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Politiche di non accoglienza in Tunisia: attori umanitari al servizio delle politiche europee di sicurezza

Rapporto congiunto della missione FTDES Migreurop - giugno 2020

La copertina del rapporto

La risposta è chiara: è no […] Non abbiamo né le capacità né i mezzi per creare [dei] centri di accoglienza1.
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È con queste parole che a giugno 2018, Tahar Chérif, ambasciatore tunisino presso l’Unione europea, ha ribadito il rifiuto della Tunisia di accogliere sul suo territorio dei campi dove verrebbero “raggruppati” i migranti che l’Unione europea non vuole.

Questo rifiuto è avvenuto in seguito alla proposta della Commissione europea di allestire in Africa del nord delle “piattaforme di sbarco” per i migranti soccorsi nelle acque internazionali, in mancanza di un accordo tra gli Stati europei per ripartirsi il carico di accoglienza, nel momento in cui l’Italia annunciava la chiusura dei suoi porti.

Ma se la Tunisia, insieme ad altri paesi africani, rifiuta apertamente il piano della Commissione e continua a sostenere che non accetterà mai di diventare la guardia di frontiera dell’Unione europea, in realtà da molto tempo accetta diversi strumenti destinati al controllo dei migranti dell’Africa subsahariana 2 presenti sul suo territorio.

Dopo il fallimento dell’accordo regionale sulle piattaforme di sbarco, l’Unione Europea sembra aver optato per un sistema di controllo dell’immigrazione frammentato e progressivo, di cui la Tunisia è il candidato preferito.

Con il peggioramento della situazione di sicurezza in Libia 3 , quest’ultima sembra diventare il nuovo obiettivo della strategia europea di esternalizzazione delle frontiere e accumula progressivamente gli ingredienti che tendono a trasformarla in una zona di controllo migratorio.

Ma se la Tunisia, rispetto alla Libia, offre un’immagine migliore in termini di accoglienza per le popolazioni migranti, l’esperienza vissuta da queste ultime sembra piuttosto diversa. “Vivere in Tunisia, non è più possibile. Devo tornare in Libia“.

Dall’inizio del 2020, sempre più migranti hanno pronunciato questa frase, nonostante si fossero spostati per rifugiarsi in Tunisia dopo la loro esperienza in Libia. Mentre in Libia gli scontri stanno ricominciando , come si può spiegare che decine, addirittura centinaia di persone abbandonino un Paese in pace e con la reputazione di essere più o meno accogliente 4, per un paese nel caos ed estremamente pericoloso per loro?

É a partire da questa domanda e dalla constatazione provata della “non accoglienza” dei migranti sul territorio tunisino che è stata avviata questa ricerca di tre mesi sulle politiche di gestione delle migrazioni in Tunisia.

Il presente rapporto tenta di documentare queste politiche di “non accoglienza“, collocandole nel contesto più ampio delle politiche di esternalizzazione delle frontiere dell’Unione Europea e attribuendo un’attenzione particolare al modo in cui queste politiche, nel contesto tunisino, collegano strettamente il registro umanitario e quello relativo alla sicurezza.

Questo rapporto è stato realizzato tra ottobre e dicembre 2019 in collaborazione con il FTDES (Il Forum Tunisino per i Diritti Economici e Sociali) e la rete euro-africana Migreurop.

Esso si basa su più di 90 colloqui con migranti (35 con esiliati in Tunisia che rappresentano 16 nazionalità diverse), e rappresentanti di organizzazioni e di organismi locali e internazionali, così come ricercatori, ricercatrici e giornalisti.

  1. Webdo, «L’UE propone di nuovo un campo di migranti irregolari in Tunisia», 21 giugno 2018.
  2. La categoria dei “migranti dell’Africa subsahariana” rinvia qui all’uso che viene fatto di solito dal punto di vista emico, per designare ogni persona originaria dell’Africa al di fuori del Maghreb e dalla pelle di colore nero. In mancanza di altri termini, useremo questa categoria, sottolineando la sua incompiutezza (questo termine è per esempio utilizzato per designare dei cittadini del Corno d’Africa) e la sua genealogia razzista (il termine è generalmente impiegato per segnare e mettere in evidenza una differenza tra “Arabi” e “Africani” a partire da criteri razziali). In merito cfr. Le Monde, “Razzismo anti-nero: come il Maghreb è arrivato a rifiutare la sua africanità?” (Dibattito di Salah Trabelsi), 24 febbraio 2019
  3. Per fare un riassunto della situazione in Libia dal 2011: a partire da febbraio 2011, in un contesto di proteste nei paesi arabi, alcuni movimenti d’opposizione nei confronti di Muammar Gheddafi, al potere da 42 anni, si sono diffusi nelle grandi città del paese. Dopo vari mesi di conflitto e di repressione sanguinosa da parte degli oppositori e l’intervento di una coalizione internazionale, il regime di Gheddafi viene ribaltato. A partire da dicembre 2015, due organizzazioni rivali si disputano il governo del paese, da un lato, il Governo di unità nazionale della Libia, con base a Tripoli, guidato da Fayez al-Sarraj e riconosciuto dalla comunità internazionale, dall’altro, l’Esercito di liberazione nazionale, che controlla una vasta fetta del paese ed è guidato dal maresciallo Khalifa Haftar, ex partigiano di Muammar Gheddafi, sostenuto da numerose potenze straniere, tra cui la Russia, gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita l’Egitto e la Francia.
    A partire da aprile 2019, il maresciallo Haftar lancia delle offensive per prendere il controllo della capitale libica e far cadere l’avversario. Questi conflitti colpiscono numerosi civili, tra i quali i migranti. Vari centri di accoglienza sono stati già bombardati, causando decine di vittime, e un numero importante di migranti è stato obbligato ad armarsi insieme ai diversi belligeranti.
  4. Maha Abdelhamid, « De la libération de la parole raciste à l’émergence d’un mouvement contre le racisme antinoir » (trad lett. Dalla liberazione della parola razzista alla comparsa di un movimento contro il razzismo anti-nero) in: Amin Allal e Vincent Geisser (sotto la direzione di), Tunisie : une démocratisation au-dessus de tout soupçon ? Parigi: CNRS Éditions, p. 343-356.