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La propaganda ungherese che crea paura dell’Altro

di Elettra Repetto*

Laszlo Balogh | Credit: Getty Images

Nell’estate del 2015, secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale delle Migrazioni, l’Ungheria ha visto passare mezzo milione di persone in fuga dal Medio Oriente.

La guerra in Siria aveva allora raggiunto un nuovo livello di violenza e le persone cercavano quindi rifugio in Europa, lungo la via balcanica, passando da Budapest.

Sorprendentemente, durante quell’estate la percezione dei migranti, un tempo visti come l’orrido “altro”, il nemico dei valori ungheresi sembrava potesse cambiare in positivo.

Gli ungheresi, una volta rispecchiatisi nei volti dei migranti e sentite le loro storie di guerra, si prestarono rapidamente ad aiutare e, intervistati si dicevano, certo solo alcuni, disposti ad accogliere 1.

Tuttavia, già a partire dall’ottobre dello stesso anno però, pochi di quei volti erano rimasti, andati ormai in Germania, Austria, Francia e la retorica anti-migrante è potuta tornare forte. Anzi, il governo, armato di nuove immagini da usare per la propria propaganda, immagini di conflitti con la polizia al confine serbo, di persone povere e stanche, in fila sulle rotaie dei treni per raggiungere un posto da chiamare casa, ha cominciato a tappezzare le città con slogan anti-migranti.

Gli xenofobi sono così cresciuti e contemporaneamente si è ridotto il numero di chi, prima, era pronto ad accogliere almeno quanti scappavano dalle guerre. La popolazione ungherese, di fronte alla creazione del muro spinato eretto a fine estate 2015 per separare l’Unione Europea da chi cercava di entrarvi, non si è mossa indignata, non in massa almeno.

Vittime essi stessi di una propaganda politica dei muri e non dell’accoglienza, gli ungheresi hanno cominciato sempre più a dirsi d’accordo con politiche di chiusura delle frontiere, e lo hanno fatto convinti di proteggere la propria identità. Se in Italia, la retorica populista si concentra sui migranti in quanto minacce alla stabilità economica del paese, in Ungheria la questione diventa esistenziale. I migranti sono dipinti come un pericolo per l’identità storico-culturale del paese, pronti a soppiantare la religione cristiana con l’islam e le abitudini culinarie ungheresi con le loro.

Non è quindi sorprendente che proprio questo accento sull’identità religiosa occupi il primo articolo del pacchetto di emendamenti legislativi, la LexNGO del 2018, che a tutt’oggi regola l’accoglienza dei migranti in Ungheria. Gli emendamenti, parte del pacchetto Stop Soros, sono volti a contrastare, secondo il governo, chi vuole trasformare l’Ungheria in un paese per migranti, ossia l’Unione Europea e l’immancabile nemico George Soros.

Non a caso, il primo articolo cita “onoriamo la Sacra Corona (di Santo Stefano, che ha portato la cristianità in Ungheria) e riteniamo obbligo dello stato proteggere la nostra identità, radicata nella nostra storica costituzione”.

Oltre all’enfasi sull’identità da proteggere, questo pacchetto di legge prevede anche che la polizia abbia una maggiore discrezionalità nel trattamento dei migranti al confine, che spesso hanno cacciato con violenza ancora prima di avere occasione di fare domanda di asilo. Soprattutto, tra gli emendamenti sono previste sanzioni per chi aiuti i migranti a venire a conoscenza di come, per esempio, si fa domanda di asilo.

Quest’ultima, con la legge del 2018, è stata fortemente limitata e le richieste delle persone che abbiano attraversato la Serbia, considerata dall’Ungheria paese sicuro e quindi paese dove poter fare domanda fuori dall’UE, considerate illegittime.

Formalmente i ricorsi sono previsti, ma i giudici devono pronunciarsi entro otto giorni dalla richiesta. Per di più, come da legge del 2017, i richiedenti asilo possono farne richiesta di asilo solo nelle zone di transito a Röszke e Tompa al confine con la Serbia, appositamente istituite.

Per di più, i migranti sono obbligati a rimanere in queste zone di transito, per tutta la durata della loro richiesta, appelli inclusi, cosa che ha portato delle famiglie a passare 18 mesi o più in zone che, formalmente di accoglienza, sono in realtà luoghi di detenzione e abusi. Proprio riguardo a questi limbo in cui le persone attendono che venga deciso il loro futuro, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel caso Ilias and Ahmed v. Hungary, ha decretato, nello stesso 2017, che il confinamento dei richiedenti asilo nelle zone di transito risulta in violazioni degli articoli 3 (tortura) e 5 (diritto alla libertà) della Convenzione Europea dei Diritti Umani.

Negli anni, le cose non sembrano essere cambiate, dato che il commissario delle Nazioni Unite in visita nel luglio 2019 in Ungheria, notava nuovamente come nelle zone di transito la libertà di movimento fosse fortemente limitata e la formale libertà di andarsene risultasse nell’immediata interruzione della pratica di asilo.

Soprattutto però, quello che preoccupa e sconcerta è la volontà di ridurre il supporto e l’informazione ai migranti e sui migranti, di tagliarne i legami con il mondo, per renderli facilmente alieni, stranieri, lontani.

A tal proposito, lascia senza parole l’invenzione di una tassa del 25%, sempre parte degli emendamenti del 2018, per le associazioni e le organizzazioni, i centri di ricerca, che si occupano di migrazione e dipingono la migrazione in termini positivi.

La voluta approssimazione nella stesura del pacchetto di legge che rende possibili diverse interpretazioni su chi sia colpito dalle sanzioni e dalla tassa, secondo l’Hungarian Helsinki Comittee e altre NGO rende lo stesso uno strumento illegittimo.

Molti sono infatti quelli che hanno criticato LexNGO 2018, e tra questi, l’Hungarian Helsinki Committee, una NGO che si occupa di diritti dei migranti e che ha portato la legge di fronte alla Corte dell’Unione Europea. Questa, ha legiferato due volte quest’anno su due casi riguardanti l’Ungheria.

La prima sentenza, LH Contro Bevándorlási és Menekültügyi Hivatal, datata 19 marzo 2020, ha stabilito che non si può ritenere inammissibile una richiesta di asilo semplicemente perché fatta da chi è passato da un paese terzo, non membro dell’UE. Nel caso ungherese questo è la Serbia, benché ritenuto uno stato che non ha sottoposto a danno grave o persecuzione il richiedente.

Ogni paese, prima di non accettare la richiesta, deve infatti fare indagini per accertarsi della protezione di cui godrebbe il richiedente se rimandato nel paese terzo; tra tutte, deve accertarsi che questo paese, rispetti il principio di non refoulement stabilito dal diritto internazionale. Il limite di otto giorni “per pronunciarsi, qualora tale giudice non sia in grado di assicurare, entro un simile termine, l’effettività delle norme sostanziali e delle garanzie processuali riconosciute al richiedente dal diritto dell’Unione” (ECLI:EU:C:2020:218, paragrafo 77) è contrario al diritto dell’Unione stessa.

La seconda, del 14 maggio di quest’anno (ECLI:EU:C:2020:367), non solo ha infine sancito l’incompatibilità di tale pacchetto di leggi con il diritto dell’Unione Europea, ma ha anche stabilito che tenere le persone nelle zone di transito (di Röszke e Tompa) equivale a privarle della libertà, cosa che non dovrebbe avvenire per più di quattro settimane.

Le stesse parole usate dalla Corte sono rilevanti. Infatti, contrariamente a quanto il governo ha sempre sostenuto, la corte ha definito “detenzione” il bloccare le persone nelle zone di transito. Se le zone di transito sono legalmente riconosciute come zone di detenzione dunque, porvi le persone diventa regolamentato da leggi europee e nazionali chiare. La detenzione non può essere una scelta arbitraria, ma giustificata, controllata dagli organi giudiziari, necessaria e proporzionata al reato che si vuole evitare.

La sentenza tuttavia, arriva dopo il COVID-19, che ha portato a chiudere le zone di transito. Adesso dunque nessuno può entrare in Ungheria e fare domanda di asilo. Röszke e Tompa, le uniche vie di ingresso dai Balcani, non accettano più richiedenti con il pretesto di evitare la diffusione del coronavirus. Il fatto che alcuni studenti Iraniani a Budapest siano stati tra i primi a risultare positivi al virus, è capitato proprio al momento giusto e non ha fatto altro che rafforzare la propaganda anti-migranti del governo.

La “crisi migratoria” che il governo ha fabbricato, nonostante le richieste di asilo sono state meno di 500 nel 2019, dura in Ungheria da ormai cinque anni, e ha portato ad un inasprimento delle limitazioni alla mobilità personale e alla diffusione di razzismo e xenofobia.

I migranti sono il perfetto capro espiatorio, ora usato, forse, anche per distrarre gli ungheresi dalla loro trasformazione da cittadini a sudditi.
Nonostante questo però, anche se incredibilmente, l’Ungheria è ancora un membro dell’Unione Europea.

Come tale, deve sottostare alle regole europee e rendere conto del suo agire di fronte alla Corte dei Diritti dell’Uomo e alla Corte di giustizia della corte Europea.

Anche se Orbàn ha adesso pieni poteri in Ungheria, attribuitigli formalmente per combattere più rapidamente il COVID19, non è ancora il sovrano che vorrebbe essere.

  1. (Simonovits B. (2020) The Public Perception of the Migration Crisis from the Hungarian Point of View: Evidence from the Field. In: Glorius B., Doomernik J. (eds) Geographies of Asylum in Europe and the Role of European Localities. IMISCOE Research Series. Springer, Cham).

Elettra Repetto

Dopo anni di attivismo in ambito ambientalista e dopo aver lavorato e collaborato con ONG italiane e greche che si occupano di richiedenti asilo e rifugiati, ho deciso di dedicarmi alla ricerca. Ora sono una dottoranda in Teoria Politica e Diritti Umani alla Central European University di Budapest/Vienna. Come membro di Eurodoc, il Consiglio Europeo dei Dottorandi, partecipo al gruppo di lavoro che combatte per equità e uguaglianza in ambito accademico.
I miei interessi di ricerca principali sono la disobbedienza civile, la giustizia globale, l’ambiente e la migrazione.
Oltre a collaborare con Melting Pot, sono chief editor di Rights!, una piattaforma editoriale specializzata in diritti umani.
Da anni porto avanti un progetto fotografico sull'identità e i luoghi.