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La pandemia e la salute mentale: il disagio vissuto nelle corsie di un grande ospedale del Nord Italia

Di Gabriella De Rosa

L’emergenza sanitaria nel mondo non si ferma e i dati sono sempre più apocalittici. Per questo motivo le autorità consigliano di non abbassare la guardia. Il Covid-19 non è sparito e l’allerta mondiale rimane alta, anche se nel nostro paese la situazione sembra essere sotto controllo con piccoli focolai isolati. Le terapie intensive sono vuote e negli ospedali non si vive più quel clima bellico che aveva caratterizzato i mesi del lockdown.

Abbiamo visto immagini suggestive in televisione, e sicuramente non vorremmo che si ripetessero più. Li abbiamo sentiti inneggiati, li abbiamo chiamati eroi, ma come hanno vissuto realmente i medici e gli operatori sanitari durante quest’emergenza?
Subito dopo l’inizio della Fase 2 abbiamo intervistato un medico che lavora nel reparto di Psichiatria di un grande Ospedale del Nord Italia per farci raccontare la sua esperienza in prima persona di quello che succedeva in quei giorni.

D- Sono passati 10 giorni dall’inizio della fase 2 e sembra procedere bene. L’Italia sta ripartendo e possiamo fare qualche considerazione su quelle che sono le ripercussioni che questa emergenza sanitaria sta lasciando dietro sè. Sapevamo che tutto ciò avrebbe avuto un forte impatto sulle nostre vite, soprattutto dal punto di vista psicologico – oltre al dramma economico e sanitario che si è abbattuto sul nostro Paese. Un impatto tanto grande che l’OMS ha dichiarato una seria preoccupazione riguardo la nuova emergenza: la sanità mentale. Sei d’accordo? È reale quest’allarme?

R- Si, questo nuovo virus, con l’emergenza sanitaria che ha scaturito, ha stravolto e sconvolto la nostra quotidianità. Ci siamo trovati tutti ad affrontare una situazione con la quale il mondo di oggi non si era mai interfacciato. La pandemia ci ha costretti all’isolamento e alla solitudine delle nostre case e anche delle nostre menti. Per questo, sin dall’inizio dell’emergenza covid-19, sia la letteratura scientifica che clinici di noto spessore hanno espresso una certa preoccupazione rispetto a quelle che sarebbero state le conseguenze. Difatti, la paura del contagio e il distanziamento sociale hanno avuto ed avranno un significativo impatto sulla nostra salute mentale, sia a breve che a lungo termine.

D- Un panorama che non avevamo mai visto prima né che ci saremmo immaginati. In così breve tempo abbiamo dovuto modificare le nostre vite, e ora facciamo fatica a pensare di tornare davvero alla normalità.

R- Ci è stato piuttosto chiaro sin da subito, sin dal decreto di marzo che annunciava la chiusura dell’Italia, che questa pandemia avrebbe modificato il nostro stile di vita, in modo più o meno drastico la nostra società e il sistema sanitario, per non parlare della chiamata al senso civico individuale che ognuno di noi ha dovuto risvegliare, talvolta fallendo. “Restate a casa” un monito nelle strade deserte e città fantasma come ai tempi di guerra: il contraccolpo emotivo e psichico era piuttosto prevedibile e forse inevitabile.

D- Poteva essere in qualche modo evitabile? Dato che era abbastanza chiaro lo scenario che si sarebbe presentato all’indomani del lockdown, cosa poteva essere fatto per evitare quest’ulteriore disagio?

R- Nell’era della medicina preventiva, nel paese della sanità pubblica di cui tanto ci vantiamo? Si, poteva essere quantomeno attutito. Eppure nessuna istituzione ha pensato di tutelare i più deboli, di attuare un programma di prevenzione attiva del disagio psichico derivato dalla situazione in cui riversiamo, che è piuttosto grave.

D- A cosa ti riferisci? È grave la situazione in cui siamo o la mancata tutela dei deboli dall’alto?

R- Entrambe, ovviamente. Psichiatri e psicologi ci hanno provato, da soli, senza un sistema davvero strutturato alle spalle. Singolarmente o tramite associazioni di volontariato o di privati autofinanziati, su piattaforme e sportelli on-line per sostenere pazienti, cittadini e colleghi medici e infermieri sottoposti ad uno stress psico-fisico estenuante, prolungato per turni di ore e ore in ospedali assediati dal virus e dal panico. Con i propri mezzi, come potevano, loro erano lì, ad ascoltare la paura che vivevano. Il doversi arrangiare senza delle linee guida aziendali, con la sensazione di star sbagliando per ogni cosa che fai.

D- Abbiamo visto immagini strazianti e toccanti degli ospedali come campi di battaglia e medici e infermieri denotati come gli eroi che combattono per la vita. Oltre all’ovazione e al plauso mediatico, in che modo lo Stato ha cercato di agevolare questo inferno? Hai detto senza un sistema strutturato alle spalle, a cosa ti riferisci precisamente?

R- Linee guida, protocolli, direttive aziendali e regionali che diventavano sempre più confuse. Non si fa in tempo a capirle e applicarle che cambiano di nuovo. Difficoltà nell’imparare nuovi gesti da compiere, nuove accortezze da mettere in atto, copiandoci e aiutandoci a vicenda perché nessuno ci ha spiegato come avremmo dovuto comportarci e riorganizzarci. Gli operatori sempre più stanchi, risorse sempre più scarse. Sembra che, nonostante le buone intenzioni, le cose diventino progressivamente più difficili. Ad oggi, il risultato è forse più drammatico della più pessimista delle previsioni.

D- La burocrazia da sempre intralcia la nostra vita quotidiana ma questa volta, più che in qualsiasi altra circostanza, forse c’era bisogno di più fatti che parole e leggi, direttive e protocolli mal scritti. In questo clima caotico, in certi casi il distanziamento sociale non ha significato protezione dal contagio del virus ma esprimeva concetti come allontanamento e forse, se possiamo osare, abbandono. La paura del contagio è stata aggravata da paure da cui spesso si scappa con il semplice gesto di uscire di casa. Per alcuni, stare in casa era il pericolo maggiore.

R- Esattamente. Tra i servizi territoriali forzatamente chiusi, case di cura e ospedali in esubero, i pazienti psichiatrici si sono ritrovati più soli che mai. Gli individui affetti da disturbi mentali sono stati in gran parte abbandonati a loro stessi, relegati in situazioni socio-abitative disfunzionali, condannati a sentirsi per un’ennesima volta un peso per la società. Sono rimasti chiusi a chiave nelle loro paure a combattere da soli i loro mostri per tutta la fase 1, non senza pagarne gravi conseguenze. Ma solo con l’inizio della fase 2 e della fine del lockdown sembrerebbe scoppiata una vera e propria pandemia psichica. Ora le autorità sanitarie mondiali seguite dalla stampa lanciano l’allarme mental health ma qui, nella nostra realtà, gli psichiatrici sono considerati pazienti di serie B, ora più che mai.

D- I media ci hanno raccontato di un’altra categoria di soggetti deboli come gli anziani nelle RSA e la nascita silenziosa di focolai al loro interno. Ma non è stata posta molta attenzione ai pazienti psichiatrici. Com’è gestire il paziente psichiatrico in un contesto apocalittico degli ospedali degli ultimi due mesi? A cosa pensi quando parli di pazienti di serie B?

R- Ti posso raccontare della realtà che vivo ogni giorno: uno degli ospedali più grandi d’Italia. Qui, oggi, a più di due mesi dallo scoppio dell’emergenza covid-19, i concetti di sporco, pulito, contagio, distanza sembrano ancora poco chiari. Non ci sono percorsi separati definiti in modo corretto per la zona “sporca” e quella “pulita” (ossia contaminata dal Covid e non), non viene utilizzata una zona di filtro adeguata tra le due e i dispositivi di protezione (DPI) continuano ad essere utilizzati in maniera impropria.
In questo contesto, la gestione del paziente psichiatrico, soprattutto in pronto soccorso, resta arbitraria e scarsamente regolamentata per non dire caotica e disorganizzata.
Contagioso e resistente più di qualsiasi altro virus è lo stigma sociale nei confronti della malattia mentale e in questi mesi è cresciuto in maniera esponenziale e preoccupante. In più, il paziente psichiatrico non è più soltanto un diverso, un peso. Oggi è diventato un vero e proprio pericolo. Inaffidabile e ingestibile: considerato infetto di default. Tutto questo rende l’urgenza ancora più problematica del solito. Il paziente in agitazione psicomotoria diventa un sospetto Covid+ anche in assenza di sintomatologia. Viene portato dalle ambulanze del 118 direttamente in rianimazione del pronto soccorso per una sedazione. Non è affatto semplice effettuare un tampone rinofaringeo in soggetti agitati, a volte capita di doverli quasi costringere fisicamente, camminando sul filo sottile che segna il confine tra stato di necessità e violazione dei diritti umani. La sensazione che ne deriva, in molti operatori sanitari, è di disorientamento e sconforto.

D- Gli operatori sanitari sono disorientati per colpa dello stress a cui vengono sottoposti di cui parlavamo prima, vale anche per gli operatori psichiatrici? Quali sono le difficoltà che incontrate con questo tipo di pazienti?

R- Gli operatori si ritrovano a dover decidere caso per caso come gestire le procedure burocratiche, non avendo delle chiare direttive da seguire. Per mantenere puliti i reparti di psichiatria è stato deciso di effettuare tamponi rinofaringei a tutti i pazienti da ricoverare. Durante l’interminabile attesa dei risultati, il paziente resta in pronto soccorso, in genere in zona grigia, ma non può essere lasciato solo, soprattutto se si deve attuare un TSO. Se, inoltre, il paziente è agitato viene spostato in area sporca, col rischio di contagiarsi, nella stanza più isolata di tutte e sorvegliato da infermieri o medici del reparto di psichiatria, specializzandi per la maggiore, che si trovano a passare ore, magari di notte, nelle loro armature di plastica, da soli in una stanza isolata con un paziente agitato e potenzialmente contagioso. La violazione dei diritti umani dei nostri pazienti, in alcuni casi, si riflette anche su di noi.
Davanti a questi nuovi scenari si crea inevitabilmente tensione tra colleghi, ci si arrabbia, viene meno la solidarietà, l’attenzione cala, vacilla la solidità dell’equipe. Si ha paura di sbagliare. In questa confusione, l’ascolto empatico del paziente diventa faticoso, quasi impossibile. La comunicazione risulta complicata dalle mascherine, dalla distanza, dall’annullamento completo del linguaggio non verbale e dalla riduzione di quello verbale in alcuni casi.

D- Il virus ha colpito indiscriminatamente tutte le persone, ma in molte analisi emerge come i soggetti più marginalizzati siano stati dimenticati. Pensiamo ai cittadini stranieri irregolari, ai senza fissa dimora oppure ai richiedenti asilo con disagio psichico chiusi all’interno dei Centri di Accoglienza Straordinaria o nei centri di detenzione.

R- Ovviamente tra le fasce più deboli troviamo anche gli stranieri senza fissa dimora, senza residenza. Questi si sono ritrovati in una situazione molto complicata. Durante la pandemia tutti i servizi territoriali ambulatori del CSM, Sert, Centri di accoglienza per stranieri, rifugi per senzatetto sono stati chiusi o bloccati. Questo ha creato un peggioramento del disagio psichico. Anche il non poter ricevere le visite negli ospedali e nelle carceri o centri accoglienza o rsa e gruppi appartamento (soluzioni abitative semi indipendenti con disagio psichico o ritardo mentale).
In pronto soccorso una volta, ho assistito ad una ragazzina del Marocco. Era venuta in Italia a poco più di vent’anni insieme a sua cugina per cercare lavoro. A settembre torna in Marocco per la perdita della mamma e a gennaio ritorna in Italia per sistemare delle cose e per poi ritornare in Marocco per sempre. Purtroppo è rimasta bloccata qui a causa del Covid, senza la sua famiglia e senza un lavoro. I problemi che hanno accompagnato questa pandemia per questi soggetti deboli riguardano maggiormente la burocrazia. Gli uffici chiusi e i documenti scaduti li rendevano ancora più emarginati. Oppure le posso raccontare di un ragazzo rumeno immigrato senza residenza. La mamma lavora come badante qui e voleva trasferirsi qui con lei anche a causa della sua schizofrenia. Si è ritrovato bloccato in Romania da solo dove ha avuto un episodio ed è stato ricoverato. Purtroppo abbiamo assistito a tante tragiche esperienze di questo genere, lui da solo in ospedale mentre la mamma era qui bloccata senza potergli stare vicino. Finalmente, quando la mamma ha potuto muoversi è andata a prenderlo. Non avendo ancora la residenza sono sorti altri problemi, non hanno potuto curarlo poiché il ragazzo non aveva diritto alla sanità pubblica. Fortunatamente, esiste una cosa che si chiama Domicilio Sanitario, quando in mancanza di residenza ma sei domiciliato con un residente italiano, puoi richiedere una tessera sanitaria provvisoria e almeno avere un riferimento sanitario. Ovviamente non ne erano al corrente.
Per quanto riguarda i senza fissa dimora, ci sono tanti che hanno subito tantissimo il disagio del lockdown perché una casa in cui chiudersi non ce l’avevano, i centri di accoglienza sono andati in esubero e molti sono stati quarantenati come le RSA. Una volta, un operaio marocchino di un centro accoglienza dove c’era stata la positività al covid, è arrivato in pronto soccorso. Non poteva andare a lavorare fino a quando non fosse risultato per la seconda volta negativo al virus ma i tamponi non arrivavano e lui, come tanti altri, aveva bisogno di lavorare. Quel giorno per avere un tampone decide di arrampicarsi su una gru minacciando di suicidarsi. Posso portarle un altro esempio del disagio che vivono i senza fissa dimora. In reparto ho un uomo nigeriano senzatetto psicotico. Dopo un episodio finisce in carcere, nel reparto detenuti dell’ospedale in carico alla psichiatria, e con l’infermità mentale e TSO poi in reparto. Oggi le sue condizioni psicofisiche sono migliorate ma non possiamo dimetterlo fino a quando non troviamo una situazione abitativa. Abbiamo mosso servizi sociali, centri accoglienza però se prima tutte queste cose erano difficili ora lo sono ancora di più. Il discorso è sempre questo, non il Covid ha creato dei disagi, i disagi già c’erano. Il Covid li ha slatentizzati. La verità è che questa pandemia ha amplificato delle mancanze istituzionali, burocratiche e procedurali carenti in già molto critiche in epoca ante-covid. Presi dall’ottimismo ci eravamo illusi che queste cose in risposta a questa pandemia potessero cambiare e migliorare, che ci si desse una mossa dal punto di vista politico. Ma non è stato così. Non sono stati fatti passi in avanti verso una società più accessibile anche verso soggetti più deboli.

D- Nell’assenza generale di tutela ai più deboli quali potevano essere le attività di prevenzione e di assistenza verso queste persone, che in molti casi per l’assenza di titolo di soggiorno non hanno diritto nemmeno al medico di base?

Rispetto a questa domanda, dal mio punto di vista da medico posso solo rispondere in base a quello che vedo. Potrebbe rispondere più ampiamente una persona che si occupa in prima persona di questa tematica come gli assistenti sociali. Dalla mia prospettiva, mi viene da dire che la possibilità di richiedere il domicilio sanitario, di usufruire di un’assistenza sanitaria anche senza avere la residenza sia un ottimo strumento. Quei pochi mezzi che abbiamo però vengono poco utilizzati. La popolazione media non sa, soprattutto un immigrato non sa che esistono queste possibilità. Ad esempio, a volte gli immigrati irregolari non passano neanche per i centri accoglienza a bassa soglia perché hanno paura quindi sono maggiormente esposti a rischio. Quello che è venuto a mancare con questa pandemia è la territorialità, l’azione sul campo per i senza fissa dimora e gli immigrati. Molti che hanno vissuto in condizioni abitative scandalose non hanno chiesto aiuto perché avevano paura di rischiare o di uscire di casa. Vero è che molti servizi si sono mossi online, ma noi privilegiati ci dimentichiamo che non tutti hanno possibilità di un accesso a internet o banalmente alla linea telefonica, nonostante ci sembri assurdo oggi nel 2020. Quindi non si poteva arrivare a tutti online.
Quello che mi viene da pensare su cosa si poteva fare era concepire una specie di porta a porta. Un po’ come è successo con l’iniziativa “chi può metta, chi non può prenda“. Erano cestini dove mettevano beni di prima necessità in maniera autonoma in varie postazioni della città. Una solidarietà di territorio che ha funzionato bene. Trovo che sia una cosa molto bella, e che se fosse stata più grande, fornendo anche un ascolto, un aiuto concreto sparso per la città sarebbe stato più facile prevenire e curare i più deboli e gli emarginati dalla società. Ma forse questo è il mio essere idealista che mi fa concepire quest’idea…

D- Sembra che quest’emergenza abbia destabilizzato il sistema sanitario trovandosi a gestire una nuova e terribile realtà ponendo delle sfide agli ospedali e agli operatori sanitari difficili da accettare e superare. Sembrerebbe che non fossimo pronti a gestire una simile tragedia.

R- Come una casa di paglia che vola via al primo soffio di vento, la struttura di questa realtà socio-sanitaria sta crollando sotto il peso della superficialità e dell’ignoranza. L’emergenza sanitaria in corso a mio avviso è soltanto una cartina al tornasole di un sistema già pericolante, destabilizzato dai tagli economici e dalle politiche sbagliate degli ultimi 30 anni. Il virus è stato solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso, insomma.

D- Cosa possiamo imparare da questa crisi per il futuro?

R- La speranza che questa crisi possa portare ad un cambiamento in positivo rischia di essere soffocata dalla paura di prendersi delle responsabilità, soprattutto “ai piani alti”.
Tuttavia, mi piace pensare che, in questo momento di enorme vuoto comunicativo su diversi livelli, potremmo riuscire a sentire davvero la solitudine profondissima a cui sono condannati i soggetti con disagio psichico, oggi più che mai. Da sempre, lo stigma con cui la nostra società ha marchiato la malattia mentale si riflette anche sugli operatori della salute mentale, rendendoli a loro volta degli operatori di serie B. Forse per la prima volta, però, iniziamo a percepire questo disagio e questo dolore ad un livello molto più personale che professionale. E mi auguro che il futuro della psichiatria in Italia sia composto da persone, non solo da professionisti.

Queste erano le parole che testimoniano direttamente la situazione sanitaria durante la pandemia. Ma oggi com’è la situazione dei nostri operatori sanitari?
Lo stesso medico ci dà una risposta che delinea un quadro molto chiaro sulla realtà sanitaria del nostro paese e dei lasciti di questa terribile esperienza.

D – Sperando che quella fase di caos infernale non torni più a imperversare gli ospedali, cosa ha lasciato questa pandemia nel sistema sanitario nazionale?

Mentre l’Italia grida alla guarigione e alla liberazione dal virus, noi sappiamo bene che non è finita. La pandemia c’è ancora, anche se sembra che sia tutto passato non è così.
Noi operatori sanitari siamo ancora oggi quelli più esposti all’infezione, siamo esposti ad un enorme rischio ma siamo stati già dimenticati. Si è già passati da “Siete i nostri eroi!” a tornare in Pronto Soccorso di notte sputarci in faccia se non diamo loro quello che furiosamente vengono a reclamare…
La stampa si è ammutolita. La stampa che passava le giornate a far gli applausi ai medici, oggi non dice più nulla. Dall’ultimo inserviente al primario, gli operatori sanitari hanno pagato il prezzo con la vita, la malattia, l’energia, la stanchezza e l’umanità per tutta una serie di lacune che riguardano solo marginalmente la sanità in senso stretto. Ma riguardano un substrato economico sociale e politico molto problematico che in Italia abbiamo sempre messo sotto al tappeto, considerandolo un affare scomodo. Tutto ciò ci ha portato allo sfacelo durante questa pandemia e si ripercuoterà per ancora tantissimo tempo…anche se – sensazione personale – per la stampa e i media è ormai un argomento sorpassato… come se non ci fosse più niente da dire a riguardo.