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Braccianti, reportage dalla Fabbrica Occupata di Foggia

Il Covid-19 e la regolarizzazione non hanno messo in difficoltà il caporalato

Fotografie: Leone Palmeri

La Fabbrica Occupata in via Manfredonia è stata al centro della mia tesi di laurea nel 2016. La ricerca si concentrava su una fabbrica abbandonata che è stata occupata nel 2009 da un piccolo gruppo di braccianti agricoli. Nell’agosto del 2016 la Fabbrica era diventata una comunità di Pular e Wolof ben definita e pienamente inserita nell’economia locale e sociale della zona che circonda la città di Foggia. Ho deciso di tornarci poche settimane fa per capire cosa era cambiato, quali sono stati gli effetti della recente “sanatoria” e del Covid 19.
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Nella Capitanata, dal 2016 ad oggi non sembra essere cambiato molto. Dall’incontro con i residenti della Fabbrica e dalle interviste che ho realizzato, emerge un quadro molto simile agli anni passati. Nei territori del foggiano continua a esserci una pervadente situazione di sfruttamento lavorativo, basata su strutture socio economiche razziste e marginalizzanti.

Le persone che lavorano nel settore agricolo continuano a muovere l’economia italiana sotto il peso del caporalato e della marginalizzazione sociale ed abitativa. La crisi sanitaria del Covid-19 ha creato momenti di stallo durante le prime settimane di quarantena, in cui molte persone che lavorano nell’agricoltura hanno avuto orari lavorativi drasticamente ridotti, vivendo il completo abbandono dei datori di lavoro e dello Stato.

Si è lavorato tanto anche durante la pandemia”, dice Raffaele Falcone, segretario Flai Cgil Foggia, specialmente per la mancanza di lavoratori e lavoratrici che ogni anno si spostano seguendo l’economia agricola, e che quest’anno non hanno avuto lo stesso tipo di mobilità. Per questo, continua Falcone, “C’è’ stata una richiesta importante di manodopera all’interno dei ghetti ed in particolare nel ghetto di Rignano” dove ci sono stati casi in cui la paga è aumentata da 4 a 5 euro l’ora per la mancanza di manodopera.

Ivan Sagnet, attivista e fondatore dell’associazione No Cap, che ho incontrato, afferma che il Covid-19 non ha avuto effetti sul fenomeno del caporalato, che continua a regolare gran parte del bracciantato agricolo nella regione. Per di più non sono state prese precauzioni significative per prevenire il contagio da parte dei caporali e delle aziende agricole.

Le condizioni di lavoro continuano a essere determinate dal caporalato e dal cottimo, e le paghe si aggirano intorno ai 25-30 euro al giorno. Gli orari di lavoro continuano a essere di 10-14 ore, con le solite condizioni contrattuali in cui vengono dichiarate meno ore di quelle che vengono effettivamente lavorate, e la maggior parte dei braccianti continuano a vivere in insediamenti informali e ghetti. Fortunatamente, spiega Sagnet, “fino ad oggi non ci sono stati casi particolari di contagi o focolai negli insediamenti dei braccianti”.
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Parlando con i residenti della Fabbrica, mi rendo conto che il Covid-19 è ancora rimasto una realtà estranea. “Io non ho sentito di nessuno che ha preso il COVID, neanche amici di amici”, mi racconta S.B., un guineano di 28 anni che vive a Foggia da sette anni. Tuttavia, anche se come patologia il virus continua a rimanere lontano, ha comunque avuto effetti significativi sulle vite delle persone che lavorano nel settore agricolo foggiano.“Durante la pandemia si lavorava pochissimo, tutto continuava, ma avevano tutti paura e si lavorava forse 2 o 3 ore al giorno”, continua S.B..

Anche se non sono ancora usciti i dati ufficiali sulle percentuali di persone che hanno presentato domanda di emersione nella capitanata, Ivan Sagnet mi spiega che sulle circa 15.000 persone che avrebbero potuto beneficiarne, ci sono state solo tra le 1.000 e le 2.000 richieste. Tra questi non mancano episodi di singoli lavoratori che sono riusciti a regolarizzarsi grazie a datori di lavoro sensibili alla loro situazione, attraverso i sindacati, o attraverso le reti di aziende etiche come quelle all’interno del circuito di No Cap.

Il problema principale è stato, secondo Sagnet, il non coinvolgimento delle aziende agricole, poi il costo per avviare la procedura, 500 euro per ogni lavoratore, ha disincentivato i datori di lavoro. Tutto ciò si è aggiunto ad una procedura macchinosa ed estremamente burocratica. Molte aziende, continua, sono rimaste completamente all’oscuro rispetto alle possibilità e le caratteristiche della sanatoria, e ci sono stati vari episodi di racket in cui lavoratori e lavoratrici hanno dovuto pagare grandi quantità di denaro per regolarizzare la propria posizione. La breve durata dei permessi di soggiorno, rinnovati ormai solo per lavoro, complica ulteriormente la ricerca di contratti regolari dato che è molto rischioso trovarsi temporaneamente disoccupati, e le lunghe giornate lavorative non facilitano la ricerca di altri impieghi.

Bisogna regolarizzare le persone e non i soggetti economici” dice Ivan Sagnet alla fine della nostra intervista, “è un fatto di civiltà e di giustizia sociale”. Una frase che rimanda a come il problema continui ad essere nella struttura economica e legale del mercato del lavoro italiano, e mette in luce come l’approccio dello Stato continui ad essere errato, considerando “il migrante” come origine esterna del problema, invece di vedere le mancanze nelle leggi e politiche sociali del lavoro.
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Anche se nella Fabbrica non ci sono donne, il ruolo che svolgono all’interno dell’economia agricola della regione è estremamente rilevante dato che rappresentano il 55% circa della manodopera nel settore agricolo, arrivando in alcune zone come nel Salento al 60%. Nelle zone che circondano Bari lo sfruttamento lavorativo delle donne è infatti molto più accentuato, e ogni giorno tra le 20.000 e 30.000 donne sono vittime di sfruttamento lavorativo e caporalato.

Lavorano soprattutto nei magazzini e nelle fabbriche, ma lavorano anche direttamente nei campi nella raccolta dell’uva, delle ciliegie, delle fragole e di altri frutti che sono più delicati. Secondo Sagnet, i motivi legati alla forte presenza di donne all’interno del settore agricolo sono riconducibili al fatto che “sono più attente, ma anche perché guadagnano il 30% in meno rispetto agli uomini. Non si ribellano e i rischi che facciano problemi sono minimi”.

A Foggia, puntualizza Raffaele Falcone, “la maggior parte delle donne lavora nei magazzini, e sono soprattutto italiane, est europee e qualche africana”. Il lavoro nei magazzini e nelle fabbriche è comparabile a quello nei campi, e “ci sono molte situazioni di grave sfruttamento lavorativo”, spiega Falcone. Le giornate lavorative durano tra le 12 e le 13 ore, le condizioni di lavoro espongono a rischi di contagio le lavoratrici che si trovano vicine e in ambienti chiusi, gli è concesso di andare al bagno solo 2 volte e devono rimanere in piedi per la totalità delle 13 ore.

Dentro la Fabbrica

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La Fabbrica occupata in via Manfredonia continua a essere un punto di riferimento per molte persone dei paesi subsahariani che vivono nel foggiano, e una casa per una settantina di braccianti agricoli. Con una comunità di uomini Pular e di Wolof che vivono nei due rami della struttura, è diventata ormai una realtà conosciuta da tutte le istituzioni locali e dalle organizzazioni non governative ed internazionali che lavorano nel territorio.

Entrando dal cancello principale le cose non sembrano cambiate molto. Ci sono le bici e i motorini usati per andare a lavoro appoggiati ai muri dell’edificio, e alcuni panni stesi sui fili che attraversano l’ampio cortile inondato dalla luce delle ore più calde. I pochi che attraversano il cortile si dirigono verso un nuovo rubinetto di acqua potabile che ha portato il comune nella seconda metà di agosto. Un miglioramento significativo dato che prima si usava il pozzo del cortile che contiene acqua non potabile, e da cui si deve trarre i secchi a mano. Per la corrente c’è ancora un generatore davanti ad uno degli ingressi. Dopo qualche gradino, si vedono sulla porta delle istruzioni, suggerimenti, e informazioni riguardo il Covid-19 che Intersos ha affisso in inglese, italiano e francese.

Molti degli uomini che vivevano nella Fabbrica nel 2016 sono in altri paesi, in altre regioni, o si sono trasferiti in appartamenti in città o dai loro datori di lavoro. Ma spesso tornano, e continuano ad esserci persone che vivono lì ormai da anni.

Secondo Falcone, più della metà dei residenti della Fabbrica ha preso due bonus agricoli, dato che la maggior parte di loro ha più di 50 giorni di lavoro dichiarati nel 2019. Alcuni sono riusciti a prendere il reddito di cittadinanza, ma persone come S. B. hanno ricevuto una sola rata, o non avendo informazioni e supporto, non sono riusciti a farne richiesta.

Nella Fabbrica, la CGIL offre assistenza per quanto riguarda il rinnovo dei permessi di soggiorno, le dichiarazioni dei redditi, e per quanto riguarda la parte emergenziale collaborando direttamente con Intersos e Caritas, per far fronte a situazioni critiche dal punto di vista sanitario, oltre che per il ricollocamento, la fornitura di vestiti e di beni di prima necessità. Con Intersos il sindacato lavora molto su questioni che riguardano le malattie e gli infortuni legati al lavoro, dato che spesso le difficili condizioni del lavoro di campagna provocano dolori e infortuni.
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Per contrastare il diffondersi del Covid-19, hanno distribuito delle mascherine fornite dalla Regione, oltre a fare campagne di prevenzione insieme agli altri enti presenti sul territorio per sensibilizzare le persone ai rischi e i comportamenti da mantenere. In questi contesti è “difficile” però dice il sindacalista, “far capire e far rispettare le norme di sicurezza perché ci sono difficoltà a capire la gravità del fenomeno, anche se stanno diventando sempre più coscienti, da quando il virus sta colpendo i loro paesi”.

Un aspetto che non è cambiato negli anni, è che non ci sono denunce che vengono dalla Fabbrica, che è una comunità autogestita nata come risposta al caporalato, e i residenti sono autonomi e hanno rapporti diretti con i loro datori di lavoro. Tuttavia ci sono casi di sfruttamento lavorativo che si risolvono spesso senza dover far ricorso al tribunale, tramite vertenza o mediazione del sindacato.

Per gli stessi motivi, non ci sono stati episodi di racket o di vendita di finti contratti di lavoro per la regolarizzazione tra i residenti della Fabbrica, dato che chi ne aveva bisogno è stato in grado di relazionarsi direttamente con i propri datori di lavoro. Diversa invece è la situazione negli altri insediamenti informali come Borgo Mezzanone, dove la maggior parte delle persone non ha rapporti diretti con le aziende per cui lavorano, e si sono dovute affidare a persone estranee o intermediari.

M.D. un uomo Senegalese che vive nell’edificio occupato da più di 5 anni, racconta che nella sua squadra composta di 4 persone lui e altri 3 hanno chiesto al loro datore di lavoro di avviare il procedimento per la sanatoria. “Adesso sto aspettando,” mi dice, “gli ho dato i miei documenti e lui ha detto che va a fare la sanatoria, vediamo come va”.
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Molti dei residenti della Fabbrica hanno beneficiato della procedura attraverso il comma 2, che ha permesso, a chi ha lavorato con un contratto in agricoltura e ha un permesso scaduto dopo il 31 ottobre 2019, di fare richiesta in maniera autonoma per ottenere un permesso temporaneo per poi trasformarlo in uno per lavoro. “L’unico ostacolo sono i 130 euro per il Formulario F24“ dice Falcone, “anche se non sono tanti in paragone alle quantità di denaro che si spendono per ottenere una richiesta di asilo”.

Nonostante questa possibilità, molte persone non sono riuscite a beneficiare della sanatoria, e “il comma 2 ha cercato di sopperire in maniera molto blanda al decreto sicurezza, senza veramente riuscire a fornire un aiuto alle persone che devono rinnovare un permesso di soggiorno. Se si voleva avere un effetto significativo”, conclude Falcone, “bisognava almeno farla valere per due anni e includere le persone che avevano un permesso scaduto dal 2018”.

Rispetto al passato, c’è stata una presa di coscienza rispetto al lavoro, si sono cominciate a conoscere le buste paga, i contratti e gli aspetti legali e burocratici della vita lavorativa che prima erano quasi sconosciuti. Ma ciò nonostante nella Capitanata molti non hanno datori di lavoro disponibili, oppure accesso a informazioni o supporto, e le condizioni di sfruttamento lavorativo continuano a dominare la loro esperienza del lavoro agricolo.

Quando vivi a Foggia, ti svegli la mattina alle 4 per andare a lavorare, e poi quando torni da lavoro sei stanco, mangi e vai a dormire. È impossibile trovare il tempo per fare queste cose, o per capire come funzionano le cose. Poi [i datori di lavoro] non ci dicono niente, perché per loro è meglio che noi non sappiamo niente”, dice S.B. parlando del suo lavoro.

Leone Palmeri

Sono un antropologo basato in centro Italia, specializzato in diritti umani agricoltura e migrazione, con esperienze in organizzazioni internazionali, le nazioni unite e con organizzazioni non governative locali che lavorano sulle intersezioni tra migrazione ambientalismo ed agricoltura. Sono madrelingua inglese ed italiano, amo viaggiare, e nel mio tempo libero scrivo articoli sui contesti migratori che mi circondano.