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«Qui si sta meglio»

Dalla Grecia un articolo di Diego Saccora, APS Lungo la Rotta Balcanica

Qui si sta meglio”. E’ una delle frasi che più si sente ripetere alle persone che incontri nei campi della Grecia continentale. Lo dice Ali mentre ci offre dell’acqua ghiacciata seduti sulla sua branda all’interno del container 7g. La suite, come la chiama lui ironicamente, condivisa con altri 5 uomini, tra i 24 e i 47 anni, prima sconosciuti, oggi diventati inseparabili anche nelle cose più intime. Curdi siriani e iracheni, come il nostro amico.

Nel campo al nord ellenico vivono mille persone, un centinaio di famiglie con bambini. Quasi tutti hanno il loro container anche se gli ultimi arrivati devono sistemarsi in delle tende prima di poter accedere al tetto metallizzato. Fuori sono circa 40 gradi e non c’è un metro di ombra, chi può rimane al chiuso con il condizionatore in azione; chi può, perché non sempre funzionano, non comunque durante la notte.

Qui si sta meglio perché almeno le persone hanno lo stretto necessario per sopravvivere e non devono lottare per un vestito o un tozzo di pane. Lì è così, sempre. C’è troppo poco e si è in così tanti”. Lo sguardo si abbassa e ritorna con la memoria al tempo trascorso a Samos. Un anno e 7 mesi. Scuote la testa e parla a monosillabi nel tentativo di raccontare qualcosa di insopportabile, lui, che nella vita di esperienze dolorose ne ha dovute superare fin troppe, con la perdita di una moglie e di un figlio piccolo e molto altro ancora.

Per stemperare, ci mostra l’angolo cottura; è un esperto in cucina ed infatti, fiero, fa sfoggio di tutto il suo pentolame. Gli piacerebbe aprire un piccolo ristorante nel campo, significherebbe riprendere pezzi della propria identità, ma ha sentito che in passato la polizia ha sgomberato questo genere di iniziative e di altri soprusi non ne vuole subire. Quindi si limita al suo esiguo spazio.

Gli altri compagni di stanza ridono perché con lui non si parlerebbe d’altro che di mangiare, ma non partecipano alle nostre chiacchiere troppo impegnati con un videogame sull’iPhone. “Loro, invece, stanno davanti a quell’aggeggio tutto il giorno e nemmeno guardano più fuori dalla finestra”, sussurra indicando il vetro dietro le sue spalle da cui si può godere del panorama su una distesa di bianchi container. “Forse dovrei chiedere lavoro nelle ditte che li costruiscono, chissà quanti miliardi di fatturato hanno con tutti i campi che devono fornire”. Già.

Bussano alla porta, entra un altro degli inquilini. Gamba ingessata e stampelle. Un grande problema per lo spostamento, considerato come ci sia il nulla attorno al campo e la prima città disti a più di un’ora di autobus. Il costo, per intero a loro carico, è 14 euro per andata e ritorno, con moltissime corse cancellate e mai più ripristinate durante il lockdown. Lo prendevano prima della chiusura per andare a frequentare una scuola di greco ma da mesi nessuno ci va più, anche dopo la fine delle restrizioni. Ci viene mostrata un’area evidentemente di recente costruzione vicino all’ingresso, già vista in altri campi. “Quella l’hanno fatta per le quarantene. Vedi? Nuovi container, circondati da nuova rete dentro la delimitazione del campo, filo spinato nuovo e splendente. Sembra più un carcere, no?”.

Qui si sta meglio”, uno stare meglio che implica una condizione peggiore vissuta in precedenza, si pensa. Kamala ha una laurea magistrale in economia applicata al marketing turistico conseguita in India. La incontriamo in un campo vicino a Salonicco mentre spazza il vialetto di fronte la porta della propria unità abitativa; da quanto ci raccontano la sua vita è ridotta a questo e poco altro. Non esce quasi mai, nemmeno partecipa agli spazi aggregativi dove potrebbe spendere le proprie competenze per aiutare altri. Parla almeno 6 lingue fluentemente. Quanto potenziale inespresso di cui lei si rende conto. “Lo so che potrei, che dovrei spendermi per questo ma guardate dove siamo. Un anno qui, altri 18 mesi a Moria. Non voglio più pensare né a quel periodo né a come ero arrivata lì, so solo che tornerò ad essere me stessa quando uscirò da questi posti e potrò riguardarmi allo specchio con normalità”.
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Insieme ai genitori vive anche coi fratelli e sorelle più piccoli, vanno a scuola solo grazie al sostegno di una Ong che li accompagna. Ma sono tra i più fortunati, il numero è limitato alle risorse e non tutti ci possono andare. Fare questo a dei giovani nel corso degli anni rischia di creare un gap formativo e culturale, che ne precluderà o almeno ne limiterà le opportunità, il futuro.

E’ più subdola ma anche questa è violenza, anche questa è privazione di strumenti per costruire un pensiero critico che sviluppi poi rivendicazioni, per prendere decisioni responsabili ed indipendenti, per mantenere viva la memoria e avere il senso di ciò che accade ad interi popoli.

Visitando altri campi e incontrando le organizzazioni operative dentro e fuori, un quadro chiaro ci viene delineato: diventare Ong registrata in Grecia è divenuto un processo sempre più lungo e con continue richieste di integrazione documentale.
Conoscendo il funzionamento di una organizzazione di volontari sembra che la nuova regolamentazione sia stata scritta appositamente per metterle in difficoltà.

Aumentano le pratiche, i requisiti a cui rispondere costringono ad elevare il livello dell’impegno, il costo monetario generale sale. Le organizzazioni più piccole rimangono escluse o debbono rivedere il loro operato e non tutte hanno le energie per farlo, a favore delle grosse realtà mainstream. O di nessuno. E’ altrettanto palese come venga data più importanza alla burocrazia piuttosto che al contenuto del supporto offerto, al valore dell’impatto sul morale e sulla salute generale delle persone, alle competenze a favore dell’istruzione e dell’essere facilitatori per la generazione di autonomie. In più, ha come effetto collaterale l’aumento della competitività tra le diverse realtà: più ti costringono a dimostrare quanto vali più si creano classifiche e classismi.

Secondo quanto ci è stato detto, molti dei nuovi camp manager subentrati ad inizio 2020 sono stati scelti tra persone rappresentative dell’attuale linea del governo, spesso ex agenti di polizia, le cui decisioni in diversi casi, hanno estromesso Ong dall’ingresso nel relativo campo nonostante svolgessero attività all’interno da anni. Salvo poi mediare un rientro con compromessi al ribasso.

Chi lavora all’esterno, per esempio gestendo da tempo dei centri aggregativi aperti a tutta la cittadinanza, ci racconta di subire controlli al proprio operato, ingerenze incomprensibili considerando come gli abitanti del campo abbiano libertà di uscita e usufruiscano di servizi a loro dedicati lacunosi, se non latenti, all’interno. Non vi è una criminalizzazione, sicuramente però è aumentata la pressione e i rapporti con gli operatori dei campi sono diventati più complicati.

C’è stata una lunga fase in cui la nostra collaborazione era percepita reciprocamente come fruttuosa e sinergica perché vedevamo le persone in momenti diversi, in un luogo meno artificioso ed emergevano anche difficoltà taciute o attitudini non rilevate. Adesso ti fanno sentire come indesiderato, a malapena tollerato, inesperto e da tenere all’oscuro sulle motivazioni di determinati stop nel consentire l’accesso alle attività.”
A sostenerlo il rappresentante di una organizzazione nordeuropea operativa in una città nella regione di Macedonia. “Non so se chi fisicamente viene chiamato qui a gestire si renda realmente conto dello storico legato alla permanenza di queste persone ma ad ogni modo contribuisce a derubare il loro tempo. Sembra si agisca per contrastare l’integrazione, qualunque cosa significhi. E davvero si stupiscono se poi fanno di tutto per andarsene?”.

Tutto questo avviene con l’aggravante delle difficoltà dovute ai mesi di lockdown; le Ong sono andate in estrema crisi per la scarsità di volontari su campo, con attività ridotte all’osso e spesso con un solo operatore rimasto per dare continuità in attesa della ripartenza. Ma tutto questo periodo e le nuove regolamentazioni, rallentano ogni cosa. “E questo ha fatto molto comodo a chi non vuole occhi internazionali a osservare, incontrare, mettere in discussione e denunciare”, sostiene un avvocato per i diritti umani di Salonicco.

Stratificazioni. Tipiche del “dividi et impera”. E discrezionalità, sulla base della quale una persona può finire in un luogo piuttosto che in un altro, avere risposte in tempi diversi alla domanda di protezione per poi dover rimanere ancora in attesa. Livelli di un percorso quasi obbligato a tappe che dagli hotspot nelle isole dell’Egeo porta alla terraferma, a una tenda in un campo, poi a un container, infine – forse – a un appartamento per qualche mese. Questa è una condizione vissuta da migliaia di persone, senza un merito particolare, se non quello di attendere mansuete. Non sono novità per chi si interessa a questi temi, ma nel 2020 ci si chiede, per quanto può durare?

C’è tempo per tutto, niente stress” ci dice ridendo Hamid, “per chi sa aspettare, ogni cosa arriva. Non ci credo nemmeno io ma ho alternative?”. Gli hanno appena comunicato che a settembre – dopo quasi 2 anni e mezzo, un figlio nato a Chios e una nata in un campo vicino a Ioannina – riuscirà ad avere per sé e la sua famiglia il documento di viaggio che gli permetterà almeno di andare a trovare la sorella in Belgio. Non la vede di persona da più di 4 anni, quindi c’è un’aria di festa nel container 5b con vista su una discarica.

E’ un obiettivo, la stella polare in questo momento. Il lavoro in Grecia c’è, ma senza contratto e praticamente senza salario. Ci stiamo rendendo conto che la situazione è questa. Grazie a chi aiuta me, mia moglie e i miei figli, ma non possiamo essere in eterno messi nella condizione di chiedere e ringraziare, noi vogliamo ricominciare a vivere.
Qui si è stati meglio
”.