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Confine croato, il “game” è tutto fuorché un gioco

Il resoconto di un viaggio di monitoraggio a Maljevac, confine centro meridionale tra Croazia e Bosnia

Il 25 luglio 2020 siamo partiti in due volontari dalla zona dell’Alto Vicentino per raggiungere il nuovo magazzino della ong No Name Kitchen situato a Maljevac (Croazia).

Questo locale è stato affittato da NNK per poter gestire il materiale proveniente dalle donazioni che deve essere smistato tra i presidi di Velica Kaladusa (Bosnia Erzegovina) e Sid (Serbia) nonché fare da punto di appoggio per gli attivisti che lavoreranno nel territorio.

Nei locali della warehouse bisognava costruire un bagno, una cucina, una stanza da letto e tutte le scaffalature di cui il magazzino ha bisogno, più riordinare tutto il materiale presente che in questi mesi di Covid, non si era potuto tenere in ordine.

Ragazzi e ragazze da tutta Europa rispondono a questo appello e nel giro di due giorni scopriamo di non essere gli unici ad arrivare con attrezzi e materiale da costruzione e in pochi giorni tutto prende forma.

Questa warehouse si trova a due chilometri dal confine con la Bosnia Erzegovina, proprio alla frontiera oltre la quale si trova Velika Kladusa, una cittadina ormai nota per la presenza di molti migranti.

Qui al magazzino conosciamo Maya, attivista croata di NNK che fa la spola tra Zagabria, Maljevac a Velika: lei può passare il confine senza troppi controlli per il Covid proprio perchè è croata (un europeo non entra facilmente in Bosnia Erzegovina senza un passaporto e un certificato per Covid negativo) e torna quando può a prendere materiale e a riportare notizie.

Quello che ci racconta è sconcertante, ha il tono della voce teso quando ci dice che recentemente il campo del “Miral“ (il campo profughi ufficiale gestito dall’IOM) è stato riaperto: ora le persone in transito possono entrare e uscire liberamente mentre prima, per questioni legate al Covid, anche se in modo strumentale, non era permesso.

Le persone tendono a restarne fuori per respirare un po‘ di libertà, per ritrovarsi e anche per tentare il “game“.

Maja inoltre ci racconta che sull’argine del fiume di Velika e in giro per la città si sono “accampate“ circa 1000 persone che vivono in tende di fortuna coperte da teli di nylon, senza acqua, senza poter lavarsi, senza cibo e senza cure mediche: non sono solo i ragazzi provenienti dal Miral ma anche da altri campi del cantone di Una Sana.

Ci conferma anche di recenti pushback nel corso dei quali, come al solito, chi viene intercettato dalla polizia croata viene picchiato, spogliato dei vestiti e del cellulare e rimandato al di là del confine croato di nuovo in Bosnia.

Sappiamo che ciò avviene non solo con chi viene trovato in Croazia: questi pushback vanno a ritroso fin dal confine italiano e quindi anche sloveno.

Sempre Maja ci racconta che uno dei pochi canali per restare in contatto con queste persone sono le chat Facebook e purtroppo non ci sono mezzi e risorse per aiutare tutti: per chi vive sulla strada o lungo il fiume è un inferno, nelle giornate più afose sono più di 40 gradi e quando piove sono dei nubifragi e si allaga tutto.

Qui l‘azione della macchina repressiva si percepisce appieno: uno dei confini più sorvegliati della “fortezza Europa“ è proprio qui in queste terre.

Dopo i lager turchi e gli immensi campi profughi greci come Moria o Lesbo, questo è l’ultimo baluardo delle nazioni europee riunite, incapaci di vedere e agire.

Qui il capitalismo si difende da quelli che sono “figli“ suoi: figli disconosciuti creati con guerre, crisi climatiche e usurpamento di ricchezza nelle terre da dove provengono queste persone.

In questi giorni tra un lavoro e l’altro ci prendiamo il tempo per andare a vedere il confine: organizziamo dei trekking per monitorare la presenza delle forze di polizia.

Le strade che intendiamo percorrere seguono il confine attorno al cantone di Una Sana, da Topusko fino alla frontiera vicino a Bogovolja.

Siamo stupiti, ma ce lo aspettavamo: in una stradina di campagna, nel giro di pochi minuti incontriamo quattro furgoni della polizia di frontiera, alcune sono ferme al posto di blocco, altre girano piano, con un agente che continua a scrutare l’orizzonte con un binocolo, a caccia di uomini. Questo sono diventati i corpi di polizia alle frontiere, mercenari cacciatori di uomini. Il loro compito è ricacciare in Bosnia i migranti che tentano il “game“, il “gioco” che molti provano più e più volte, per mesi se non per anni.

Lo tentano più e più volte perchè la posta di questo gioco è la loro stessa possibilità e libertà di vivere perché non è vita quella in uno squat o in un centro per migranti: chi si abbandona e cede a vivere in questi centri o ricoveri di fortuna viene inghiottito in un vortice di degrado dove malattie, fame, povertà vengono amplificate dall’uso inappropriato di psicofarmaci e droghe.

Stare qui è come stare a guardare da vicino un incendio sul quale non puoi intervenire direttamente.

Speri che quello che stai facendo possa essere in qualche modo utile alle persone e agli attivisti di NNK ma ti invade comunque un forte senso di impotenza.

Continui a chiederti cosa invece si può fare di impattante, che svolti la situazione, che abbia riscontro deciso, veloce ed immediato. Capisci che è tutto troppo assorbito nella quotidianità, in quella che sta diventando la normalità.

Proprio perchè crediamo che non sia, e non debba essere questa la normalità, non quella che vogliamo e che accettiamo, vogliamo parlarne il più possibile, in maniera che il mondo sappia cosa sta accadendo in queste terre.

Ne parliamo nell’attesa di poter ripartire e dare il nostro, seppur piccolo, contributo.