Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

XIII Rapporto sul viaggio in Bosnia del 19-23 febbraio 2020

Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi, Associazione Linea d’Ombra

Uno squat a Bihać. Photo credit: Linea d’Ombra
Bihać. Photo credit: Andrea Sabbadini
Bihać. Photo credit: Andrea Sabbadini

I

Partiamo, ancora, con Andrea Sabbadini, l’amico fotografo romano, che ci aveva accompagnato anche la volta scorsa e con Anna Spena di Vita.it.

Questa volta l’ennesimo viaggio in Bosnia – non ricordiamo bene se diciottesimo o ventesimo (all’inizio abbiamo saltato alcuni rapporti) – ha avuto una bella premessa in Croazia, nella Home (Centro d’accoglienza per volontari) costruita dall’associazione di volontariato “Per un mondo migliore”, fondata e gestita da Anna Perlini, Paolo Alleluia, Michael Brown, Irena Zabickova, a Veprinac, sul colle sovrastante Opatija, in piena vista del golfo.

Ci siamo incontrati, in un contesto conviviale, per scambiare le nostre esperienze nei Balcani, lì dove Anna e i suoi compagni hanno scelto di vivere, in quella terra di Croazia che, nell’immaginario di Lorena e mio, ha una valenza cupa, nel ricordo ancora così attivo degli anni non troppo lontani della feroce dissoluzione della Jugoslavia.

La filosofia esistenziale e politica dell’associazione può essere sintetizzata nel motto: “operiamo per la pace, ma non esiste pace senza giustizia”.
Noi siamo particolarmente sensibili alla questione centrale della giustizia, che, insieme alla libertà, mai soltanto individuale, è ciò che distingue l’azione politica dall’azione puramente umanitaria, la quale finisce soltanto per attenuare lievemente la sofferenza di chi subisce l’ingiustizia e quindi con il confermarla. Importante è questa concezione della vita come forma di resistenza costruttiva alla violenza e all’odio che sgorgano dalle dinamiche delle nostre società europee: la casa aperta, il rifiuto di una vita individualistica e ‘privata’ (cioè deprivata), la rottura della normalità (cioè dell’adeguamento alla norma).

L’associazione punta molto sul produrre esperienze che mettano in moto, in maniera mirata, e portino alla parola e all’azione le emozioni profonde e quindi l’esigenza di elaborazione collettiva nei confronti di situazioni come i campi profughi di Bosnia o anche più situazioni individuali, in nome di una visione solidaristica della vita. In Bosnia, ad esempio, nel campo Bira di Bihac e anche nella città, l’associazione produce incontri che si manifestano in opere come i murales, con lo scopo di produrre socializzazione in un contesto estremamente difficile, che favorisce invece la contrapposizione, la paura, l’odio. I corsi promossi dall’Associazione durano in media una settimana.

Voglio aggiungere che Anna è in contatto anche con il Team Walk of shame: un gruppo internazionale, che sta preparando iniziative di trekking nei Balcani, sulle tracce dei migranti, con lo scopo di attirare, in vari modi opportuni, l’attenzione sul game – questo viaggio drammatico, di cui recentemente abbiamo avuto una narrazione terribile dal nostro amico pakistano approdato infine a Trieste.

Factory squat a Bihać. Photo credit: Linea d’Ombra
Factory squat a Bihać. Photo credit: Linea d’Ombra

II

Lasciato Veprinac e gli amici di ‘Per un mondo migliore’, riprendiamo per l’ennesima volta l’autostrada per Karlovac e poi la strada verso la Bosnia – particolarissima questa consuetudine del viaggio in Bosnia: ormai una routine e insieme il suo contrario!

Il viaggio in Bosnia ci porta, infatti, in un luogo fisicamente vicino ma psicologicamente lontano, lontanissimo per la maggior parte della gente tra cui viviamo. Questa lontananza invalicabile, anche per chi come noi si forza continuamente di valicarla, è frutto di una rimozione storico-psicologica implicita nella vita dei paesi – diciamo così – agiati: implicita perché riguarda i fondamenti culturali del cosiddetto Occidente, del suo potere, del benessere dei suoi abitanti, tanto più rivendicato quanto più sfuggente e difeso. Per questo, come non ci stanchiamo di sottolineare, per chi va nei Balcani, in Bosnia, spinto da un impegno umano e politico nei confronti di quello che accade là, il viaggio è anche un viaggio in se stessi come soggetti singolari e storici.

Andare in Bosnia con passaporto dell’Unione Europea, spinge a un’altra riflessione, perché mostra uno dei molti aspetti del dispositivo confinario, anzi il più importante: lo chiamerei un dispositivo di filosofia politica, perché in esso si coglie la funzione profonda dello Stato che è quella di dare o togliere identità.

Il dispositivo confinario ti chiede: chi sei? Che cosa fai? Perché vai e dove vai? E anche, implicitamente, quale è la tua religione; di più, quale è il senso della tua vita, ovvero se esso è conforme all’ordine statale. Il passaporto o la carta d’identità non sono dei semplici documenti burocratici ma toccano il cuore dell’essere sociale: senza un documento identitario un essere umano è esposto a qualunque arbitrio; la sua condizione umana è in discussione.

Tutto questo si coglie benissimo con i migranti. Nel game, come abbiamo detto in ogni rapporto, è in gioco la vita, non solo la vita biologica, ma anche il senso della vita, il suo valore e il valore che ha nella civiltà delle merci e del denaro. Per i confini le merci passano. Passano i turisti, che sono loro stessi merci. Sui confini balcanici tutto questo si vede, si sente e si può pensare.

Il nostro passaggio di confine implica sempre la ripresa di una contraddizione vissuta. Noi superiamo tranquillamente con carta d’identità europea, passando attraverso villaggi che mostrano ancora i segni della distruzione, questo confine orientale, con la sua storia drammaticissima – ma lo superiamo per incontrare i migranti: color che rischiano tutto per passare questo stesso confine.

I migranti della rotta balcanica sono un potente rivelatore storico. Fra molto altro, mettono in rilievo il carattere meramente distruttivo della dissoluzione dello Stato jugoslavo: gli staterelli nati nelle sue rovine non hanno una valenza storica autonoma, ma sono appendici di interessi estranei, che li usano per vacanze dell’Europa agiata e come polizie di frontiera dell’UE (Croazia) e manodopera anche di media qualificazione a basso costo (questo si vede bene la domenica pomeriggio, facendo ore di fila in auto per passare il confine di Kladuša- Maljevac, tra Bosnia e Croazia). La Bosnia Erzegovina, poi, nella sua paralisi politica, sociale, economica e anche umana, nella sua divisione fra Bosgnacchi e Serbi (e Croati), appare, nei tormenti del flusso migrante in tutta la sua insensatezza di pseudostato tenuto in piedi da una volontà politica estranea.

Potremmo dire, con ironia non cinica ma tragica, tanti massacri per niente!
In tale contesto, paradossalmente, il flusso migrante appare a noi con un vento vitale. Ma chi non vive paradossi, vive la normalità, cioè l’adeguamento ad una norma.

Bihać. Photo credit: Andrea Sabbadini
Bihać. Photo credit: Andrea Sabbadini

III

E rieccoci a Bihac: nella notte spicca, oltre il lucore del fiume, vero protagonista di questo territorio, il campanile dell’antica chiesa, che nel fiume si riflette, dominante sul minareto cinquecentesco della moschea Fethija.

Prima del ponte sull’Una, un’auto della polizia controlla l’arrivo dei migranti che per impedire che si facciano vedere in centro, anche se la regola varia secondo le circostanze.

Giovedì 20 incontriamo Nuna, una delle due tenaci, efficienti volontarie di Bihac, che operano in un contesto ostile, cui dedichiamo una parte delle donazioni della nostra associazione Linea d’ombra.

Nuna ci dice che la gente chiama la polizia quando la vede distribuire cibo o indumenti. La gente dice: “Perché fai questo?” e il tono fa sottintendere la supposizione di un interesse privato.

Nuna è efficace, organizzata e coraggiosa. Con lei acquistiamo quel che ci indica di alimenti e vestiario nei magazzini alla periferia di Bihac. In qualche modo, magari sollecitato dall’esborso di una non insignificante quantità di denaro, il personale dei magazzini sembra partecipe.

Nel pomeriggio andiamo al Bira: il solito desolato paesaggio di asfalto e tristi prati, dominato dal grande capannone di fronte a cui sostano, passeggiano, giacciono, ma anche giocano a cricket e più lontano accendono qualche fuoco, decine e decine di migranti. Sostiamo un po’ lontano dall’ingresso per non aver fastidi dalla Security, come altre volte.

Intorno a noi si affolla un piccolo gruppo. Lorena comincia a curare piedi, come nel piazzale della stazione di Trieste. Fra sguardi intensi e sorrisi, rimbalzano frammenti di storie di vita, simili e diverse, che non riusciamo a fissare. Pakistani e afgani, soprattutto.

A sera andiamo alla fabbrica semidistrutta poco lontano che ospita parecchie decine di migranti. Di fronte alla casupola che ne era l’ingresso, ingresso brilla un fuoco intorno a cui si accalca un gruppo di ragazzi. Giriamo un poco fra le rovine, salutando i ragazzi che passano come fantasmi nell’immenso complesso di edifici.

Torniamo il giorno dopo, per capire meglio e incontrare qualcuno. Sul frontone della fabbrica c’è il nome Kara Inamet. Non sappiamo che cosa producesse. Fa parte di un immenso complesso di capannoni alcuni dei quali completamente abbattuti, dalla guerra civile jugoslava che intorno a Bihac ha infuriato e rimasti lì a testimoniare una situazione umana e politica irrisolta.

E’ desolante vedere gruppi di migranti, di profughi dalla distruzione del Medioriente accampati fra queste vaste rovine, traccia di una guerra civile feroce e recente: come se la storia non fosse altre che un inseguirsi di odio, violenza, morte… E ricordiamo come l’atteggiamento della popolazione bosniaca fosse all’inizio nel 2018 favorevole o non ostile ai migranti, cambiando poi in una situazione lasciata marcire dalle istituzioni preposte ad affrontarla. Ovviamente questa è una precisa scelta politica europea e un uso dello pseudostaterello bosniaco.

Ci fermiamo con un gruppo di ragazzi affaccendati intorno a una pentola: sono afgani. In alcuni stanzoni devastati dell’edificio ci sono delle tende. A un piano superiore si vedono diversi ragazzi che cucinano.

Venerdì mattina andiamo nella sede dell’IPSIA, a incontrare Marine e le sue collaboratrici. L’IPSIA, che sta a Bihac fin da diverso tempo, ha una visione complessiva della situazione.

Nel Cantone Una Sana, il flusso dei migranti si mantiene più o meno intorno alle 6.000 persone. Al campo Bira si era raggiunto il tetto di 2.200 persone, poi circa 250 erano partiti in game, ma la maggioranza era stata respinta. La sanità è gestita ancora da Danish Refugee Council che ha il suo field office in Bihac. Un servizio psicologico è gestito da Médicins du monde.

L’IPSIA continua il suo impegno con il social cafè mattutino al Bira e con il laboratorio artistico pomeridiano e lezioni di italiano e inglese.
Fin qui niente di nuovo.

Nuovo è invece l’accordo fra polizia bosniaca e polizia croata per impedire ai migranti di passare la frontiera. Ciò nonostante i passaggi continuano, come del resto si vede intorno a Bihac dai gruppetti di migranti con zaini e viveri che ritornano momentaneamente sconfitti; e come vediamo ogni giorno anche a Trieste, nel luogo terminale del game, dove agiamo con il Gruppo Cura.

Imperversa l’industria dei passeur: come mettere a profitto la disperata speranza. C’è tutta una gerarchia di prezzi e di mezzi. Per la guida a piedi si chiede intorno ai 1.500 euro e via via a salire a seconda del servizio. I prezzi massimi per tutto il viaggio in auto dovrebbero aggirarsi sui 6.000 euro. Un numero elevato di minori egiziani vengono mandati dalla famiglie in Europa, pagando cifre alte, probabilmente per sfuggire al grave peggioramento delle condizioni di vita nel paese le cui istituzioni hanno massacrato, con Giulio Regeni, migliaia di giovani. Questo fa alzare, in generale, i prezzi.

Qui si nota un’”intersezione”, per usare una parola che si sta un poco diffondendo, fra razza e classe, dove la seconda fa premio sulla prima: chi ha soldi attenua la propria condizione e, al limite, la cancella; chi non li ha l’aggrava.

Velika Kladuša. Photo credit: Andrea Sabbadini
Velika Kladuša. Photo credit: Andrea Sabbadini

IV

Nel pomeriggio con Anna e Andrea Sabbadini partiamo per Kljuc. Lungo la strada, subito fuori Bihac incontriamo, come sempre, alcuni gruppi di respinti.

Ci incontriamo, come d’accordo, con Sanella, sorridente e vitale, davanti a un magazzino che sembra uscito pari pari dagli anni ’50, dove spendiamo i soldi a lei destinati, comprando soprattutto scarpe e zaini. Poi andiamo a Velečevo, a una decina di chilometri, nello spiazzo lungo la strada dopo il paese, sorvegliato ventiquattrore al giorno dalla polizia, a due passi dal confine con la Srpska, che è il luogo in cui si fermano le corriere da Tuzla e Sarajevo.

Sanella, con suo padre e altri membri della Croce Rossa locale, ci mostra le due piccole costruzioni sorte nello spiazzo, grazie agli aiuti internazionali. Oltre al container, sorge una piccola costruzione a mo’ di capanna, con luce, stufa, un mobiletto che contiene il necessario per il the, ricarica telefonica e presto internet. Si fronteggiano due bassi dormitori di legno con coperte, cuscini, sacchi a pelo. L’ambiente, pur nella sua modestia, rivela un’intenzione di accoglienza e di cura.

Questo è importante. Nella sua povertà non è un luogo squallido.

Sediamo lì in attesa delle due corriere, quella da Tuzla alle sette, da Sarajevo alle otto. Quando arrivano, la polizia sale e fa scendere chi è senza documenti, ma anche uomini soli con documenti. Lascia proseguire le famiglie con minori o chi può dimostrare che va dalla famiglia a Bihac o al Sedra.

Alle sette arriva la corriera di Tuzla, tutta illuminata nell’oscurità. La polizia sale. Un momento di sospensione. Dopo un po’ scende con un ragazzo. Lo accompagnano nella capanna. E’ un giovane marocchino. Col volto cupo siede, senza guardarci. Gli si offre del te, gli si parla in inglese e in francese. Un po’ alla volta si rianima, risponde, chiede, si riprende. Sorride.

Sanella gli spiega la via tortuosa che dovrà fare per raggiungere Bihac, che dista solo 100 chilometri per la strada principale, molti di più per l’itinerario alternativo: Kljuc- Jaice-Banja-Luka-Bosanska Otoka, da cui si può raggiungere Bihac. A differenza di qualche mese fa, ora si possono prendere i mezzi (ovviamente, pagando il biglietto). Il ragazzo manifesta subito l’intenzione di partire il mattino seguente.

Sapremo il seguito. Catturato dalla polizia croata, è ferito seriamente alla testa e alle mani. Respinto in Croazia, la polizia bosniaca lo spedisce, a sua volta, a Sarajevo. Il 27 febbraio è di nuovo a Tuzla, donde era partito: ritorno alla casella di partenza. E’ una specie di crudele gioco dell’oca il cui scopo è annientare la volontà di un essere umano.
La Croazia è presidente di turno dell’Unione Europea: questo dato dice molto sull’Europa.
Dalla seconda corriera, quella delle otto da Sarajevo, la polizia non fa scendere nessuno.

Tende in una fabbrica abbandonata a Bihać. Photo credit: Linea d'Ombra
Tende in una fabbrica abbandonata a Bihać. Photo credit: Linea d’Ombra

V

Il 22 mattina andiamo tutti e quattro nella pulitissima, semplice, elegante casa di Zemira. Vi si respira l’atmosfera di un ordine aperto sul mondo. Questo salotto è in effetti il centro di coordinamento di Solidarnost Bosnia. Il piano superiore della casa, non finito, è un unico grande magazzino. Alcuni migranti portano le loro cose nel garage di Zemira per tenerle in sicurezza. Altri diventano suoi collaboratori, ad esempio vengono a casa per aiutarla a preparare il cibo e, quando vanno in game, le indicano altri ragazzi affidabili.

L’impegno di Zemira deve fare quotidianamente i conti l’ostilità della gran parte dei cittadini di Bihac: ha dovuto togliere 70 persone dal suo profilo Fb perché l’insultavano.

Nel suo gruppo agiscono attualmente sei volontari bosniaci. All’inizio erano quaranta, soprattutto studenti.

Zemira, sulla base delle informazioni che raccoglie dai migranti respinti, ci parla dei comportamenti della polizia croata. Dice che uomini mascherati e vestiti di nero fanno mettere i migranti in ginocchio con le mani legate dietro la schiena per picchiarli con lunghi bastoni. Alcuni si fingono svenuti come unica forma di autodifesa, allora buttano loro addosso acqua. Se un migrante viene avvistato dalla polizia, deve fermarsi e non fuggire per non essere massacrato. Non tutti i poliziotti sono così feroci, ma costoro non possono fare niente.

Si addestrano i poliziotti con corsi specifici antimigranti, in cui viene detto che i migranti sono portatori di associazioni mafiose. Circola la voce, non dimostrabile, della morte di due migranti, un pakistano e un bangla, che si sarebbero trascinati fino nei dintorni di Kladuša per morire lì, però nel cantone non v’è traccia di corpi, che avrebbero dovuto esser portati nell’unico obitorio, quello di Bihac.
Di recente ci sono state esercitazioni militari croate sul confine bosniaco.

Anche il comportamento della polizia croata è diventato peggiore.
Zemira osserva che il denaro europeo, affluente nelle casse delle organizzazioni che si occupano dei migranti e anche del governo locale, non produce buoni frutti, non impedisce il costante peggioramento della situazione in Una Sana. Solo l’affitto dell’hotel Sedra, dove sono ‘ospitate’ in mezzo al nulla famiglie migranti, costa 15.000 euro al mese…

Lasciamo a Zemira il frutto delle donazioni che abbiamo preparato per lei e, dopo essere stati per la seconda volta nella fabbrica abbandonata, partiamo per Velika Kladuša.

Bihać. Photo credit: Andrea Sabbadini
Bihać. Photo credit: Andrea Sabbadini

VI

Prima di entrare in città, facciamo un rapido passaggio al Miral, che dista circa sei chilometri. Veniamo fermati dalla Security e dobbiamo allontanarci. Ci fermiamo poco lontano e siamo subito avvicinati e circondati da un gruppetto di uomini di varia età. Ci sono diversi nordafricani, come notiamo anche a Trieste da diversi mesi. Fra questi, ricordiamo un tunisino di una certa età, che parla bene l’italiano per aver vissuto 14 anni in Italia, lavorando a Bergamo per il Comune, nel settore rifiuti; poi, una malattia gli fa perdere il lavoro, perdere il permesso di soggiorno il solito problema con i documenti, il ritorno in patria e la grande difficoltà di poter ottenere un visto per l’espatrio: quindi, rotta balcanica (più sicura del mare). Lo ritroveremo, rapidamente, nel piazzale della stazione a Trieste: evidentemente con un bravo passeur.

A Kladuša, come sempre, incontriamo Zehida, con cui andiamo a far compere nel supermercato con cui lei ha un rapporto fisso. Zehida è stata lei stessa profuga, in Germania, durante la guerra.

Parliamo della situazione dei migranti nel territorio di Kladuša, dove al Miral sono un migliaio e circa 300 in giro, negli squat. Ci dice che l’atteggiamento della popolazione è ancora peggiorato.
Le chiediamo anche delle difficoltà di No Name Kitchen, che lei conferma.

L’esperienza più forte è l’incontro con due gruppi di migranti.
Una famiglia irachena, composta da sette membri, ospitata in un appartamento, messo gratuitamente a disposizione da un bosniaco che lavora in Germania. Un padre trentottenne, una madre di 31 e cinque figli dai 14 ai 6 anni. Accolgono Zemira come una grande madre e noi con un calore e una gratitudine che ci imbarazza, rievocando il confine invisibile fra noi e loro. Ci offrono il te, raccontandoci spezzoni della loro storia, di un viaggio iniziato in Turchia nell’estate del 2018. Sono in Bosnia da un anno.

La figlioletta di 13 anni che parla l’inglese fa con disinvoltura la mediatrice culturale. Hanno perso due volte tutto quello che avevano: la prima volta per opera della polizia turca, la seconda per mano di quella croata. Hanno fatto il game 19 volte.
Hanno perduto anche una figlia piccola in Iraq, nel bombardamento di un ospedale. Quando ne parlano, la madre cede a un pianto silenzioso irrefrenabile.

L’altro gruppo è formato da tre siriani, due donne e un uomo, di età fra i 32 e i 36 anni. Vivono un una specie di container di legno, sul pendìo di fronte al Biral, poco sopra un piccolo, vecchio cimitero islamico che affianca un abbandonato monumento alla Resistenza jugoslava. Non possiamo fare a meno di sentire il peso simbolico di queste tre costruzioni, che formano una sorta di cerchio tragico fra passato e presente.

Una delle due donne è una medica, ha perduto la sorella e il fratello a opera della polizia di Assad. Ci accolgono nel loro angusto spazio, a fianco di una vecchia casetta bosniaca abbandonata, piena di immondizie. Sono gentili, affettuosi, riconoscenti per averli voluti incontrare.

Con Zehida, andiamo anche in un grande edificio industriale abbandonato e fatiscente, vicino al Miral simile a quello di Bihac – di questi edifici, anche enormi, sono piene le periferie delle cittadine bosniache -, dove si aggirano tra fuochi puzzolenti diverse decine di migranti – un flusso fra i sessanta e gli ottanta, mediamente, mi dice un uomo.

A loro Zehida distribuisce vestiario. Una fila tortuosa e difficile con qualche tensione, che lei fermamente controlla. Ancora una volta non possiamo non ammirare l’impegno fermo e autorevole con cui una donna sola si presenta tutte le sere in questa anticamera dell’inferno, nel bagliore dei fuochi, sparsi qua e là sotto l’immenso capannone pieno di detriti.

Domenica sera al ritorno, la solita lunghissima fila di bosniaci rientranti in UE con macchine dalle targhe europee. Alcuni migranti chiedono qualcosa. Alla vista della polizia scappano.

Questa fila ci dice anche qualcosa sull’economia di questa cittadina, in cui sono molte le auto con targa europea, anche di grossa cilindrata.

Ritorniamo in tempo per evitare le conseguenze dell’epidemia del coronavirus. Due nostri amici, tornati uno o due giorni dopo di noi, sono rimasti fermi per cinque ore al confine croato, fino a che non hanno potuto dimostrare che erano partiti dall’Italia prima dello scoppio dell’epidemia.

Poco dopo il nostro ritorno nei territori di partenza della rotta scoppia una crisi gravissima. Avanza a vele spiegate una nuova epoca i lager.

Linea d'Ombra ODV

Organizzazione di volontariato nata a Trieste nel 2019 per sostenere le popolazioni migranti lungo la rotta balcanica. Rivendica la dimensione politica del proprio agire, portando prima accoglienza, cure mediche, alimenti e indumenti a chi transita per Trieste e a chi è bloccato in Bosnia, denunciando le nefandezze delle politiche migratorie europee. "Vogliamo creare reti di relazioni concrete, un flusso di relazioni e corpi che attraversino i confini, secondo criteri politici di solidarietà concreta".