Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Padova: una storia normale

Intervista ad H., "irregolare" fermato in stazione dalla polizia mentre si recava a prestare il servizio di volontario, a cui è stato dato un decreto di espulsione e sequestrata la bicicletta

Benvenuti nella fase 2: la normalità colpisce ancora.

Questo articolo nasce da un bisogno. Il bisogno di raccontare un qualcosa che avviene nelle nostre città. Un qualcosa a cui ci si è in parte assuefatti, nel bene o nel male. È qualcosa che accade. Tuttavia, la storia che mi appresto a raccontare ha poco di normale (a dispetto del titolo) e molto dell’anormalità di veri e propri abusi alla luce del sole: nelle interazioni, nei linguaggi e nelle forme. È una storia che può essere scritta grazie alla disponibilità di H che ha voluto condividere quanto gli è successo, e continua a succedere ad altri, nel silenzio e nella normalità alle numerose persone non bianche nelle nostre città.

I fatti sono abbastanza rapidi da ripercorrere. Da settimane le forze dell’ordine padovane hanno ridefinito le loro priorità di controllo. Se durante i mesi di marzo e durante la prima metà di aprile le pattuglie erano disperse nel territorio alla ricerca dei cosiddetti “furbetti” che infrangevano le regole del lockdown, da circa metà aprile sono tornate alla loro tradizionale routine di controllo e repressione negli spazi pubblici urbani, frequentati e attraversati da persone migranti, senza fissa dimora e indesiderabili vari. Questa missione di search and destroy nelle nostre città, mai veramente interrotta, è stata inaugurata da una maxi-operazione congiunta che, da lunedì 20 aprile, ha impegnato oltre ottanta uomini delle varie forze dell’ordine (polizia di stato, polizia municipale, carabinieri e guardia di finanza). Un’operazione fortemente voluta e spettacolarizzata dal Prefetto e dalla nuova Questora (che ha approfittato per un tour di persona nei luoghi del degrado cittadino). I risultati di una settimana di controlli intensivi sono stati magri e insieme drammatici per le persone coinvolte (su oltre 1600 controlli circa sono stati più di quaranta i multati, 29 i denunciati e la guerra alla droga si riduce a 800 grammi di erba sequestrata, oltre a 15 pasticche di ecstasy e 10 grammi di cocaina, ma anche 14 persone espulse ed una è stata portata al CPR1). Questi controlli intensivi hanno, però, offerto un triste spettacolo, pubblicizzato da quotidiani locali e dalla pagina facebook ufficiale della Questura. Un numero davvero impressionante di divise che fermavano, perquisivano, arrestavano quasi esclusivamente giovani uomini neri. I controlli dovevano essere contro gli assembramenti, in nome della salute pubblica, onde evitare il prorogarsi del contagio da Covid 19, ma sono diventati anti-aggregazione, con shift terminologico sicuramente eloquente circa l’obbiettivo esplicito degli stessi. Il problema, oggi come ieri (prima del coronavirus), non è tanto la quantità di gente in giro o la loro prossemica, ma piuttosto l’aggregazione di persone così evidenti e rumorose, come lo possono essere gli stranieri, qualunque siano le motivazioni della loro presenza nello spazio pubblico. Ritorneremo su questo in coda.

Da allora certe zone della città di Padova (la Stazione, il Cavalcavia Borgomagno, la zona di San Carlo vicina al Bingo, Via Annibale da Bassano, La Stanga, il Portello, gli argini del Lungopiovego, Ponte Unità d’Italia, la zona di Chiesanuova) regalano lo spettacolo quotidiano di una singolare partita di guardie e ladri, con una iper-concentrazione di mezzi e di agenti delle forze dell’ordine e immancabili persone non bianche braccate e sottoposte alle varie forme di controllo. Il tutto va ad arricchire un bollettino parallelo, praticamente giornaliero, che restituisce i numeri dei grammi di sostanze sequestrati, le biciclette recuperate e (soprattutto) la quantità di persone fermate, multate, denunciate oppure espulse. Un bollettino che, in qualche modo, cerca di sostituire il triste conteggio dei contagi e dei morti da Covid 19 che tanto ha assorbito le attenzioni di tutti quanti in questa lungo lockdown. Ma, “ehi, su con la vita! Ora bisogna tornare al lavoro (chi lo ha ancora o può tornarci), quindi ecco a voi dei nuovi numeri che possano appagare i numerosi cittadini “perbene”, indignati e stufi della presenza di tutti questi neri irresponsabili e untori in giro”.

Così ecco che nella Padova istituita a modello (meritatamente) per la risposta solidale e mutualistica messa in campo, continua a perpetrarsi indisturbata una forma di repressione e punitività selettiva, come sottolineavo qualche settimana fa2. Al di là dei semplici numeri del bollettino della repressione ci sono storie. Storie di persone per il quale un fermo andrà a condizionare l’intera vita, determinandone potenzialmente il confinamento in una condizione di esclusione semi-permanente, assieme all’espulsione dall’intera Europa (nota tristemente ironica in un periodo di frontiere bloccate). E mentre ministri e partiti mediocri discutono di regolarizzazioni al ribasso (dietro il solito scambio diritti per lavoro), questure e prefetture lavorano scientificamente nella produzione costante di nuovi irregolari.

Quella che segue è una breve intervista, che ho avuto l’onore e il piacere di fare con H, un giovane ragazzo molto impegnato nel volontariato cittadino in questo periodo di necessaria attivazione, promosso dal C.S.V. all’interno della campagna Padova Noi ci Siamo, a cui hanno aderito i numerosi spazi sociali della città. H però è senza permesso di soggiorno. È uno dei cosiddetti irregolari, che si vorrebbe invisibili e zitti, un problema sociale da reprimere o, al limite, all’occorrenza da occupare nelle campagne o in altri luoghi di lavoro che sfruttano una manodopera del tutto priva di possibilità di rivendicazione. H è stato fermato in stazione dalla polizia mentre in bicicletta si recava a prestare il servizio di volontario che svolge regolarmente e l’esito, come prevedibile, è stato quello di aggiungere una unità al triste bollettino di prima.

Riporto qui la sua versione di quanto successo, quello che ho potuto ascoltare.

La storia

P – Ciao H. Allora puoi raccontami cosa è successo?

H – Ok, quel giorno sono passato dalla stazione per andare a lavorare, a fare il volontariato che sto facendo al quartiere per la distribuzione della spesa. Quando sono passato davanti al McDonald loro mi hanno fermato. Loro mi hanno chiesto i documenti. Un poliziotto mi ha detto “Oh! Ferma! Ferma!”. C’era un furgone della polizia e c’erano molti agenti, certamente più di otto, e poi è arrivata anche una macchina della polizia. Mi sono fermato e mi ha detto di lasciare la bici e di andare da loro. Io gli ho detto che dovevo andare al lavoro, lui mi ha chiesto subito dove stessi lavorando. Io gli ho risposto che stavo andando a fare il volontario per la spesa e dove stavo andando. Ho anche provato a ripetergli che dovevo essere là entro 15 minuti, ma mi hanno risposto: “Oh devi, cazzo, ascoltare a noi. Noi dobbiamo dirti quello che ci serve. Quando avremo finito quello che stiamo facendo tu potrai andare. Siamo noi che dobbiamo dirti se devi andare o no”. Allora ho detto: “Ok ma io devo andare a fare il lavoro”. Mi hanno detto che quello non era un lavoro ma solo volontariato e, quindi, non è lavoro. Io allora ho detto: “Ok, va bene, facciamo quello che vuoi”.

Allora lui mi ha chiesto dove fosse il mio documento e io ho risposto di non averlo. Si sono messi a parlare tra di loro, mi hanno chiamato e quando mi sono avvicinato mi hanno dato un foglio per scrivere il mio nome, il cognome e dove fossi nato. Mi hanno detto di firmare ma io ho risposto che non potevo.

Mentre eravamo là, è passato un mio amico e ci siamo detti due parole in dialetto. Subito il poliziotto mi ha detto che non dovevo parlare in dialetto. Dovevo stare zitto. Ho spiegato che non volevo stare zitto e che non stavo parlando di loro, ma che stavamo parlando fra di noi. Un altro poliziotto allora ha detto: “Perché non stai parlando italiano? Devi stare zitto! Se devi parlare, tu devi parlare italiano, così sentiamo e capiamo tutto”. Si stavano arrabbiando, allora ho provato a spiegare che non stavamo dicendo niente di sbagliato. Lui mi ha detto: “Stai zitto! Stai zitto!”. Gli ho detto: “Non parlare così con me”. Mi ha risposto: “Non me ne frega niente. Non me ne frega un cazzo. Devi stare zitto!”. Gli ho spiegato che io dovevo parlare il mio dialetto col mio amico, perché non è possibile parlare in italiano con un africano. “No!” e mi dicevano che visto che sono in Italia, allora adesso sono italiano e quindi dovevo parlare italiano. Ma ho detto che non è possibile, io sono africano. È la verità. Se qualcuno mi chiede “dove sei nato?” io rispondo “sono africano” non posso dire “sono italiano”. Quindi, se devo parlare con un italiano parlo italiano, se devo parlare con qualcuno che parla inglese o francese o qualcos’altro, devo parlare quella lingua. Poi i poliziotti si sono arrabbiati con me e volevano fare un video. Ho chiesto il perché del video. Volevo domandargli il perché, ma mi hanno ripetuto che non dovevo fare un cazzo e stare zitto.

Il capo di loro mi ha detto: “Va bene”. Abbiamo cominciato a parlare, lui mi ha detto che mi avrebbero portato in Questura per verificare se fossi in regola o no. Io gli ho risposto: “Ok, nessun problema”, ma ero con la bici senza lucchetto, mi hanno detto di lasciarla lì, che ci avrebbero pensato loro, quando avrei finito in Questura sarei tornato e avrei ripreso la mia bici. Così ci sono andato. Mi hanno portato con la loro macchina.

P – Come è andata in Questura?

H – In Questura abbiamo fatto il fotosegnalamento e le impronte digitali. Abbiamo fatto tutto. Mi hanno fatto aspettare per i documenti che avrei dovuto firmare. Quando i documenti erano pronti, volevano che io firmassi ma io ho risposto che non potevo firmare, perché non sapevo cosa c’era su quei fogli, quindi mi dispiace ma non posso farlo. Ho firmato solo un foglio per le cose che mi avevamo preso quando ero arrivato: la collana, l’orologio, gli occhiali, il cappello, il cellulare e ottanta euro. Ho solo firmato questo. Poi me ne sono andato.

P – Qualcuno ti ha spiegato il contenuto scritto nei vari fogli da firmare? O quello che stava succedendo? Qualcuno che poteva tradurti in inglese?

H – No, nessuno lì parlava inglese. Io gli ho detto che non serviva parlarmi in un’altra lingua che capivo anche l’italiano e loro mi hanno detto che solo l’italiano dovevo parlare. Nessuno però mi ha spiegato niente.

P – Quando sei tornato cosa è successo?

H – Sono tornato in stazione per riprendere la bici ma ho trovato altri poliziotti. Ho chiesto a loro della bici, ma mi hanno risposto che non sapevano. La mia bici zero, quindi boh. Secondo me, loro la hanno portata via. Devono averla portata in Questura, là ho visto molte bici, mille. Tantissime bici. Ho provato a chiedere in Questura ma nessuno mi rispondeva, o dicevano di non sapere niente. Loro non volevano dirmi la verità. Ma io non potevo fare niente. Però non sono preoccupato per la bici, l’ho comprata, non rubata. Questo l’ho detto alla polizia. Io da quando sono in Italia non ho mai creato un singolo problema. Non rubo, non spaccio, non faccio niente di male. Se vogliono possono guardare nella mia storia. Anche un poliziotto mi ha detto di saperlo che sono un bravo ragazzo. Però siccome siamo immigrati c’è sempre il sospetto. Non è giusto così. Poi me ne sono andato.

P – È stato l’unico fermo di polizia di questi giorni?

H – No. Anche il giorno prima, anche se ho sbagliato io in questo caso. Avevo la mascherina rotta e quindi non l’avevo addosso e stavo andando a prendere il mio cellulare da un mio amico. Era una pattuglia. Lui mi ha detto che dovevo coprire con qualcosa naso e bocca. Io gli ho spiegato che non avevo la mascherina perché era rotta. Però, mentre stavo parlando con loro, lui pensava che io fossi arrabbiato per come parlavo. Ho provato a spiegargli che io parlo sempre così e non ero arrabbiato. Mi diceva che se la polizia mi dice di fare una cosa io la dovevo fare e basta. Gli ho ripetuto che era rotta la mascherina. Lui mi ha detto “ok” e mi ha fatto vedere una cosa, come corrente, quella che si usa per seccare le persone, come quando uno fa una cosa brutta, non so come si chiama in italiano? Quello giallo. Tipo pistola.

P – Il T.A.S.E.R.?

H – Sì, quello. Mi ha chiesto se sapessi cos’era. Io ho risposto di sì. Mi ha detto: “Questo lo voglio usare con te”. Ho detto: “Non devi preoccuparti, perché io so cos’è questa cosa, però non ho fatto niente di sbagliato.” Mi ha detto di alzare la maglia sulla bocca e sul naso e che non devo uscire senza mascherina. Ho risposto “io non la ho” ma ho alzato la maglia, sono andato a prendere il cellulare e basta.

P – Ci sono stati altri episodi in questi giorni?

H – Madonna. Un altro giorno stavo andando a correre vicino al Portello. È arrivata la polizia che stava facendo controlli. Mi hanno fermato, io ho spiegato che non ero uno spacciatore, che ero una persona che si stava allenando, anche per come ero vestito. Loro mi hanno risposto che non mi credevano. Così hanno iniziato a perquisirmi. Lui era come arrabbiato. Io ero con i pantaloncini da corsa e una t-shirt. E, quindi, lui mi stava controllando e mi ha toccato il cazzo. Gli ho detto di non toccarmi. Io non ho mai venduto erba o droga. Perché deve controllarmi così? Lui mi ha detto di stare zitto. Ma non è possibile stare zitto. Se tu mi fai una cosa che non è giusta non posso stare zitto. Non ha trovato nulla e poi mi ha lasciato andare.

Un altro giorno, invece, ero con un amico e dei carabinieri sono venuti e ci hanno chiesto dove avessimo i soldi, che non potevamo vivere e mangiare senza soldi, che non dovevamo venire in Italia a chiedere i soldi. Noi gli abbiamo risposto che questa non è una domanda da fare: “a noi provvede Dio”. Loro pensano che noi siamo come animali, secondo me. Come se non avessimo capacità. Però ognuno ha il suo lavoro.

P – Ecco, ora volevo chiederti il perché hanno fermato te?

H – Eh secondo me perché stanno fermando le persone africane. Perché la gente pensa che stiamo a vendere droga. Secondo me per questo. Quando loro mi hanno fermato, pensavo questo: perché noi siamo spacciatori. Quello pensavo direttamente. Poi loro hanno controllato ma non hanno trovato niente da me. Io sono passato di lì perché sono una persona che non ha sbagliato, non devo scappare dalla polizia. Perché non devo passare da questa strada e fare un’altra strada? Non posso fare questo. Per questo sono passato di là, però non ho fatto niente.

P – Grazie H.

Una breve analisi

A seguito del fermo, H. ha ricevuto un decreto di espulsione dal territorio italiano da compiere entro sette giorni e ne dispone l’accompagnamento alla frontiera da parte della forza pubblica. Non trovandolo in possesso di sostanze stupefacenti, la bici è stata sequestrata come sospetto corpo del reato di ricettazione in attesa di accertamenti, poiché H non era in possesso di documenti che ne garantissero l’acquisto (ne siamo tutti in possesso, giusto?). Inoltre, è stato multato di 100€, oltre a ricevere un ordine di allontanamento di 48 ore dall’area della stazione, in ottemperanza del Decreto Minniti sulla sicurezza urbana e secondo il Regolamento della polizia urbana di Padova, tutto ciò in nome del decoro cittadino! Poiché H, attraversando in bici l’area della stazione per andare a svolgere la sua attività di volontario, stava in realtà impedendo “la libera fruizione della seguente area/spazio, in violazione dei divieti di stazionamento o di occupazione di spazi ivi previsti”. Naturalmente di fronte ad un caso come questo, ci siamo attivati, capendo come rispondere al decreto di espulsione ed evitare che questa storia consegni ai margini della società una persona come H. Ci sono casi molto peggiori, sicuramente ci sono storie di abusi ben peggiori, perpetrati nel silenzio e nell’indifferenza generale, o peggio nel consenso e nel rumore degli applausi dei molti, sollevati alla vista dell’azione assidua delle forze dell’ordine nel punire gli indesiderabili delle città. Tuttavia, articolare un’alternativa critica appare fondamentale, anche a partire da casi come questo.

La storia necessita di riflettere su alcuni passaggi che sono abusi e su altri che sono retoriche o modalità solitamente intollerabili per un qualunque cittadino “perbene” della città. H. in quanto migrante, in quanto soggetto razzializzato, in quanto “negro”, viene interpellato dagli agenti come “Oh”. Non ha un nome, non è una persona, “siamo come animali” ricorda anche se non spaccia, se non fa niente di sbagliato, se non è un “criminale”, lui è meno di un cittadino. È meno di una persona meritevole di rispetto. È un corpo da chiamare e poi sanzionare. E “Oh” è il nome di tutti i “negri” fermati e puniti: richiamati al comando.

H. poi deve stare zitto sempre, non può parlare il suo dialetto ma deve parlare italiano, perché lui è in Italia, lui è italiano; eppure il suo colore, il luogo in cui è nato e cresciuto, i suoi documenti negati dicono l’esatto contrario. Se essere italiano è essere un cittadino possessore di diritti e soprattutto di tutele, verso l’arbitrarietà della forza pubblica, questi fermi raccontati sono la testimonianza dell’opposto. Non si può venir assimilati a piacere. Non è italiano, è una persona da controllare, da cercare, in qualche modo da far soffrire e patire. Ma deve stare zitto, anche perché non deve assolutamente dire se quello che sta subendo è una cosa giusta o meno. In tutti i casi la parola gli è negata. È un corpo da controllare. Un numero da aggiungere al bollettino.

In fondo H. deve obbedire ai comandi ma non deve porre domande. O mio corpo fai sempre di me un uomo che interroga, scriveva troppi anni fa Fanon. Questo bisogno primario è negato tout court. Siamo noi, forza pubblica, a dirti cosa puoi o non puoi fare, siamo noi arbitri di cosa sia un lavoro e cosa non lo sia, di quali strade tu possa attraversare sicuro e quali, invece, ti debbano sottoporre al nostro controllo. Siamo noi, infine, a stabilire cosa ti avverrà. La perdita di controllo su di sé e la consegna totale all’apparato del potere punitivo e insieme giudicante dello Stato, senza voce alcuna.

Abbiamo poi le menzogne vere e proprie e le verità non dette: la bici sequestrata in primis e il significato dei numerosi fogli che H avrebbe dovuto firmare. Ma si sa le difficoltà linguistiche, il dover fare tutto in fretta, tanto poi al limite si fa ricorso, si evitano così gli impicci dello spiegare o meglio del far comprendere cosa sta succedendo e le conseguenze dirette future. H è come un infante, gli vanno dette delle “bugie bianche” per il suo bene, perché faccia le cose che gli vengono dette, oppure viene minacciato direttamente: o fai quello che vogliamo senza discutere, altrimenti sai cosa possiamo fare!

Infine, abbiamo le minacce e gli abusi. La perquisizione pubblica perché necessariamente una persona non bianca in un determinato posto della città deve essere uno spacciatore, e allora il legittimo sospetto dell’agente giustifica l’abuso. Un abuso che si concretizza anche nella perquisizione intima sui genitali, una molestia perpetrata di fronte a tutti, in luogo pubblico, che pone in immediato disagio H, per la sua sessualità violata. La minaccia di usare il T.A.S.E.R. poiché il reo non porta la mascherina (perché rotta e costa soldi d’altro canto) e alza troppo la voce, secondo l’agente. Ecco questi ultimi due passaggi configurano un rapporto di assenza totale di conseguenze per la condotta perpetrata da parte degli agenti (un rapporto non dissimile dai numerosi casi di fermi di italiani e stranieri finiti in un’escalation di violenza e abuso), ma anche un’affermazione di un preciso rapporto gerarchico razziale, dove l’aver a che fare con un corpo nero offre maggiore libertà di azione alla forza pubblica, conscia di poggiare su un consenso pubblico, rumoroso e diffuso, affamato di punitività selettiva.

La verità è che l’abuso poliziesco razzializzato è particolarmente odioso, poiché senza scomodare la doppia coscienza di Du Bois o Fanon (l’alienazione da sé del nero di fronte al bianco), il fermato non è una persona ma un corpo vuoto: il “negro”. E la persona dentro quel corpo, in quanto “negro” sottoposto all’arbitrio del controllore bianco, si auto-comprende in quanto tale, percependo l’interezza della propria vulnerabilità, la propria precarietà, la propria inclusione monca alla comunità dei cittadini e degli uomini.

Coda: requiem notturno

Cade su tutto il ritorno della normalità. O meglio il lento percorso verso il ritorno alla normalità. Il traffico è ritornato. Improvvisamente, il silenzio di una città in lockdown si è riempita dei rumori del ritorno di tanti al ciclo della produzione e riproduzione. È tornata per molti anche la libertà di usare lo spazio pubblico delle città per il tempo libero, per l’ozio. Dopo due mesi di chiusura per molti, questo ritorno è una boccata di ossigeno. È tornare a respirare. Per molti. Non per tutti, però.

Lo è per le bambine e i bambini che finalmente possono uscire con maggiore libertà, frequentare i parchi. Uscire da una prigionia che ha messo in discussione i più elementari diritti dell’infanzia. Il tutto in nome di una paranoia contro i bambini: serbatoio ideale del virus secondo virologhi onnipresenti, vati dell’isolamento domestico e del distanziamento fisico (mi rifiuterò sempre di chiamarlo sociale!). Lo è in generale per molti dei vari cittadini “perbene” che finalmente possono rivedere “affetti” e “congiunti”. Attraversare la città, non più solo per recarsi al lavoro o inserirsi nelle lunghe code dinnanzi ai pochi negozi aperti. Lo è in generale per molti.

Non lo è per tutti. Altri si confermano oggi come soggetti privilegiati del controllo poliziesco. Perché oggi i controlli, effettuati da corpi delle forze dell’ordine, inebriati da due mesi di totale controllo sulle strade e le piazze italiane, si danno sempre più sui corpi notturni della nostra società: gli indesiderabili da sempre, i distinguibili, portanti in volto il marchio del peccato di Cam. Se in regime di Fase 1, il restare a casa, o meglio restare in casa, si è configurato, in tutto e per tutto, come un privilegio articolato sulle distinzioni di classe, genere e razza; ora, nella Fase 2, è la libertà di movimento ad aggiungere articolazioni di privilegio: ora basate sulla linea del colore in modo evidente.

Questa libertà appunto ha degli estremi ben evidenti: parchi e strade cittadine ritornano vive, attraversate da numerosi cittadini e (finalmente) bambine e bambini, che a mano a mano si riappropriano (ribellandosi) di un diritto fondamentale all’uso della città, nonostante le parziali limitazioni ancora presenti. Per il resto della popolazione, quella non bianca o quella segnata dalla marginalità sociale, intere aree della città sono oggi condizionate da forme pesanti di controllo e militarizzazione da parte delle forze dell’ordine: una geografia urbana con passaggi semi obbligati sotto forche caudine, appositamente approntate per loro. Le autodichiarazioni (i mille modelli di questi mesi) perdono, dunque, ogni significato: i cittadini sono sostanzialmente più liberi anche di trasgredire, per i secondi ogni autodichiarazione è passata al contropelo e di fatto soggetta interamente all’arbitrarietà degli agenti, il cui scopo è braccare spacciatori, ladri di bicicletta e irregolari vari nel territorio, o al meglio sanzionare e multare anche le minime trasgressioni. Si configurano, dunque, due forme di libertà di attraversamento della città e, i confini validi per alcuni, per altri sono del tutto inesistenti.

L’apparato poliziesco dello Stato sta ridirezionando la smania di ordine e pulizia (l’igienizzazione delle città) contro quei corpi neri (o per lo meno non bianchi) così indesiderabili, quanto necessari all’equilibrio di queste nostre fragili società. Ecco che il corpo nero, fermato, multato, represso, assume una forma salvifica per la coesione sociale, tanto necessaria (richiamata in ogni lettera, circolare, decreto da marzo a questa parte, il cui crollo è causa di tante preoccupazioni). Se i controlli si svolgono sul lato notturno della nostra società, allora chi abita il lato chiaro è nuovamente più libero di qualcun altro e sulla condizione peggiore degli ultimi si fonda la nostra sopravvivenza (vivere al di sopra). L’eliminazione sociale, o peggio fisica, dell’altro-diverso-da-noi rafforza direttamente il potenziale di vita e la sicurezza dei cittadini, in quanto esso rappresenta una sfida in tutto alla vita di cittadini “perbene”, cioè una minaccia diretta alla propria sicurezza. Questa è la funzione sociale che possiamo trarre degli irregolari, degli indesiderabili, dei corpi non bianchi punibili e puniti.

Ma c’è di più, purtroppo: tutto ciò ci ricorda, o meglio rende evidente di fronte ai nostri occhi, come il razzismo non sia un’articolazione secondaria o particolaristica delle nostre società, ma sia un elemento strutturale e fondante. Il razzismo è nelle istituzioni, nei corpi di polizia, nelle persone comuni etc. poiché esso è la tecnologia di governo atta a mantenere stabili gli equilibri di produzioni e riproduzione della società e del capitale. Il razzismo è strutturale (esattamente come lo è il sessismo e il classismo, articolazioni che bene esprimono i corpi intersezionali). Il razzismo è necessario, detto in altri termini, ed in questi giorni si palesa come tale. Necessario all’ordine sociale, necessario al reperimento di una facile manodopera sfruttabile e disciplinabile. Necessario l’irregolare da punire, così come quello da regolarizzare (o mantenere irregolare) e mettere a produzione. Abbattere il razzismo strutturale non è e non sarà mai un compito facile, proprio per il suo essere incorporato profondamente su vari livelli negli individui che compongono la società, nel suo intreccio col capitalismo come modo di riproduzione.

Contro di ciò è importante (e senza ogni dubbio desiderabile) mettere in campo azioni e campagne politiche di appropriazione e riappropriazione dei cosiddetti diritti di cittadinanza per le popolazioni razzializzate ed escluse. Ma è altrettanto necessario ripensare e riarticolare i rapporti all’interno delle società capitaliste contemporanee, segnate da forme di postcolonialialismo sempre più marcate. È, dunque, essenziale interpellare le soggettività intersezionali discriminate, sfruttate ed escluse in base ai paradigmi delle gerarchizzazioni di razza, genere e classe, che vivono ai margini delle nostre città. Bisogna problematizzare l’interezza delle forme di privilegio (o di assenza dello stesso) che ci caratterizzano.

È forse doveroso pensare a forme di tutela e di autodifesa collettiva, contro gli abusi di polizia che, giorno dopo giorno, tornano a perpetrarsi sui soggetti razzializzati e migranti che abitano le nostre città. Realizzare forme di monitoraggio mobile e diffuso che limitino il campo di impunità e consenso in cui si muovono le forme di controllo e repressione dello Stato, soprattutto in periodi di eccezionalità diffusa, come questo che stiamo vivendo in questi mesi. È indispensabile non abbassare la guardia e anzi, continuare ad articolare alleanze, soprattutto con quelle persone escluse e rese indesiderabili. Porsi contro una sbandierata coesione sociale così tanto acclamata. In realtà l’ennesima dichiarata forma subdola di nuovo disciplinamento sociale: nel suo attribuire ruoli impostati, da un lato, e nell’escludere, dall’altro. D’altro canto, le soggettività indesiderabili (quei nuovi poveri delle nostre città) vanno bene solo se assistiti, invece se autonomi sono un problema: una minaccia alla sicurezza di tutti.

Sarà necessario dunque, contrastare le varie forme di privilegio su cui si fonda l’assoggettamento e il disciplinamento di tante e tanti, con ogni mezzo necessario.

Piccola Bibliografia Critica

– Althusser L., Ideologia e Apparati Ideologici di Stato, Dedalo Libri, 1976;

– Du Bois W.E.B., Le Anime del Popolo Nero, Le Lettere, 2007, (originale del 1903);

– Fanon F., Pelle Nera, Maschere Bianche, ETS, 2005 (originale del 1952);

– Mbembe A., Nanorazzismo. Il corpo notturno della democrazia, Laterza, 2019;

– Mellino M., Governare la Crisi dei Rifugiati. Sovranismo, Neoliberalismo, Razzismo e Accoglienza in Europa, Derive Approdi, 2019;

  1. http://www.padovaoggi.it/cronaca/bilancio-controlli-coronavirus-multa-denuncia-droga-spaccio-ricettazione-biciclette-polizia-carabinieri-finanza-locale-padova-27-aprile-2020.html
  2. https://globalproject.info/it/in_movimento/a-padova-accade-storie-di-punitivita-selettiva/22718