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Riconoscimento dello status di rifugiata a cittadina cinese, appartenente alla Chiesa di Dio Onnipotente

Tribunale di Roma, decreto del 21 febbraio 2020

Nel caso di specie il Tribunale di Roma ha riconosciuto la sussistenza di un fondato timore di persecuzione per motivi religiosi in capo alla ricorrente, cittadina cinese appartenente alla Chiesa di Dio Onnipotente.

In merito al timore di persecuzione, il Tribunale ha valorizzato l’appartenenza della ricorrente alla sede italiana della Chiesa di Dio Onnipotente, non soltanto quale elemento di prova della credibilità di quanto dichiarato in merito al proprio vissuto precedente l’espatrio (si segnala che, oltre ad acquisire certificazione in merito, il Tribunale ha altresì escusso quale testimone la rappresentante della Chiesa), ma anche in ragione del rischio che la libera professione di fede in Italia possa “essere conosciuta dalle autorità cinesi, costituendo un serio indizio oltre che un rischio effettivo di subire persecuzioni in caso di rimpatrio”.

Il Tribunale ha inoltre svolto un’approfondita analisi del contesto di repressione da parte delle autorità cinesi nei confronti dei fedeli appartenenti a confessioni non autorizzate ed ha osservato in proposito che non è necessario che la persona abbia già subito, prima dell’espatrio, forme di intimidazione o di privazione della libertà personale ai fini del riconoscimento della protezione: le politiche di repressione raggiungono un livello di intensità tale da ritenere fondato il timore di persecuzione sulla base della mera appartenenza a culti non riconosciuti dalle autorità (“le persone aderenti alle fedi religiose non riconosciute dal governo vengono perseguitate, arrestate e costrette a vivere clandestinamente il loro credo religioso per cui è del tutto fondato, contrariamente a quando dalla stessa [Commissione] sostenuto, il timore di persecuzione anche nelle ipotesi in cui il ricorrente non abbia subito minacce o atti persecutori quali il carcere”). Al riguardo il Tribunale ha poi evidenziato che “la possibilità che la richiedente debba rinunciare ad una condotta di vita che la potrebbe esporre a persecuzione, va considerata quale serio indizio della fondatezza del timore di subire effettivamente atti di persecuzione nel contesto di provenienza”.

Secondo il Tribunale la limitazione della libertà di culto in Cina riguarda “qualsiasi religione che non sia iscritta e registrata presso i dipartimenti per gli affari religiosi (Bureau of Religious Affair)” e sussiste “una generale e preoccupante persecuzione nei confronti di chi appartiene a chiese non registrate e dunque non sottoposte al controllo del governo”.

Il Tribunale ha poi rigettato l’argomento della Commissione Territoriale secondo il quale la ricorrente non sarebbe credibile in quanto espatriata legalmente dal proprio Paese nonostante avesse affermato di essere ricercata nel Paese. Al riguardo il giudicante dà rilievo alle spiegazioni fornite dalla ricorrente, che aveva riferito di non essere stata segnalata a livello nazionale, ed ha poi sottolineato l’elevato tasso di corruzione all’interno delle forze di polizia in Cina.

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Tribunale di Roma, decreto del 21 febbraio 2020