, quindi, l’immediato rilascio di persone che sono ancora private della libertà per il semplice motivo che la loro situazione amministrativa non è regolarizzata.

Nonostante questa misura, il Ministro degli Interni Fernando Grande Marlaska continua a premere per organizzare voli di rimpatrio senza considerare la gravità della situazione sanitaria, disposizione che sembra contravvenire a tutte le opinioni mediche responsabili, volte ad evitare qualsiasi possibilità di diffusione del virus oltre i confini.

Che una persona asintomatica venga espulsa non significa che non sia infetta, ci sono innumerevoli casi di persone che un giorno sono risultate negative al test e, in 24 o 48 ore dopo essere state esaminate in altri studi, sono risultate positive. I collettivi sono particolarmente preoccupati per il proseguimento dei voli di espulsione verso la Mauritania.

Negli ultimi mesi, con l’aumento degli sbarchi nelle Isole Canarie, il ministro aveva aumentato il numero di voli di espulsione verso quel paese, deportando principalmente i cittadini del Mali.

Questo artificio legale trova la sua giustificazione in un accordo risalente al 2003 in base al quale il paese ricevente accetta non solo le persone di quella nazionalità, ma anche i cittadini di paesi terzi che hanno attraversato la Mauritania nel transito della loro rotta migratoria.

La rivolta delle persone detenute nel CIE di Aluche di martedì pomeriggio ha focalizzato l’attenzione dei media sulla situazione di abbandono e di mancanza di protezione nella quale versano le persone detenute.

Dopo 18 ore, i detenuti hanno comunicato agli attivisti della piattaforma CIEs No Madrid la decisione di “fare qualcosa” per salvaguardare la loro salute. Il possibile isolamento di un detenuto potenzialmente affetto da Coronavirus e i sintomi influenzali manifestati da alcuni di loro sono stati la miccia che ha fatto esplodere la protesta.

Le opinioni erano divise tra coloro che volevano iniziare uno sciopero della fame e quelli che pensavano che il modo migliore fosse quello di cercare supporto fuori dal CIE. L’ultima proposta ha avuto la meglio e quindi un gruppo di uomini è salito sul tetto del patio, una struttura creata recentemente nel cortile, e da lì ha cercato di attirare l’attenzione all’esterno al grido di “libertà”.

L’informazione è arrivata all’ufficio di Defensoría del Pueblo dove un’avvocata specializzata nella migrazione ha contattato la Piattaforma e attraverso essa è stata in grado di avviare un ampio negoziato telefonico con due detenuti sui tetti. Anche il capo dell’unità centrale di rimpatrio (UCER) e un deputato di Unidas Podemos si sono avvicinati al posto.

Il negoziato a tre, con rappresentante politico, rappresentante delle forze dell’ordine e mediatore, ha cercato di calmare gli spiriti, ascoltare, rispondere alle richieste e garantire alle persone che stavano conducendo la protesta che non sarebbe stato preso nessun provvedimento sanzionatorio in merito alla protesta. Anche i vigili del fuoco erano presenti sul posto.

La mediazione non è stata facile. Negli oltre quindici anni di esistenza del CIE, sono note le misure coercitive denunciate dalle persone che vi sono passate, nonché il numero innumerevole di denunce per possibili violazioni dei diritti umani. A maggio e giugno 2019, il capo della Corte investigativa n. 19, nelle funzioni di controllo del CIE, Inmaculada Iglesias, ha avviato delle indagini sul comportamento della polizia nel CIE “per possibile crimine di tortura“.

Secondo differenti fonti è stato decisivo il discorso che il mediatore ha avuto con uno dei detenuti sui tetti, che ha accettato di scendere per parlare con la polizia e il rappresentante del governo. La garanzia che non ci sarebbero state ritorsioni, e l’impegno ad analizzare caso per caso nei giorni seguenti, ha finito per persuadere coloro che stavano protestando. Dopo 22 ore, il gruppo che occupava il tetto è sceso dalla scala fornita dai vigili del fuoco, mettendo fine alle quattro ore di protesta.

Mercoledì a mezzogiorno, il commissario e il direttore operativo della polizia nazionale, José Ángel González, hanno confermato alla conferenza stampa che il comitato di gestione tecnica “ha valutato caso per caso e chiunque abbia diritto alla libertà, gli sarà garantita“. Allo stesso tempo, hanno negato che nel CIE si fossero verificati casi di Coronavirus.